I gruppi poetici e gli insiemi di Cantor: una riflessione sull’indeterminatezza poetica d’oggi

Poetare stanca?
Poetare stanca?

Di SONIA CAPOROSSI

 

Osservare dal di fuori un fenomeno socioculturale garantisce, costitutivamente, lo statuto privilegiato e un poco snob dell’outsider. Ed io lo sono sempre stata, come poeta e come critico. Un critico outsider è impuro per definizione, per condizione esistenziale, per stato hegeliano delle cose. Ed al buon intendimento di chi, come direbbe Alberto Savinio, è un ipocrita in senso buono perché etimologicamente “osserva la realtà da dietro la maschera”, insomma al lettore – critico, a chi si picca nobilmente della capacità di disamina delle cose, umilmente vorrei porre due domande molto semplici. La prima riguarda l’abuso di riferimenti all’età anagrafica che sempre più spesso editori, critici ed autori stessi compiono nell’identificazione precipua del poeta in quanto tale, ed è la seguente: che senso ha definire un poeta in base all’età anagrafica? La seconda domanda invece si riferisce alla prassi dei collettivi letterari ed è la seguente: che senso ha far gruppo, gruppo poetico intendo, se poi esso diventa in breve tempo un insieme di Cantor?

La mia idea, molto semplice e poco settaria, è che oggigiorno i raggruppamenti poetici effettuati dall’esterno in virtù di un quid in comune siano diventati, se non impraticabili, quantomeno problematici, da un punto di vista eminentemente sociologico. È questo un discorso di sociologia della letteratura divenuto determinante per identificare in modo chiaro e distinto il panorama di ciò che noi di Critica Impura, nelle riunioni di redazione, chiamiamo spesso “tutto ciò che gira intorno” all’universo poetico e letterario: in particolare, occorre chiedersi che ruolo oggi avrebbe l’età anagrafica nell’individuazione della validità poetica o meno di un determinato scrivente, di un determinato gruppo. E porsi questa domanda in epoca di TQ diviene obbligatorio addirittura in senso morale. Quanto ai gruppi poetici propriamente detti, se volessimo delinearne socraticamente il tì estìn, potremmo definirli istituzionalmente come collettivi di poeti accomunati da poetiche ed intenzioni artistiche comuni. Concepiti in questo senso, non credo che si possa essere loro contrari in senso assoluto, anzi, i gruppi poetici sono stati, all’interno delle varie temperie che hanno conformato la storia della letteratura di questo vituperato Paese, di fondamentale importanza nella determinazione delle poetiche che rivelano il senso di un’epoca: e però, circa lo statuto fondamentale dei collettivi poetici italiani odierni, sorge spontanea un’obiezione la quale, come spessissimo m’accade, assume le nefaste forme di un’elucubrazione filosofica. Un’apparente deviazione logico – matematica, persino, ovvero la seguente.

L’insieme di Cantor, vogliate per un istante seguirmi nel difficile parallelismo, è l’insieme che rimane dopo aver iterato il procedimento dell’individuazione di x intervalli fra 0 e 1 infinite volte; questo vuol dire che, applicando il concetto per analogia alla fondazione reiterata di x gruppi poetici, ciò crea una polvere, un’indistinzione, fino al punto che ci si domanda se all’interno dell’insieme sia presente davvero qualcosa; e allora il gruppo poetico appare in qualche modo come nell’insieme di Cantor. Se non c’è alla base una poetica predeterminata, chiara e distinta, un gruppo poetico o un altro pari sono, e allora che senso ha crearli, non avendo contenuti diversi da comunicare? Si giunge al punto che risultano carenti i contenuti stessi, ovvero la stessa distinzione stilematica, di poetica, di intenzioni, di ragioni. Perché dunque oggi ci si ostina a fare gruppo a rischio dell’indistinzione?

La mia personale risposta al perché oggi continuino a nascere gruppi poetici in assenza di poetiche differenziali è nuda e cruda, senza mezze misure: per ottenimento di visibilità, puro e semplice. È questo il motivo principale per il quale preferisco gli outsider.

Questo non significa che i gruppi poetici non debbano esistere, o siano divenuti di colpo tutti inutili, o non si diano che nell’impostura argomentativa e tematica, o, peggio ancora, non siano che fucine di pubblicità ad personam: significa, piuttosto, che occorre, con tutta l’onestà intellettuale necessaria e sufficiente al mettere in pratica la cosa, pensare di crearne fuori da qualsiasi ormai superata “geografia della letteratura” alla Dionisotti; che pur si mantiene valida come metodo ermeneutico ma che è sempre e comunque un’analisi a posteriori, in senso non esclusivamente geografico – attualizzante, bensì storico – geografico: “lì, lì e lì in Italia sono sorti dei cenacoli letterari; andiamo a studiare filologicamente e sociologicamente come e perché”, ovvero fuori dalla logica del “qua a Cinisello Balsamo manca, facciamone uno”, ché se poi il dialetto cinisellese non è adatto alla versificazione, si fa mucchio e basta, si reitera soltanto la polvere di Cantor: polvere si era, e polvere si tornerà.

Occorre quindi badare, prima di ogni cosa, all’eventualità dell’esistenza reale e concreta di una poetica differenziale che identifichi il singolo poeta o il gruppo, la corrente di cui egli fa parte. Occorre badare, prima di ogni cosa, all’eventualità dell’esistenza della specie poeta habilis, non poi così diffusa ma neanche a rischio di estinzione. Io vorrei infatti che emergessero i Poeti, non i Gruppi; vorrei, ancor prima, per la verità, che emergessero i Versi, non i Poeti. Vorrei, ancor prima, che emergesse la Forma, non soltanto il Contenuto. Perché la poesia è quella strana cosa nella genesi della quale, se la forma non c’è, il contenuto dilegua. Come i confini di un insieme. Come le staccionate necessarie a contenere il discorso, come qualsiasi altro tipo di logos. Vorrei, in una parola, che emergesse il TEXTUS, il TEXTUS, lo ripeto triadicamente come fosse un mantra: il TEXTUS sopra ogni cosa.

Come mi ricordava giustamente Luigi Nacci durante una conversazione di qualche tempo fa su questi stessi argomenti, “della scomparsa dei sodalizi letterari e dei gruppi di tendenza parlava già Berardinelli nella discussa antologia che tutti conosciamo. Ed era il 1975”. E tuttavia, Belardinelli focalizzava un punto che contiene un leggero shifting di significato rispetto a quanto qui si afferma. Così come lo contiene il suo enunciato. Oggi, infatti, i sodalizi letterari non sono scomparsi, anzi, nascono ancora come funghi in virtù del vetusto ed utilitaristico principio che l’unione fa la forza; e tuttavia, gli è che proprio non ha più senso parlare di “gruppi di tendenza”, in quanto il termine “tendenza” nel frattempo è diventato, rispetto all’epoca di Belardinelli, un lessema fuori da ogni enunciato, non più il semema di un discorso. Intendo dire che i “gruppi di tendenza” esistono solo in virtù di un concetto di “tendenza” assolutamente svuotato di pregnanza semantica, cioè di contenuti. Occorre ritrovare, piuttosto, il senso di un farsi gruppo operativo che si occupi esclusivamente della poesia, e non, per l’appunto, di “tutto ciò che le gira intorno”. Sono parzialmente d’accordo con Francesco Terzago quando afferma in questo senso che “l’arte, la letteratura, sono progredite nell’avvicendamento di generazioni e temi, nella lotta per il superamento, mentre ora tutto questo è stato messo da parte”: il punto focale dell’intera questione sembra allora essere il fatto che il conservatorismo intellettuale danneggia la formazione di un qualsivoglia sistema aperto, o gruppo d’apertura alle innovazioni, immobilizzando le nuove generazioni nelle secche castranti dell’autodeterminazione categoriale, nella pratica aberrante del gruppo in quanto, a ben vedere, forma paradossale di riconoscimento ed autoriconoscimento proprio nell’indistinzione. Sorge così un ulteriore problema, che consiste del resto nell’individuazione del conservatorismo di turno, perché non è detto che alcuni gruppi poetici o letterari d’oggi, capovolgendo la visuale, non siano conservatori a loro volta, quando in gioco c’è, oltre all’autoconservazione, l’emersione dal mucchio, troppo spesso scambiata dai simpatizzanti interessati per una sorta di lotta per la sopravvivenza, ma che invece è un gioco al massacro, in cui un naufrago spinge sotto la superficie la testa dell’altro per raggiungere l’aliscafo a discapito di chi rimane indietro.

