Di SONIA CAPOROSSI
Nell’approccio ad un qualsivoglia testo poetico, indipendentemente dal sottogenere al quale, malauguratamente, si vuole ricondurre l’opera in questione, sia essa lirica o civile, gli elementi che normalmente balzano agli occhi con immediatezza fanno capo ad alcune caratteristiche poietiche di carattere formale che ne delineano, anche a livello di contenuto, sostanza ed intenzioni. Non potrebbe essere altrimenti, stando nella forma il discrimine che separa la prosa dalla poesia, risiedendo nella forma e solo nella forma il quid plasmatico che la fa apparire, in senso veritativo, come tale. Analizzandone lo spettro compositivo dal punto di vista formale, quindi, si scardina il testo poetico dall’interno approdando, per suo tramite, al senso e all’argomento, al tema e al contenuto, senza apparente sforzo e, soprattutto, facendo sì che il critico più cauto, soprattutto quand’è in odore di stroncamenti, possa mantenersi del tutto privo di sovrastrutture e ideologismi.
Aprendo la raccolta poetica Stigmate_&_Stilemi di Gerardo De Stefano (Thauma Edizioni, Marzo 2012, n. 13, Regione Veneto, colore arancione, curatore per il Veneto: Alessandro Assiri) [i], subito si nota una di queste caratteristiche formali a fungere da lanterna per il critico speleologo, ovverossia la lunghezza notevole dei versi sistematicamente ipermetri, tanto da essere molto spesso impaginati per verticale, togliendo il respiro al lettore ad alta voce e facendogli agognare una poco probabile andata a capo; e subito dopo emerge con chiarezza e prepotenza la ridondanza spuria di una versificazione ininterrotta, reduplicantesi su cataste solo apparentemente disarmoniche di versi sgraziati, mortuariamente vitali nella loro voluta esagerazione, gravitanti, come sono, attorno ad un’aura satellitare di a-lirismo programmatico. Una poesia che consiste, insomma, nell’esatto contrario della frantumazione e del frammentismo di vociana memoria, anzi, si manifesta in forma di elefantiaca ripetenza, seguendo una formula informe di sequenzialità nominale, aggettivale o avverbiale, bimembre di norma più spesso che trimembre, che appesantisce la scocca di questa mastodontica macchina da prose – poem in cui consiste, già ad un primo sguardo, la poesia di Gerardo De Stefano.
Si veda ad esempio Bile a p. 68, nella sua sequenza associazionistica a livello semantico e fonetico, in una qualsiasi delle sue quartine:
Fumabile, inimicabile & sommergibile
Inamidabile, prosciugabile & indicabile
Indicibile, invivibile & espurgabile
Invisibile, appariscente & sottraibile
[…]
O anche, a p. 47, un’altra quartina abbastanza priva di grazia:
Raccapricciante gettito multicolore sfavorevole
Sondaggio postumo delle differenze standardizzate
Prodotti in serie non mutevole / Lamiere tragiche di ferro
Acidi corrosivi torturatori dell’inevitabile scivoloso […]
Salta subito all’occhio l’utilizzo, da parte dell’autore, di fonts particolari e caratteri a stampa dotati di valore significante autonomo, come & oppure le barre \, | e / a spezzettare emistichi all’interno dei vari ipermetri, oppure, ancora, il corsivo con funzione enfatica; più che ad elementi stilometrici, ci si trova di fronte a limiti di un ostentato neoavanguardismo civile che si rifà, più o meno consapevolmente, alla tradizione di certa avanguardia storica, in particolare a un futurismo rabberciato e di tardo pelo, apparentemente permeato di dadaismo picabiano e scrittura associativa automatica che non ha più, dopo tanto e dopo tutto, ragion d’essere (p. 53):
Famelici avvoltoi costipati in volanti giri aerei
In affamato splendido sfarzo alato
Alla ricerca del genuino corpo per il pranzo
Biologicamente voraci & istintivamente rapaci
Alla vista l’agguato in picchiata […]
O ancora (p. 54):
Vortici & sequenze di vibrazioni
Stalli paradossali & problemi d’afflizione razionale
Ingaggi rafforzati & sconquassi privilegiati
Date a colui che possiede quel che ancora vuole
Spirali lente & velocissime cascate audaci
Malattie tattili & cocenti moduli di medica frequenza
Spettacoli variopinti & malsani intrattenimenti del tempo
Soggiogate colui che debole scivola nell’autoevolversi […]
Questo tentativo mimetico formale che spoetizza e rende prosaico (e prosastico) il verso si accompagna molto spesso, nel contenuto, ad un brullo sessantottismo di ritorno, che lascia il tempo che trova appalesando, come fa, motivazioni malcerte nel niente – di – nuovo urlatore e programmatico (p. 52):
Finiscila!