In larga parte, il quadro desolante che ho appena tracciato dipende da ciò che si intende per textus e dalle differenti accezioni che questo termine fondamentale della critica letteraria racchiude. Richiamarsi alla centralità del textus come, ad esempio, la intendo io significa far salva la necessità che il verso sia il primum. Il prodotto finale come sintesi dei propri sforzi deve stare al centro non soltanto del discorso critico, come è stato più detto che fatto finora, ma anche, ed in modo eminente e sostanziale, del discorso poietico, creativo; questo non significa, banalmente, che i poeti d’oggi non badino affatto alla qualità del loro versificare (per quanto mi riguarda, chi non lo fa non si annovera neanche nella genìa dei poeti: ed io di poeti sto parlando), quanto che, molto spesso, troppo spesso, c’è tutto un universo d’intorno che influisce e devia la natura naturante del poetare, e che si manifesta, nel suo bieco fenomenologizzarsi, in forma, nell’ordine, di concorsi poetici fondati sul feticcio del poeta nomen omen, di polemiche letterarie costruite ad hoc per far polverone attorno al proprio nomen (che poi l’omen e la poesia verranno da sé), di personaggi piuttosto che di libri, di forma piuttosto che di sostanza….Questioni di lana caprina in fibra sintetica, messe in campo perché, come insegna Pagliarani, se si sta zitti poi passa l’onda, e allora tocca parlare, dire pure qualsiasi cosa ma intanto, che diamine, dire!, e scendere in campo e fare e far parlare, “perché sennò sulla coda ci mettono il sale”.

Insomma, per quello che mi riguarda e che riguarda il modus operandi della critica che ama e vuole dirsi impura, ciò che va senza timore espunto è proprio il malcostume di cui sopra. Quanto ai gruppi poetici, il plauso va attribuito, in prima istanza, a quelli che oggigiorno sviluppano un lavoro serio di ricerca sul territorio, di individuazione di voci poetiche giovani e nuove senza l’esclusivo discrimine dell’età anagrafica a discapito del valore estetico del verso e che siano in grado di identificare e stabilire un nesso tra una poetica pertinente ed autonoma ed una teoria della letteratura autosufficiente e non epigonale. Gli outsider, però, quelli che ignorano i collettivi e i sodalizi, capita che a volte spicchino per poiesi. Per energia, per fantasia, per habitus esistenziale ed attitudine poetica totalizzante.

E allora è molto meglio dirla tutta.

Io non credo che andando avanti con la sindrome del TQ si possa campare felici. Voglio dire, se quando scattano gli -anta, ma anche gli -enta, un poeta o uno scrittore che si senta preso in mezzo da una tale prospettiva ermeneutica tarata in partenza diventa per vox populi obsoleto, allora che celebriamo a fare un Zanzotto, attivo fino all’ultimo? O forse la poesia dipende dal personaggio? Ebbene, lo confesserò. Io sono malata della sindrome di Gilgamesh. Non si sa l’autore del poema, non si sa quanti anni avesse, chi fosse, cosa pensasse. Eppure non mi importa, mi va bene lo stesso, e nessuno mai, la dico fino in fondo, si scandalizzerebbe se mai si venisse a sapere chi era, come nessuno si scandalizza a pensare un Omero autore fittizio e collettivo spirito di popolo. Non mi scandalizzo non solo perché i poemi epici citati appartengono ad un’altra epoca in cui la distanza cronologica genera un’indistinzione per forza di cose inerme ed esangue, ma anche e soprattutto perché bado al testo, non all’autore. In fondo, quando leggo, mi si perdoni la tautologia, io debbo solo  leggere. E ciò sia detto senza alcun riferimento a Barthes, a Foucault, alla dinamica della sparizione del soggetto e alla morte dell’autore, perché non c’entra nulla: se l’autore non si volatilizzasse affatto come lo strutturalismo prescrive, l’occhio sinoptico del critico non dovrebbe comunque spostarsi dal testo di una sola diottria.

Quanto alla nuova e lanciatissima moda dell’elencatio dei poeti di vent’anni (intendo dire: quelli di valore), oggi mi vengono in mente solo nomi di outsider, laddove tutti gli altri rientrano negli anta e negli enta. Presenti compresi, Ianus Pravo eletto a Re degli outsider avanti con l’età. Fra le nuove leve, ci sono Manuel Micaletto, che  versifica molto bene con la sua ironica poetica dell’oggetto, c’è Daniele Bellomi, un poco avanti verso gli -enta ci sono Antonio Bux, Marco Scarpa, le migliori scoperte della Collana Poetica Itinerante (ma non tutte). Ce ne sono anche altri, oggi, di outsider, ma di quelli veri, non à la mode. E tuttavia che senso ha farne l’elenco, se poi ogni dieci anni viene pubblicata un’antologia come “I poeti di vent’anni” (quella a cura di Santagostini intendo), che contiene Alberto Pellegatta, Andrea Ponso eccetera, versificatori degni di ogni considerazione e rispetto che oggi, però, hanno trent’anni ed in base ad una politica editoriale diffusa bisognerebbe contarli fuori dal novero per lasciar spazio a nuove antologie? Allora, ecco la novità: il censimento dei poeti fra i venti e i quarant’anni ideato e diretto in seno al noto progetto di Pordenonelegge. Come dire: allarghiamo un poco a ventaglio l’età anagrafica e facciamone wikipedia.

Mi sorgono spontaneamente alcuni dubbi circa l’opportunità di questa lista, mera classificazione assiomatica che parte da un punto di partenza giudicato anapodittico, e quindi taciuto, in base al quale la semplice presenza di un nome al suo interno farebbe il poeta (facciamo epoké se ciò valga per la poesia). Ho già spiegato in precedenza che per me i gruppi poetici dionisottiani, ovvero geograficamente centroculati, lasciano il tempo che trovano. Ecco, insomma, un altro casus belli su cui si sta già polemizzando. È ancora più evidente come occorra urgentemente un ritorno dell’attenzione, da parte dei critici e dei lettori, alla centralità del textus proprio per combattere dall’interno l’habitus malsano alla semplice ricerca di visibilità, atteggiamento vanesio attraverso il quale dalla poesia propriamente detta l’attenzione s’accentra orizzontalmente sul nomen, che in virtù di chissà quale presupposto dato per buono, diviene omen poeticum non si sa come, non si sa perché. Come se non bastasse, oltre ad essere sbagliata metodologicamente, quella lista è puranco incompleta. La mia paura che un giorno quelli di Pordenonelegge s’incaponiscano anche su un censimento dei critici è reale: si salverà chi potrà.

Ai poeti, in fondo, quella lista è pur sempre prassi utile, per tenersi in contatto, fare cose insieme, creare rete: è anche collegata ad un concorso di poetry trailer. E tuttavia, la riflessione più importante riguarda forse l’evidenza di un fatto: l’impressione che i lettori hanno dei poeti, e non quelli contenuti nella lista della spesa, si badi bene, ma dei poeti in genere, ne risulta deviata, indirizzata, convogliata. Il profano s’affida alla saggezza di Pordenonelegge ignorando che si tratta di una lista categoriale autocostruita per tam tam e conoscenze [i]; vede una lista di poeti, dice: “ah, questi sono poeti” e gli sta bene così. L’indistinzione fra poetiche e stilemi va a farsi friggere danneggiando i poeti stessi, i cui testi, per la milionesima volta, rimangono l’ultima ruota del carro. Il profano esclama di fronte al pordenoneletto: “tu sei un poeta! Ho letto il tuo nome nel censimento”. Sì, ma che diamine abbia scritto quel poeta, in quale occasione, con quali intenzioni, quale sia la sua poetica, che stilemi e retoriche utilizzi di preferenza, quale sia il lavoro culturale che abbia in mente o stia svolgendo, a quale teoria della letteratura o visione estetica si rifaccia, qualcuno oltre agli addetti ai lavori lo sa? Su Critica Impura stiamo pubblicando da tempo testi inediti dei poeti proprio per ovviare a questa manchevolezza nell’atteggiamento dei lettori, diuturnamente coadiuvata dagli autori stessi e da ciò che chiamiamo “tutto ciò che gira intorno”, ovvero l’universo massmediatico circostante atto a conglobare, come un leviatano transeunte, l’innocenza e la sincerità delle cose e dei fatti, anche quelli d’arte. Come ci si difende da questa mercificazione avvilente ed ormai irrancidita? Recitando questo mantra: ogni cosa sta nel testo, il testo è tutto, signori. Si deve arrivare al pubblico tramite le parole, non tramite l’anagrafe.

Non occorre per questo decadere nella sindrome della dissipatio Auctoris, però un sano ribilanciamento fra il valore del testo e quello della mera fama autoriale non guasterebbe. Si tratta, a ben vedere, di un gravissimo problema interno alla critica letteraria, sempre più spesso sotto accusa perché non si impegna in larga parte a svolgere il proprio dovere a vantaggio della propria funzione di trasmissione culturale, perché dimentica troppo spesso che il proprio compito principale consiste nel discernimento tra ciò che è arte e ciò che non lo è. Ciò accade, io temo, perché alla figura del critico è carente un fondamento teorico estetico forte e chiaro. Oggi per la verità, esistono troppi critici improvvisati e troppi addetti stampa che si spacciano per tali. Difficile è identificare una figura di giovane critico che possegga tutti i crismi e le skills, si dice nel mondo dei videogiochi, perché sappia “smontare un grande autore”, come mi suggeriva proprio oggi Davide Castiglione.

Ma se si sanno smontare i grandi, gli epigoni poi scompaiono inevitabilmente nella polvere dell’indistinzione. È naturale, è matematico.

Proprio come un insieme di Cantor.


[i] Dal sito di Pordenonelegge: “Abbiamo individuato una ventina di poeti dai 20 ai 40 anni, in tutta Italia, noti anche per aver organizzato convegni, festival o antologie: abbiamo chiesto loro di segnalarci i più interessanti poeti della stessa fascia di età di loro conoscenza.
Dopo questa prima fase, che ci ha permesso di raccogliere circa 180 recapiti, abbiamo chiesto a tutti i 180 poeti di segnalarci, a loro volta, i poeti da loro conosciuti.
Dei 320 poeti di cui avevamo raccolto la segnalazione, oltre 240 hanno partecipato al documento finale, consultabile sul sito di pordenonelegge e della Scuola di Cinema: una sintetica bio-bibliografia, una poesia e un contatto web danno a questo documento il carattere di un inedito e straordinario punto di riferimento per una mappatura della giovane poesia italiana.” (http://www.pordenonelegge.it/it/tuttolanno/immaginare-poesia.html).

 

51 pensieri riguardo “I gruppi poetici e gli insiemi di Cantor: una riflessione sull’indeterminatezza poetica d’oggi

  1. ineccepibile, direi. Letto tutto, domani spero poter commentare meglio, ora le condizioni non me lo permettono 😛

    Grazie per la citazione, immeritata, ovviamente, ma ben accetta.

    AbbracciBux

  2. Analisi impura di una purezza sconcertante. Ne condivido la lucidità dello scavo e l’idea, a torto e da troppi ritenuta obsoleta, di un solido ritorno alla forma. D’accordo con la mutazione del presente e d’accordo con la deformazione politico-economica in atto, ma, se si abbandona la forma, secondo logica, non resta che una sostanza informe. Nella migliore delle ipotesi, qualcosa di amputato. Resta l’impossibilità costitutiva di essere pensati dall’opera d’arte e di pensarsi tali. Scompaiono le fondamenta e il significato dell’arte: la necessità di oltrepassare la vita, ricomponendola nell’ambito di un’evoluzione capace di rendercela meno devastante. E, se la globalizzazione è il punto di massima deriva economico-finanziaria, la globalizzazione in poesia ne decreterebbe la fine. “Perché la poesia è quella strana cosa nella genesi della quale, se la forma non c’è, il contenuto dilegua.” A proposito del TEXTUS, il principio è incontestabile, il desiderio ingenuo. Intendo con ciò i meccanismi che stanno alla base dei comportamenti umani e delle relazioni che tali comportamenti governano. Vale a dire, Sonia Caporossi pone al centro della scena, protagonista assoluto, il testo ma, al tempo stesso, non può ignorarne il continuo e storico sacrificio a sostegno di ben altre dinamiche regolatrici di un presente tutto italiano. Non sarà dunque capitale nella scelta dei poeti da antologizzare, verranno prima la conoscenza diretta, la partecipazione, la simpatia, lo scambio, gli interessi di parte, il gruppo, le appartenenze; il talento e l’ambizione contro il testo e il suo valore intrinseco, cioè spogliato dell’autore. Se il verso ambisce a scimmiottare la prosa, qualcosa di guasto è già oltre la realtà. Tanto vale parlare di mistificazione, di versificatori militanti, di impostori modaioli e in piena digestione sovrastrutturale. Quando viviamo, ci siamo dentro. Quando ci occupiamo di un “antenato letterario” siamo fuori, ed è uno scarto essenziale, una condizione umana che resta la più adatta nel dare ragione al TEXTUS.