La vita distruggila! \ Spaccala! / Perfora il perforabile! \ Annienta l’annientabile!
Ruttalo! / Liberati lo stomaco dai gas nocivi sentiti in bocca la vaporosa essenza
Di una pura avanguardia di nullità evanescente di un rosa porpora appariscente
Illogica casuale consequenziale particella dell’ibrido naturale […]
Altre volte, questa poesia – scrittura si installa in un ben noto casellario di versificazione post-industriale, sventolando la denuncia delle aberrazioni contorte (e quindi, denunciandole contortamente) della nostra mostruosa società dei consumi e delle storture capitalistiche contemporanee; e allora, in certi casi, il verso si ingentilisce e appare quasi armonico e degno, ricordando movenze esistenzial-sociali la cui matrice potrebbe essere agevolmente rintracciata nel prototipo del Vittorio Sereni di Una visita in fabbrica (come nella poesia ispirata a Lamberto Pignotti a p. 62, a cui s’accomuna nei temi e nei problemi):
Dovrei rompere la catena
Ma di che cosa è fatto l’obbligo?
Tutto il mio corpo proclama che devo spezzare la catena
Chi ha costruito questa serie d’anelli?
Anche il mio cervello acconsente al proclama
Forse hai chiuso tu il lucchetto a questo legame?
Dovrei spaccare il sigillo
Ma chi mi ha incastrato in questa scatola?
Sento delle voci che mi dicono di scassare il suggello
Chi ha concordato questo tipo di patto?
Il mondo intero arriva a confermare il coro delle responsabilità
Forse è il denaro che m’obbliga a sudare?
[…]
Denuncia accorata e dubbiosa, che in questi versi fa un certo effetto; e che però, si badi bene, in De Stefano emerge come se fosse (e di fatto, è) la stessa cosa rispetto a quanto se ne diceva e scriveva negli anni Cinquanta, e Sessanta, e Settanta; non solo e non tanto essendoci già stati, con ben maggiore spessore letterario ed intellettuale, un Pasolini, un Fortini, un Sanguineti, un Volponi, ma anche e soprattutto perché la sua ripetizione, pure in forme nuove rispetto alla tradizione della poesia civile e alla neoavanguardia del Gruppo 63, forme nuove che poi abbiamo scoperto, in De Stefano, vecchie come il cucco, non si dà in generale che nel superfluo categoriale, in quanto non si può in nessun modo analizzare il mondo di oggi, che non è più lo stesso, con gli strumenti di ieri. Per questo motivo, dal libello di De Stefano, non si riesce ad estirpare un vivo senso di letterarietà come esercizio, e pure brutto; senza esito, inoltre, rimane il tentativo di identificare puranco un singolo stilema autonomo e non d’accatto che possa dare ragione al titolo della raccolta.