  3. come ti dicevo ieri sera, Sonia, questo è un bel pezzo, che merita approfondimento, perchè mette molte questioni rilevanti sul tavolo. eppure c’è qualcosa che non mi torna.
    parto dalla sociologia letteraria spicciola. il censimento di pordenonelegge ha una sua struttura, un suo obiettivo e una portata specifica. diverso è il post di poetarum silva sui poeti italiani degli anni 80. e ancora molto diverse le antologie poetiche generazionali o, infine, il gruppo tq.
    una somiglianza tra tutte queste operazioni potrebbe essere il criterio anagrafico, che non è definitorio, nè definitivo. non credo, però, che sia questa la nuova barbarie che avanza, credo che si tratti di un fenomeno legato a vari altri fenomeni impensati come la debolezza della critica, la fase di transizione – ormai abbastanza lunga, e c’è chi ne gode… – nel cambiamento del sistema culturale italiano, etc. Anche chi mantiene posizioni critiche dure e pure è destinato a venire meno, e si scopre subito il gioco al quale sta giocando.
    Anche il territorio, ad esempio, è una parola abusata ma non del tutto compresa: proponi di superare le geografie letterarie dionisottiane, che nella poesia contemporanea continuano ad avere molta fortuna, sulla base del textus – ma chi si prende l’onere, e come, di costruire modelli alternativi? Per ora nessuno, mi pare… E poi così si perdono quelle relazioni tutto sommato positive che le iniziative territoriali hanno, in un contesto, appunto, dominato da relazioni – personali, istituzionali, etc. – esclusivamente condotte tra ‘esperti del settore’. E se non si propongono modelli alternativi, si rimane alla “generazione sì, generazione no”, “territorio sì, territorio no”, un tipo di polemica che non fa che riproporre il termine che non si vuole, magari, adottare. Mentre “generazioni” e “territori” fanno parte della nostra, come di molte altre, storiografie letterarie, quindi – come scrivevo proprio qui su CI, tempo fa – hanno una funzione residuale che non va resa iperbolicamente, nel bene o nel male che sia.

    1. Ciao Lorenzo, grazie del prezioso intervento.
      Hai ragione sulla giusta valenza del lavoro dei gruppi poetici sul territorio, cosa che tra l’altro all’interno del mio articolo, a leggerlo bene, non discuto ed anzi appoggio; il problema è la presenza, attenzione!, di una serie di gruppi poetici e cenacoli letterari che, al di là dell’imbracciare un microfono per le declamazioni in un giorno preciso della settimana all’interno di un locale che si presti candidamente all’opra per farsi vedere in giro, non fanno. Mi mancano insomma quelle operazioni veramente culturali, dotate di poetica differenziale e di un’operatività (“operatività è parola chiave) sul territorio e su scala nazionale, internazionale, intergalattica, di peso sostanziale, che al di là delle lectiones propongono un tavolo di lavoro.
      Il discorso, mi rendo conto, è profondamente critico, e verte sulla domanda capitale: tutti questi gruppi poetici posseggono, indipendentemente l’uno dall’altro, una poetica differenziale, hanno veramente qualcosa da dire?
      Ti lascio, tu poeta vicino ai lirici, con questo passaggio di Salvatore Quasimodo in occasione della sua lettura al ricevimento del Premio Nobel, 11 dicembre 1959:
      “il poeta è un irregolare e non penetra nella scorza della falsa civiltà letteraria piena di torri come al tempo dei Comuni; sembra distruggere le sue forme stesse e invece le continua; dalla lirica passa all’epica per cominciare a parlare del mondo e di ciò che nel mondo si tormenta attraverso l’uomo numero e sentimento. Il poeta comincia allora a diventare un pericolo. Il politico giudica con diffidenza la libertà della cultura e per mezzo della critica conformista tenta di rendere immobile lo stesso concetto di poesia, considerando il fatto creativo al di fuori del tempo e inoperante; come se il poeta, invece di un uomo, fosse un’astrazione.”
      Occorre davvero rifletterci tutti ancora una volta, poeti e critici.

      Sonia Caporossi

      1. Riguardo all’operatività, sfondi una porta aperta. In qualche discussione ho sostenuto la necessità di andare oltre i gruppi “contenti di prendere il microfono una volta a settimana nel locale amico” e di immaginare operazioni culturali corpose più ampie, non ricevendo risposta. (Per la sezione “autocritica”, i “gruppi” di cui faccio parte si sono posti questo scopo ma non l’hanno ancora concretizzato davvero, forse…)
        Sulla necessità di poetiche differenziali, invece non sarei così ottimista. La differenziazione delle poetiche può essere strumentale alla storicizzazione quanto lo può essere la “generazionalità”, e questo me lo insegna un Gruppo del quale non posso dire il Numero, che non è stato certi ‘strumentale’ in sè, ma sicuramente è nato già storicizzato, e chiamando dopo di sè il diluvio… ottenendolo.
        Sulla lirica, infine, che non mi rende prossimo a Quasimodo, tanto quanto la sperimentazione non rende prossimi a Sanguineti, a Spatola o a Costa così, d’amblè, accolgo il discorso “intellettuale” ma respingo il passaggio dalla lirica all’epica, necessario sì… ma nella poetica di Quasimodo.
        E penso che il lato intellettuale sia un discorso che si possa portare avanti, piuttosto, mantenendo fortinianamente le proprie posizioni. Cioè, tornando al discorso, inevitabilmente, di “Family Matters”: non è pensabile che in 240 ‘censiti’ ci siano tutti i Figliocci e le Figliocce dei Censori, qualcuno, e più di uno, e più di dieci, etc. che mantiene la bussola ci sarà…

  4. Complimenti alla Gent.ma Sonia Caporossi per questo intervento: importante, ricco di contenuti/riferimenti/riflessioni; tale da suscitare, in chi legge, non solo l’auspicata attenzione ma tutta una serie di concatenate riverberazioni intellettuali.
    Mi sono permesso di stamparlo e conservarlo per ri-leggerne – come ho già fatto un paio di volte – alcuni passi, dal momento che ad ogni lettura sono in grado di evocare ancora altri e diversi aspetti.
    Complimenti ancora, quindi, per una pagina così ricca; e complimenti anche a “Critica Impura” che ospita tante purissime, deliziose, “impurità”!
    Con viva cordialità.
    Giuseppe Bellantonio

  5. Cara Sonia, penso che Lorenzo Mari abbia delineato bene alcune obiezioni. Provo a sgombrare il campo:

    Bisogna accettare il legame tra operazione letteraria / operazione di marketing, e operare affinché la cosa seria sia dalla parte dell’operazione letteraria, con tutte le difficoltà del caso:

    1. GRUPPI SOLIDALI generazione tq è una cosa, vedi le antologie degli anni zero, con una parte programmatica debole (generazionale) di marketing, a nutrimento probabilmente di alcuni sodalizi di critici o autori, che pare emergere dalle operazioni antologiche, soprattutto in campo poetico; il fenomeno non parte solo tq, ma riguarda e ha riguardato molti gruppi solidali, che uniscono una parte programmatica debole o un’affiliazione al marketing (anche micro marketing), che si fissano su alcuni temi o categorie, anch’esse deboli, vedi la poesia di ricerca di Giovenale (prima c’era la poesia fredda e calda, poi è venuta la poesia di ricerca, infine i nuovi oggettivismi) o le tesi performative di Nacci, che si è preso un po’ a cuore l’aspetto, anche se il tutto mi sa di categoria debole (preferisco Voce); altre aggregazioni si sono murate attorno alcune riviste, etc etc. Ogni corrente ha delle riserve, delle idee, e soprattutto si propone, perché il negotium è inevitabile, solo che il problema sociologico qui affonda nelle basi deboli dei gruppi, che non hanno capito che è il sistema dell’informazione strutturato in un certo modo a indirizzarli.

    2. INDIRIZZARIO E APERTURA: l’operazione di pordenonelegge è l’inizio di un percorso patrocinato da un’importante manifestazione, che si è creata un indirizzario: sul sito, certo, c’è una bio e una poesia, che è quello che è stato richiesto ai poeti per un censimento utile a individuare 18 autori su cui dei videomaker dell’università di Milano lavoreranno. L’ottica generazionale, hai ragione, non è solida, ma qui il criterio anagrafico è in funzione di un progetto – e come ti ho scritto su facebook, largo ai giovani, nel senso che spero possano conoscersi ma soprattutto fare delle esperienze che altrimenti non esisterebbero, perché le istituzioni che sul territorio istituzionale si occupano di poesia, lo fanno con le logiche di cui sopra.

    3. OTIUM MUSCOLARE: per mappatura io intendo un bando aperto, la creazione dell’indirizzario anche ad invito, la realizzazione dell’archivio delle pubblicazioni, regione per regione, indipendentemente dall’età – vedi http://www.argonline.it/index.php?option=com_content&view=article&id=330:litalia-a-pezzi-antologia-dei-nuovi-poeti-italiani-in-dialetto-e-in-altre-lingue&Itemid=173 , che deve giungere ad alcuni risultati di critica, a livello nazionale, con l’individuazione dei percorsi più interessanti e la comunicazione su quelli in divenire che sembrano meritevoli. E’ chiaro che censimento e mappatura, sono due termini (per me) molto distanti.

    1. Caro Christian,
      l’archivio delle pubblicazioni è ottima cosa e non vedo ovviamente l’ora che sia realizzato, capillarmente, mi piacerebbe rimboccarmici anche le maniche. Ma questo è lavoro in cui critici e poeti debbono ben collaborare, un lavoro filologico di portata davvero nazionale che abbisogna di metodo e competenza, e non di passaparola stile catena di Sant’Antonio: “tu sei un poeta perché hai fatto reading e stai in un paio di antologie, stiamo facendo un censimento di voialtri poeti, dammi i nomi di altri dieci poeti che conosci che poi li contattiamo e chiediamo loro la stessa cosa”.
      Concorderai sulla mancanza di rigore critico e filologico in tutto questo.

      Sonia Caporossi

  6. A mio avviso c’è gruppo e gruppo, come c’è outsider e outsider. La differenza la fa l'”impurità”, ovvero, in questo caso – con apparente contraddizione od ossimoro, in un mondo largamente dominato da “amicizie” e cricche di vario genere – la “purezza”, da intendersi come l’integrità di un artista (ammesso che tale sia). Chi fa parte di un gruppo solo per avere visibilità, come chi fa lo “stilita dell’arte”, isolandosi per fare il fico, “puro” non è, e la sua “arte” ne risente, nella misura in cui non è genuina, non nasce dal suo intimo.
    Ritengo che sia necessario, peraltro, anche per chi fa parte di un movimento, di un gruppo o di un cenacolo, mantenere un’identità propria, non omologarsi mai, e tanto meno “atteggiarsi”. Per questo sono orgoglioso di far parte di un movimento che preferisce, al nome in -ismo (sia pur usato per comodità), ovvero “Connettivismo”, quello in -isti, “Connettivisti”, che sottolinea come siamo una realtà aperta, di individualità che convergono spontaneamente intorno a una poetica che è una sottile sensibilità, e non un rigido manifesto (anche se un “manifesto” ce l ‘abbiamo: http://www.next-station.org/nxt-ex-1.shtml). Ma la mia scrittura non è solo né necessariamente connettivista. Dipende da quello che “viene fuori” di volta in volta.

    Complimenti per l’articolo!

  7. Visto che ci troviamo, a parte i nomi citati nell’articolo, ci terrei a evidenziare l’importanza (dei testi) di alcuni poeti noti e meno noti, di differenti generazioni, diciamo rimanendo nel ventennio 70-90, che credo siano importanti appunto per dare senso alla ricerca, a prescindere dai censimenti, dalle mappe territoriali, dalle cartine poetiche, ecc ecc.

    Poeti che molto spesso presenziano poco nelle varie antologie o disamine critiche, rispetto al loro valore e alla loro importanza.

    Lascio questo lavoro ai critici “seri”…dunque:

    Michele Porsia (1982)
    Ilaria Seclì (1975)
    Lidia Riviello (1973)
    Thomas Schneider (1990)
    Alfonso Guida (1973)
    Massimo Sannelli (1973)

    più altri che ora dimentico, questi sono da esempio, secondo me, per ritornare davvero all’importanza del testo (sono poeti molto differenti tra loro), a prescindere dalla carta d’identità di ognuno o dall’appartenenza geografica.

    Saluto

    Bux

  8. Sono in coda ai commenti. Ben detto quello di Lorenzo in merito all’abbondanza di spunti e contenuti su questo articolo. Concordo in quasi tutti i punti che Sonia Caporossi ha messo in ordine di discussione critica. A che serve ancora parlare della predilezione della hit parade di parte del micromondo poetico? Che fiocchino nomi e cordate poetiche, date anagrafiche e gruppi campanilistici, se ci si diverte ad impalcare discussioni critiche su questi temi, che dire se non che ognuno si diverte come vuole? Queste difese, anzi queste roccaforti che sfamano il bisogno di catalogare, classificare, sfaccettare, comprimere e via dicendo, per poi porre medaglie e bottoni d’oro non è che son sorte in quest’epoca di sfiducia (in)culturale. Sono storia vecchia, history, e sempre più spesso “the history doesn’t teach us nothing”. Che le topofthetops, se le sia messe a fare anche Villalta un po’ stride con la mia ammirazione verso di lui. Ne prendo atto e lo fisso in memoria. Ma come hai flemmaticamente ribadito tu, che da qualche parte si cominci a ritornare al lavoro critico sul TESTO, altrimenti, ma che stiamo\state classificando?
    “Il poeta deve concentrarsi solo sul suo scrivere”, epifania delle genti impure e pure, scritto qualche tempo fa da Fabrizio Bianchi.
    Saluti dal Club delle Estranee.

  9. Cara Sonia,
    intervento articolato e illuminante, ben argomentato: non si puo’ non essere d’accordo con quanto dici; anche sul fatto che spesso gli outsider brillino di piu’; eppure mi respinge un po’ la traccia di compiacimento (scusami se sbaglio!) che mi sembra accompagnare il termine ‘outsider’, che vorrei restasse piu’ neutro per evitare l’ennesima opposizione tra integrati e non, con l’implicito che chi e’ fuori ha qualcosa di eroico. Spero di sbagliarmi. Inoltre, secondo me compi una sorta di errore ontologico, un salto improvviso, che mi sembra molto frequente in generale: quello di equiparare, piu’ o meno implicitamente, un’operazione che e’ uno strumento in piu’ per la critica (che viene dopo, che dobbiamo costruire noi) e non un’operazione critica. Inoltre, come scriveva da qualche parte Giacomo Cerrai, il senso della generazione sarebbe quello una generazione dovrebbe esprimere un fondo comune, in virtu’ del fatto di essere nata in un contesto storico simile. Poi e’ ovvio che la scelta degli anni e’ un mezzo euristico e perfino arbitrario, contestabile fin che si vuole.