Poi, all’improvviso, balugina un appiglio interpretativo illuminante, una possibilità ermeneutica fondante, laddove si nota il montalismo ecoico nell’uso della prima persona plurale come attribuzione ad una percezione collettiva di un contenuto simbolicamente velato, tramite la variatio della seconda persona singolare all’imperativo, come accade a p. 50 e altrove:
Subiamo & ingrandendo
Plasmiamo il vello della chioma
Pulsiamo contenti nell’evento inatteso
Siamo a tutti i costi girevoli di circostanza avariata nel variabile
Siamo sempre siamo
Esistiamo sempre viviamo
Consunto sempre sfinito
[…]
Falcia il sopruso | Martella la menzogna | Pensa al pensabile
& assolda il killer perfetto
Ingaggia finalmente la mente pura
Recluta la prova che ti alza il mento
[…]
Con questo procedimento, si rende civile e plurale ciò che in origine sarebbe esistenziale e singolare; e tale meccanismo viene spesso riciclato all’interno della raccolta, anche in forme edulcorate e dissimulate dal pizzutismo dell’infinito presente standardizzato, come a p. 37:
Investire invertire imbrogliare capitalizzare
gonfia & scarica
Azionati dall’azionista
Firmare filmare trattare maledire imbrogliare
Vendita & compravendita
Venduti dal venditore
[…]
Altrove, l’elencatio classica è l’espediente attraverso il quale si attua la reduplicazione anaforica come tecnica d’ossessione martellante, nel sintagma strutturale che delinea una compulsione scrittoria priva di varianti contenutistiche vere e proprie e che, proprio per ciò, si affida alla sovrabbondanza e al barocchismo (p. 56):
Con la straordinaria partecipazione di un arcobaleno a 6 colori
Con un non comune prender parte all’agitazione generale della meraviglia
Con un’insolita presenza di pazienza esercitata al gesto del bene provato
Con un inconsueto intervento di volontà ricostruttrice a stracolmo pieno volere
[…]
Eppure, fin dalle prime pagine, si capisce il perché di questo gorgo egotico che liquefa in un altoparlare di sé il civilismo collettivo e l’apparente poesia sociale di cui la raccolta è permeata (p. 22):
Io sono la vittima
L’ingranaggio poco oliato sono io
Lo stridulo del meccanismo esce dalla mia gola tagliata
Quello che perde sangue vitale è il mio corpo immacolato
La mia mente è sconfitta al cospetto del sempre vivente
Io sono quello che esistendo subisce l’ignoto perennemente esteso
[…]
Sono io che esalto la malattia comune \ Io che m’invento il germe devastatore di massa / il morbo vario
La mia sembianza si crea il mondo sbagliato iniettato malvagio & saturo
La mia retina fallendo si colma d’immagini fantastiche \ di realtà plasmata
L’encefalo fa fatica ad elaborare l’Immenso comprendente frammenti materiali
[…]
Ecco il palesamento (in bello stile, questa volta) della sincerità, il disvelamento programmatico della dissacrata centralità dell’Io: ecco la verità. Tutta la poesia di De Stefano è generata dall’enfiata enfasi elefantiaca, come direbbe Gadda, del Pronome, della Prima Persona Singolare, in una specie di acromegalica distorsione della personalità, per malattia di gigantismo: è, quindi, civile per finta. Giacché la realtà d’intorno, lungi dall’evidenziarsi, lungi dall’emergere nella più pura oggettività dell’ermeneusi critica, si sbriciola invece dietro le allucinazioni caleidoscopiche di un Io che stenta a percepirla per come è. Ed allora anche il verumfactum, anche l’appalesarsi della Storia con la S maiuscola diviene tormento di stanchezza e ripetizione infinita in una ciclicità metaverbale e metapoietica, manifestandosi in un’esausta fenomenologia dello spirito del poeta, che è poi il senso camuffato dell’intera silloge, anche e proprio laddove, invece, sembrava comparire un’analisi arrabbiata e senza peli sulla lingua del reale circostante, sia esso di volta in volta la società, la Storia, l’economia, lo stato dell’arte o l’arte dello Stato (p. 128):
Ancora, collocandomi storicamente
Sono arrivato alla fine esausto e con un’illuminazione sulle mie idee
Per il mio essere esistente
Adesso, posso dire con sotterfugio
Che io sono storicamente stanco e afflitto, dal perdurare di questa disfatta
Che senza logica regola, gli uomini stanno all’affanno supremo
Dopo studi coesi, arrivo a dire che sono sfinito realmente,
da tutta questa sembianza infinitamente ripetitiva
Totalmente stufo, della stessa logora schifosa assassina Storia di sempre
Ed ecco che la poesia di De Stefano, nei versi migliori, laddove non si riveli crassamente come semplice prosa che va a capo (perché altrove non è che un affastellarsi illeggibile di furberie parolaie), non rivela altro che la tautologia, sincronica e diacronica, del reale, la sua indefinibilità e sostanziale irrappresentabilità verbale se non nella verbosità di cui egli fa ovunque sfoggio tranne che in questo componimento a p. 55 e in pochi altri luoghi:
Le cose stanno così
Mutevoli, implacabili
Così, si situa l’intraprendenza
Le cose stanno così
Imparziali, si agitano
Così, si regola l’espansione
Le cose stanno proprio così
Tutte tese, con la mistica musicale
Così, accompagnate a fuochi di prestigio.