    Ti copio-incollo un post che ho scritto ieri a proposito sul mio blog, perche’ risponde/prende in considerazione alcuni dei tuoi spunti, ad esempio quello del nome

    Tanto per cambiare, il censimento dei poeti italiani dai 20 ai 40 anni effettuato da pordenonelegge ha causato qualche malcontento, qualche polemica che si è sfogata (strano, no?) su facebook. Alcune perplessità si fondano sull’incompletezza dell’elenco: si potrebbe dire che il termine ‘censimento’ è poco felice, implicando controllo dall’alto e sistematicità a cui non si sfugge. Una polemica simile, tuttavia, si era generata anche con l’uso della parola ‘ricognizione’ adottata da Luciano Mazziotta in un’iniziativa su Poetarum Silva che anticipava il bisogno di riunire più nomi possibili per agevolare un confronto intra-generazionale.

    Niente da fare: molti sono irresistibilmente respinti dall’idea della lista, del catalogo: particolarmente in vista la posizione di Andrea Ponso, che ha addirittura rifiutato di esservi incluso. La lista viene collegata, direi non troppo sequenzialmente, alla vanità di chi vi è dentro o vorrebbe esserci: ancora una volta, l’ossessione dell’io, che si manifesta anche nel dire di volerlo sopprimere a tutti i costi. Eh no, per essere davvero coerenti allora bisognerebbe rinunciare al proprio nome nei libri che si pubblicheranno. Il nome non è un peccato dell’io, è invece un segno di rintracciabilità che collega l’autore alle sue azioni (le poesie), rendendolo potenzialmente responsabile, perché pubblicamente identificabile e dunque passibile di critiche.

    Invece così facendo si confondono gli effetti (poniamo, la gratificazione degli inclusi, l’amarezza degli esclusi) con l’utilità del mezzo, dello strumento; strumento che a sua volta – se interpreto bene le intenzioni del comitato di Pordenonelegge – è auspicio di un confronto più serrato e fruttuoso a venire.

    Questo però dipenderà dagli autori inclusi, tra i quali figuro: il censimento di pordenonelegge è una mega-vetrina, un mezzo euristico per allargare (non approfondire, si badi bene) il campo delle nostre letture a coetanei o autori poco più grandi e spesso mai letti prima. Lo vedo come un momento di un mutamento generale e che giudico positivo di cui ho riferito qui.

    Vero, il censimento, in questa prima fase almeno, è dei poeti e per i poeti: i lettori comuni vanno cercati in altri modi. Questo non è però un problema della poesia strictu sensu, ma delle politiche culturali; identificare le due cose, che pure non sono scisse, sarebbe fuorviante. Insomma, è metodologicamente inappropriato invalidare un’operazione su basi a essa estranee, dato che il progetto non si propone immediatamente di allargare il pubblico della poesia, quanto di aumentare la consapevolezza e l’apertura di chi la fa fornendogli un primo quadro della situazione e la concreta possibilità di entrare in contatto con altri.

    L’interesse di questo quadro, per il critico, risiede nel suo essere uno spaccato al tempo stesso vasto e simultaneo di una parte della produzione in versi di questi anni: uno spaccato che mi sembra relativamente libero e poco viziato dalle logiche dei gruppi che spesso, con ineluttabilita’ sociologica, si costituiscono in rete attorno a un blog. C’è di più: siccome agli autori è stato chiesto di mandare un proprio testo che li rappresentasse (al di là di alcune discutibili ma comprensibili restrizioni sul numero massimo dei versi per poesia), il totale dei testi è anche una specie di sintomo di come noi, autori, vogliamo rappresentarci ed essere letti; una specie di inconscio collettivo testuale, insomma.

    Certo, anche il censimento di Pordenonelegge ha i suoi limiti: su facebook ho partecipato a una discussione dove si sottolineava la forte disparità tra presenza maschile (maggioritaria) e femminile (minoritaria); o anche l’assenza di esplicitazione delle procedure e dei criteri di scelta. Obiezioni valide e legittime, che condivido; e però fare qualcosa è meglio che non farlo, e sarebbe il caso che – anziché lamentarci senza agire, cosa che noi italiani sappiamo fare bene – ciascuno di noi si dia da fare per moficare e migliorare quanto già esiste.

    Il censimento di Pordenonelegge è una miniera (non per forza letteraria, ma per i risultati della critica senz’altro) a cui attingerò: soprattutto sarà interessante capire quali forme e modalità della scrittura prevalgono oggi, e forse quali si imporranno domani. A tal proposito mi sembra, per i non troppi testi letti finora, che la narrazione in minore e gli affetti personali siano ancora il nocciolo della poesia attuale; ma un nocciolo, prevedo, in lento decadimento, finalmente verso forme più audaci e contenuti più critici e complessi.

    1. Ciao Davide, grazie dello spunto.
      No, nessun compiacimento, tanto meno personale, intorno all’uso del termine “outsider”; solo la considerazione pratica che le varie forme più o meno eterogenee, più o meno eterodirette di “raggruppamento” fanno sì che la categoria degli outsider spicchi per cogenza e potenza di autodeterminazione differenziale.
      Allo stesso modo, non direi che si tratti di un errore, tanto meno ontologico, riferendosi al limite alla logica matematica, la mia metafora cantoriana dei “raggruppamenti poetici”. Ciò che a te sembra un “equiparare, piu’ o meno implicitamente, un’operazione che e’ uno strumento in piu’ per la critica (che viene dopo, che dobbiamo costruire noi) e non un’operazione critica” è una mia riflessione su ciò che è stato costruito ad hoc per via di tam tam e conoscenze all’interno di un insieme di Cantor, una lista di poeti “per generazione”, ovvero un “censimento” che non è certo né uno strumento per la critica, che quei poeti già li conosce e ne legge, e se non li conosce, certo li viene a studiare in altri modi e per altri lidi che una lista autoprodotta; né tanto meno un’operazione critica, come giustamente affermi. No, un’operazione qualsivoglia del genere, al limite, può essere diretta ai lettori, al pubblico insomma, con tutte le riserve del caso che ho già enumerato all’interno dell’articolo: a me continua a parere una mera operazione di visibilità, contro cui non ho nulla, intendiamoci! La visibilità è auspicabile e degna cosa, perché la poesia ha bisogno di essere resa nota e di essere letta, altrimenti muore; laddove però si stia sempre attenti a non mettere in secondo piano il valore e la preminenza del testo di contro all’emersione del nomen puro e semplice che poi, in una lista pure incompleta, rischia anche di dileguare nel mucchio, appunto: nell’indistizione di Cantor.

      Sonia Caporossi

    2. Come avevo già avuto occasione di dire su Facebook, anche l’auto-esclusione è un atto di vanità, soprattutto nel momento in cui essa diventa pretesto per, e questo è l’aspetto più curioso, per entrare a far parte di un altro gruppo – quello degli ‘outsider’, gruppo del quale, del resto, si potrebbero già delineare i contorni. Inoltre, nessun autore sfugge al desiderio di essere letto, anche perché il miglioramento della propria opera passa, necessariamente, attraverso i suggerimenti di natura critica che possono pervenire solo dai riceventi più attenti della stessa, e già in questa semplice affermazione si può rintracciare uno degli aspetti fondamentali del rapporto tra critica e emittente/autore.

  10. Cara Sonia,
    come sai non vedo l’ora di far scattare l’ora X, quella in cui si collabora per una mappatura enorme, che porti a risultati di critica. Quando ho iniziato (12 anni fa) ad archiviare i testi della generazione nata negli anni 70 (qualche anno prima, un decennio dopo), per gli stessi problemi, già allora presenti, riguardo a gruppi e riviste http://www.absolutepoetry.org/La-nuova-poesia-in-Italia ; passano gli anni, e qualche intuizione si conferma, vedi la frizione sulla questione della mimesi e dei suoi processi (c’è un bell’articolo di Carlucci su Nazione Indiana, ripreso da Daniele Ventre che lo ha scoperto su Poesia2.0), che percorre la diatriba della mia “generazione”; mentre mi pare evidente, osservando le nuovissime generazioni, uno spostamento dell’attenzione sulla narratività, mi riferisco certamente a Terzago, ma anche Burbank, Ingenito, e prima di loro Sandron, Martino Baldi, Molinaroli, il primo Nacci. Ci sono anche altri problemi che ho tentato di evidenziare http://christiansinicco.wordpress.com/2012/05/24/nelle-ferite-della-critica-la-discussione-sulla-nuova-poesia-italiana/, sempre prendendo posizione, che potrebbero riguardare, lo dico come ipotesi, sempre i problemi riguardanti l’accelerazione dei processi informativi, che modificano in modo, conscio e inconscio, i processi di scrittura – mi è chiara la risposta di Zaffarano e Bortolotti, meno altri processi accumulativi. Le questioni dei gruppi, quindi, non sono secondarie, se hanno implicazioni anche sul fare e sulle poetiche; non hanno implicazioni, dal punto di vista critico (se la critica tutta fosse aggiornata) le questioni che riguardano il marketing, connaturate, a causa delle “tecnologie della trasparenza”, a tutte le informazioni in uscita – piuttosto le tecnologie della trasparenza evidenziano se un’operazione è stata congeniata bene o male, anche grazie al feedback immediato che ricevono dalla rete. Di conseguenza non mi sfugge che “si può fare di più”, si può fare meglio, anche riguardo al censimento di Pordenonelegge, a cui mancava un bando. Certo, rilevo sia un cambiamento (anche se l’utilizzo del passaparola non può essere l’unico strumento) riguardo le strategie che portano a individuare i poeti/gli scrittori per i festival/fiere, e mi sembra che Villalta stia andando nella direzione giusta, nonostante le pressioni che un evento di quella grandezza deve assorbire, da molti contendenti che richiedono spazi. Sto applicando il buon senso, come puoi capire, per dire che se son rose fioriranno, nella speranza che si possa sempre migliorare nella semina.

  11. Per quel che può valere, approvo in linea generale l’intervento di Sonia.
    Sento però la necessità di approfondire alcune questioni, facendolo senza poter evitare di parlare in prima persona dando l’impressione di farmi pubblicità (di che, non so) come un vero outsider (che non sono) non farebbe mai.

    Quando Luciano Mazziotta – persona squisita e ottimo poeta che apprezzo molto – aprì il famoso post dei poeti degli anni 80 su poetarumsilva – litblog collettivo di cui ho fatto parte e che è ottima fucina poetica e non solo – mi sono espresso criticamente su Poesia 2.0 dissentendo dall’operazione che a mio avviso non possiede alcun criterio critico, ovvero estetico, ben determinato, ma si limita a sottointenderlo (se sei nato negli anni 80 allora il contesto comune fa sí che blablabla). Un po’ come dire che se sei tedesco, biondo e 20enne nella germania degli anni 30-40 probabilmente il tuo concetto di razza ariana si sviluppa in un certo modo etc. Su questo mi pare di essere in linea con i presupposti di Sonia e di quanti ne condividono l’intervento.

    Poi sono arrivate a pioggia una serie di iniziative tassonomiche come quella di pordenonelegge, l’enciclopedia dei poeti di lucini, l’enciclopedia dei poeti di spagnuolo etc. Senza voler parlare delle numerose iniziative antologiche degli ultimi anni, tra cui gli ormai famosi Quaderni di Buffoni che hanno escluso per ragioni anagrafiche poeti ottimi. Insomma, una ampia operazione dedita a produrre elenchi telefonici-poetici.

    A voler essere ottimisti, si potrebbe dar ragione a Davide Castiglione (ciao Davide) quando dice che non bisogna confondere gli strumenti critici con la critica e quindi si potrebbe pensare che questi elenchi telefonici servano a qualcosa che dovrà giungere dopo. Io sono molto poco fiducioso, ma vediamo cosa succede fra qualche mese o anno (ma quanto ancora bisognerà attendere?).

    Tutto ciò (ed altro di cui qui non si parla ma che è pure accaduto) mi sorprende perché tutto il discorso si sviluppa come se non fosse mai accaduto qualcosa che si chiama Poesia 2.0 (qui viene la parte spam del messaggio).

    Quando tre anni fa ormai nasceva questo progetto, inizialmente collettivo cioè formato da quella che sembrava una redazione affollatissima, il problema non era per nulla diverso da quello che si sta discutendo qui e altrove oggi.

    E infatti la spinta a dare inizio al tutto venne proprio da un post di Guglielmin su Blanc dove una cascata di commenti provenienti da decine di persone si produsse prima in una esternazione lamentosa di una assenza, di una esigenza, per poi passare ad una serie di affermazioni propositive, per poi giungere ad una fuga generalizzata quando si è trattato di smettere di dire e cominciare a fare: il tempo di allontanarmi un attimo, aprire un sito, strutturarlo e tornare indietro a darne notizia ed erano tutti spariti, come se non fosse mai successo nulla.

    Da ciò si deduce che il problema, prima di essere estetico, è politico: quando c’è da tirarsi su le maniche, improvvisamente tutti sembrano avere troppo freddo.

    Ho trascorso il primo anno e mezzo di Poesia 2.0 cercando di strutturare una mappatura (per intenderci, quel che dice Christian Sinicco (ciao Christian!) e che approva Sonia) che avesse un minimo di validità filologica, che fosse lontana soprattutto da qualunque voglia di cancellare l’amato/odiato canone o voglia di proporne uno alternativo; che in qualche modo riuscisse ad aggiungere un tassello a quanto lungo l’arco di centinaia di anni era stato già fatto. Un’operazione importante, insomma.

    Sono spariti tutti. Quelli che invece non c’erano mai stati e che pure in qualche modo erano stati invitati a far parte del progetto dopo tre anni hanno deciso di farne uno uguale o simile (nelle intenzioni piuttosto che nel metodo) però per loro conto.

    Anche con la mappatura dei gruppi fisici sul territorio è andata male: esistono centinaia, forse migliaia di gruppi poetici e associazioni molto attive anche negli angoli più reconditi del paese che non sanno (o non vogliono sapere) che a 2 o a 20 km esiste un altro gruppo o un’altra associazione che si occupa delle stesse cose con degli obiettivi condivisibili. Ho ripetuto più volte che davanti ad un muro se si spinge soli alla fine ci si screpola solo le mani; se invece si fa gruppo magari un paio di pietre vengono giù. Nulla. Silenzio assoluto. Ognuno ha continuato bellamente a farsi i cazzi propri. Lo stesso vale per le riviste: non si riesce a farle comuinicare tra loro per costruire un discorso comune, una continuità.