Questa è una delle migliori composizioni per armonia interna, per assenza di ossessioni manieristiche e incendiarie e per significanza catartica. Ma quei fuochi di prestigio e d’artificio del verso finale, troppo spesso in questa silloge composta di poco sostanziale e di molto superfluo, gli deflagrano fra le mani lasciandone moncherini che non possono reggere la penna e che, in definitiva, non valgono proprio la pena.
[i]La Collana Poetica Itinerante, ideata da Serse Cardellini e Stefano Sanchini, è un’iniziativa lodevole ad opera di Thauma, contemporaneamente un’associazione culturale che opera in quel di Pesaro ricercando su scala nazionale giovani talenti poetici e l’omonima casa editrice ad essa collegata. L’organizzazione capillare della collana fa sì che esista un curatore per ogni regione d’Italia che funga da scopritore e mecenate, peritandosi di ricercare nuove voci poetiche da inserire in collana. Ogni regione all’interno della stessa è riconoscibile da un colore differente di copertina e dall’assenza del titolo e del nome dell’autore sul dorso. L’intenzione esplicita è quella di “unire l’Italia poeticamente”. Inoltre “lo scopo di questo progetto è sopperire all’appiattimento culturale del paese e alla messa al bando della poesia, filosofia e quant’altro in ambito culturale viene considerato pericoloso agli occhi del potere che sempre di più, oggi, ostacola qualsiasi vitalità creativa e audacia critica”, come si legge nel foglio di presentazione allegato ai vari testi della collana.
Denso, compatto , fumante. Zang Zang Tumb Tumb , Prot prot.
“anche l’appalesarsi della Storia con la S maiuscola diviene tormento di stanchezza e ripetizione”
ho il sospetto che la stanchezza verso la storia sia una tendenza dei nostri tempi, la coscienza storica diventa pesante. è una conseguenza dei fallimenti moderni o semplicemente prevale l’interesse per l’attualità? la coscienza storica è sostituita dall’informazione? è possibile ipotizzare un futuro in cui la nostra coscienza storica cambi insieme alle forme di partecipazione politica? ci sarà l’accettazione di nuove gerarchie economiche e religiose? criticare stanca?
Personalmente preferisco la poesia tendenzialmente ermetica, in ogni caso breve e ficcante. Sono figlio di babbo Dante. Comunque complimenti per il lavoro speso, e anche all’autrice della recensione.
Trovo interessanti le premesse dell’articolo, ma mi chiedo se un critico “del tutto privo di sovrastrutture e ideologismi” sia davvero possibile. Auspicabile? Come dire, l’attenzione per la forma o la struttura ci assicurano davvero una forma di neutralità? Oppure il discorso critico è sempre – sotterraneamente, magari-, logorato da un partito preso? Ripenso, adesso, all’articolo che scrissi su Todorov: è possibile anche un uso ideologico del formalismo, non soltanto del tematismo (sul piano, quindi, dei contenuti). Infatti T. accusava Blanchot di “idealismo” nel nome delle magnifiche gesta del formalismo da lui importato in Francia.
Aggiungo che attaccare la forma è, in genere, più devastante che attaccare il contenuto al quale, d’altra parte, si ritorna sempre.
Bella l’idea della collana di ricerca su territorio nazionale, che trasforma questo non-Paese in cui fingiamo di vivere, se mi permettete un po’ di sarcasmo foscoliano, in una “cartografia” poetica. Sperando che vi sia la tanto agognata distribuzione…
Che fatica…
Sonia, sull’egomania hai ragione. Arriva subito. Però, molto semplicemente, leggendo solo quelle poesie o parti che trascrivi, vorrei dire: il poeta, anche quello “civile” cioè interessato al contesto più di altri, o per ragioni biografiche – non so, l’Achmatova cui uccidono il marito e il figlio, che si scaglia contro lo stalinismo – cosa deve fare del suo povero io? Nel senso di io cogente, sempre presente, sempre fra le pa..? Io, che scrivo un po’ poesie, ho capito che, spesso, la sincerità arriva dall’io, e quasi sempre percorre le vie più soggettive, dirette. Se ho subito (vissuto) qualcosa, lo esprimo con maggior forza. Se penso qualcosa in astratto, mah… Forse è un’ovvietà. Quello che fanno i grandi poeti, è di oggettivare questo impulso soggettivo. Come ciò succeda non lo so. Uno legge Mandel’stan e succede. Brodskij e succede. Walcott e succede. Io, per finire questo discorsetto che vuol essere un riconoscimento della critica puntualissima e suggestiva di Caporossi, vorrei mettere in guardia molti dal liberare il loro ego e nello stesso tempo di incatenarlo o truccarlo. Insomma, è un lavoro difficile. Allora, ho sulla punta della lingua, la paroletta magica: talento. Un talento da equilibristi spontanei. E si può diventare buoni poeti? Mah…Thauma è una giovane iniziativa, che vuole superare steccati, se ho ben capito. Complimenti. Anche per il loro giovane entusiasmo. Che fa molto bene alla “repubblichetta” delle lettere.
Difficili, le stroncature in poesia, ardue, controverse. Bisognerebbe cercare di spiegare ai giovani poeti d’oggi di stare molto attenti ai cattivi maestri, quelli dal facile lirismo parafilosofico, quelli dal realismo senza contenuti, descrittivo e superficiale. La poesia è un lavoro duro, spesso silenzioso, anonimo, che si costruisce leggendo, apprendendo, studiando, come eremiti. Non scarabocchiando versi bizzarri e originali. Andrebbe stroncata molta dell’ultima produzione poetica italiana (quasi tutta, a mio avviso, con le eccezioni dei grandi maestri, pochi, in verità, che sono rimasti, come Elio Pecora). Proprio per questo, sono alle prese con un libro di critica sulla poesia del Novecento che ho iniziato a scrivere, non potendone più di questo clima mediocre di mediocri che si autocelebrano.
Ciao Sonia
È un piacere scoprire che ancora oggi esistono seri e vivaci lettori di poesia, in grado di dar voce a una dialettica costruttiva attorno a un testo. Sinceramente grazie, dunque, per il tempo che hai dedicato al libro di Gerardo.
Nel rispondere alla tua critica sarò relativamente laconico.
Come prima cosa tu dici che l’opera di Gerardo è malauguratamente un “sottogenere” per stile e contenuti. Mi piacerebbe essere illuminato sul sopragenere, specialmente in questi tempi dove ogni stile di scrittura viene indicizzato con l’appellativo di tendenza, in mancanza di vere e proprie correnti letterarie; infatti, in ogni tendenza poetica è implicito che vi sia inevitabilmente un sottogenere, altrimenti non si chiamerebbe tendenza. La questione, dunque, è capire quale poesia, oggi, non sia da considerarsi un sottogenere.
In secondo luogo, dico con tutta onestà che mi piace tantissimo quando definisci la scrittura di Gerardo come “elefantiaca ripetenza”, non avrei trovato espressione migliore per descrivere, nel mio caso in senso del tutto positivo, quel suo mastodontico verbigerare che volutamente scaglia parole sul foglio come fossero pietre destinate a lapidare il lettore, con un linguaggio che a volte è tutt’altro che lapidario. La poesia di Gerardo rientra nella tendenza e, dunque, nel sottogenere, non della scrittura automatica ma, piuttosto, di quella compulsiva che, tra l’altro, riflette perfettamente la sua personalità. Altro che disonestà intellettuale. Gerardo scrive come vive, cioè in modo del tutto compulsivo. Questa caratteristica, a mio parere, è già di per sé una meravigliosa qualità poetica.
Infine v’è da dire che è ovvio che il verso di Gerardo è facilmente associabile al linguaggio del Gruppo 63 e più precisamente a quello di Pagliarani, se ne accorgerebbe anche un bambino, né c’è alcuna intenzione di nascondere questa lampante verità, come anche è ovvio che ci sono dei contenuti di protesta che hanno fatto il giro del mondo. Bene, dico io. Ma forse è più difficile cogliere come Gerardo, nel suo scritto, faccia sguillare il proprio Ego addosso a quell’ideale di avanguardia letteraria e sociale di fronte al quale, ahimé, se non vogliamo soccombere in una stitica malinconia, non possiamo far altro che ridergli in faccia. In questo senso, ripeto, quella di Gerardo non è disonestà intellettuale ma una cinica presa di coscienza, dove uno dei modi per esorcizzare il passato letterario, non privo di insuccessi, è quello di deriderlo nel presente. Questa si chiama ironia poietica ed è quella che c’è in Gerardo, il quale ripropone in maniera esasperata forme e contenuti che hanno attraversato il nostro Novecento.
Grazie davvero Sonia, anche per l’attenzione che hai rivolto alla nostra iniziativa Thauma.
Serse Cardellini
(l’editore del libro di Gerardo)
Ciao Serse,
ti ringrazio del tuo intervento a cui vedrò di rispondere in modo rapido e conciso, giacché mi sembra che in più punti tu abbia travisato, ed in altri invece avvalorato il mio scritto critico.
1) Io non ho scritto che “l’opera di Gerardo è malauguratamente un “sottogenere” per stile e contenuti”; ho scritto, al limite, che è malaugurato, da parte del critico, non del poeta, “l’approccio ad un qualsivoglia testo poetico” laddove lo si voglia appunto riportare ad un genere o sottogenere in fase di analisi; pertanto, espongo il mio metodo ermeneutico che opera, di prassi, “indipendentemente dal sottogenere al quale, malauguratamente, si vuole ricondurre l’opera in questione”. Questo perché, dal punto di vista interpretativo, l’incasellamento preliminare di un’opera in un sottogenere è per il critico poco accorto un “falso amico” che lo induce spesso e volentieri ad applicare crassamente clichés letterari a priori; e questo non è onesto intellettualmente, per cui io, partendo dall’analisi formale, non lo faccio nella prima fase dell’approccio. Parto, insomma, dall’analisi formale per poi, tramite questa, arrivare a contenuto e al genere, e vedere se contenuto e genere siano adeguati alla forma. Tutto qui.
2) “Elefantiaca ripetenza” piace anche a me, sì; Gadda docet.
3) Il rimando a Pagliarani e al Gruppo 63 dubito che lo riconoscerebbe un bambino; e se anche tutti i bambini che vedo nelle scuole elementari e medie fossero improvvisamente diventati nipoti e pronipoti di Porta e Sanguineti, cosa ci sarebbe di male ad evidenziarlo in un pezzo critico?
4) “Ma forse è più difficile cogliere come Gerardo, nel suo scritto, faccia sguillare il proprio Ego addosso a quell’ideale di avanguardia letteraria e sociale di fronte al quale, ahimé, se non vogliamo soccombere in una stitica malinconia, non possiamo far altro che ridergli in faccia.”. A me sembra anzi di aver messo in evidenza proprio questo punto, l’elemento egotico di Gerardo di fronte ad una tradizione d’avanguardia. Poi non so. Il rischio è che venga da ridere a leggere alcuni poeti, a dirla tutta.
5) Scusa, ho scritto da qualche parte che Gerardo sia disonesto intellettualmente? Le “furberie parolaie” a cui faccio cenno rappresentano, piuttosto, un modus essendi della sua arte. Ho scritto a chiare lettere, fra le altre cose, invece, e proprio in fondo in fondo per semplificare, che nella mia opinione di critico produce molti versi brutti, ma non tutti; ed ho provato ad argomentare perché. Di nuovo, tutto qui.
Grazie ancora dell’intervento, teniamoci in contatto per le prossime uscite di Thauma, la vostra iniziativa editoriale è veramente da lodare.
Sonia Caporossi
Grazie Sonia dei rimandi e dei chiarimenti, però concorderai con me che espressioni come “sottogenere” o “furberie parolaie” si lasciano largamente e, credo, anche volutamente interpretare. Diciamo pure che, in fondo, in ogni parola c’è sempre il giusto spazio per i fraintendimenti. Ma è bello proprio per questo, altrimenti addio ermeneutica. Ad ogni modo ribadisco tutto il mio apprezzamento per il tuo dimorare nel testo poetico. E di certo ci terremo in contatto. Ancora grazie. Serse
applausi.