    La sindrome del sapere potere è quella che, insomma, attraversa in maniera trasversale praticamente tutto e tutti, incluso i TQ di cui pure ho fatto parte e da cui poi sono uscito dando queste motivazioni che nessuno però si è degnato di leggere:

    http://www.anteremedizioni.it/il_fenomeno_comunitario_nell%E2%80%99era_della_quarta_dimensione

    Dunque il problema, prima di essere critico o estetico, continua ad essere politico: non siamo capaci di compiere delle rinunce, gestire aggregazioni, perché continuiamo a confondere foucaultianamente il sapere con il potere.
    Insomma, per citare di nuovo Pagliarani: “siamo in troppi a farmi schifo”.

    Vorrete allora scusare la mia ingenuità nel sorprendermi del fatto che a cadenza mensile si torni a parlare ancora una volta di una questione pluridecennale come se fosse nuova, come se non se ne fosse parlato o non se ne fosse parlato abbastanza, senza venirne a capo nonostante le numerose possibilità buttate a mare.

    Approfitto allora di questa occasione per rinnovare ancora una volta l’invito a chiunque volesse impegnarsi in un lavoro filologico serio di mappatura a farsi sentire: su Poesia 2.0 lo spazio è a disposizione e a costo zero. A scanso di equivoci, dico anche che non avendo alcun tipo di interesse personale, non ho alcun problema a chiudere Poesia 2.0 per ricominciare daccapo se per qualunque motivo il luogo non fosse ritenuto a tutti gli effetti idoneo.

    Postilla: circa gli aggruppamenti vuoti, ovvero privi di contenuto, e la priorità al testo, senza voler sembrare eccessivo e inopportuno, credo sia il caso di rendere noto in questa sede la nascita di In realtà, la poesia – progetto coordinato da Castiglione, Mari (ciao Lorenzo!) e dal sottoscritto – i cui presupposti di base pure sono in linea con quanto Sonia lamenta nel suo intervento e attraverso il quale si sta cercando di riempire un vuoto nella misura del possibile.

    Anche in questo caso, basta farsi sentire – sempre che non si voglia continuare a parlare del già detto nell’attesa che qualcun’altro se ne occupi in un modo che molto probabilmente sarà soggetto ad ulteriori critiche – e così all’infinito.

    A presto,
    Luigi B.

    1. Ciao Luigi,
      grazie dell’intervento e dell’appoggio. Forse il ritorno di questi temi ti stupisce perché in questa diamine di modernità liquida pochi mesi o due anni sembrano un’eternità: nello scorso secolo le discussioni letterarie vertevano abitualmente sugli stessi argomenti per decenni interi senza che cadesse foglia, evidentemente perché, se le cose non venivano risolte, si sentiva la necessità di discuterne ancora per proporre soluzioni, ma tant’è, prendiamo atto delle tesi di Appadurai e Bauman e andiamo avanti.
      Ho anche il dubbio, da quello che dici, che la reale portata teoretica e pratica del mio intervento sia rimasta un tantino in sordina. Cercherò di chiarificarla per quanto posso.
      La metafora dell’insieme di Cantor che genera per i membri dell’insieme indistinzione ed evanescenza ha un senso ben preciso: nel mio intervento non intendevo parlare, infatti, di gruppi poetici che, non conoscendosi a distanza di pochi km l’uno dall’altro, farebbero meglio a collaborare, a stringersi in rete e a fare gruppo, perché in tal caso, se pure lo facessero, la loro sostanza non muterebbe di un granello di polvere (dico, appunto, la “polvere di Cantor” di cui parlano i logici). Intendevo piuttosto offrire il mio plauso a quei gruppi poetici ed a quei singoli poeti, denominati outsider (senza nominarne peraltro che una minima parte) dotati in modo importante di una poetica differenziale. Infatti, in assenza di poetica differenziale (questa è la parte teoretica dell’assunto) dieci o mille gruppi pari sono, ovvero ammontano a nulla. Intendo per poetica differenziale il mero fattore del “contenuto formato”, direbbe un estetico idealista, ovvero quel quid che determina la distinzione e l’emergenza del sommerso, di una personalità poetica, insomma, che si sappia stagliare all’orizzonte con i crismi in regola della propria identità: ciò che oggi, a ben vedere, non sembra avere altro modo d’essere che la figura dell’outsider e di pochi gruppi definiti. E questo conduce all’aspetto pratico ed operativo: oggi i compiti dei poeti e quelli dei critici si sono malauguratamente sovrapposti a causa di una serie di fattori obnubilanti. La figura del poeta – critico, che pure è sempre esistita, oggi sembra dileguare all’interno dei gruppi di Cantor in un’opacità ed una indistinzione che si fa forte solo del gruppo e nel gruppo e non lascia emergere le individualità; peggio ancora, si è giunti ad un punto tale che il poeta si autodetermina ed autodefinisce in quanto tale (!!!) tramite la semplice inclusione, a volte, sempre più spesso, autoinclusione, all’interno di una qualche tassonomia sterile, per la via più breve, aggirando il fattore estetico – filosofico e critico a cui tutti gli artisti debbono in qualche modo render conto. Ecco perché, secondo me, è giunta l’ora che si torni a fare come gli antichi, che l’outsider, inteso come il poeta indipendente mentalmente, praticamente, operativamente da un insieme di Cantor, pro-duca, semplicemente, poesia e che il critico, inteso come l’operatore culturale indipendente mentalmente, praticamente, operativamente da un insieme di Cantor, la critichi, cioè che ognuno torni in definitiva ai propri ruoli, perché “se al mondo ci fosse una sola cosa, allora non ci sarebbe nessuna cosa”, diceva Wittgenstein, e perché sennò qua, per la miseria, ce la cantamo e ce la sonamo, come se dice a Roma: “sono un poeta e mi critico pure”. Altro che il sapere – potere foucaultiano, suprema devianza concettuale del Novecento (chi mi conosce filosoficamente sa cosa penso della maledizione del poststrutturalismo): il “me la canto e me la suono” è proprio berlusconismo a go-go, ovvero conclamato.
      Sonia Caporossi

      1. Cara Sonia, io credo che tu abbia ragione – però bisogna stare allerta – perché il ragionamento che tu proponi potrebbe essere facilmente ribaltato: pensa se noi avessimo in luogo di ‘inclusione’ ‘esclusione’. Essere outsider, per scelta, di per sé corrisponde già al desiderio implicito di essere inseriti in uno preciso serbatoio. Outsider si è per contingenza e se così non fosse il nostro sarebbe comunque marketing, alla stregua di chi utilizza Pordenonelegge o altre liste – lecitamente o meno – per promuovere il suo stesso percorso artistico.

      2. Rispondo qui sotto anche al commento tuo in risposta a Davide.
        Certo, se per outsider si intende colui che va semplicemente ad ingrossare il gregge di coloro che non vogliono stare nel gregge, non fa una piega.
        Ogni poeta vuole essere, letto, non ci piove. Ma tu dimmi che rapporto critica / autore ci può essere in un elenco costruito dai poeti per autoinclusione e in cui la citazione testuale dell’opera omnia consiste in poche righe e l’emergenza del sommerso si limita alla righina col nome. Allora, se dobbiamo fare una wikipedia della poesia italiana contemporanea, almeno facciamola bene.
        Sonia Caporossi

      3. Sonia,
        la mancanza di un bando preciso è stata certamente una nota problematica. E se il censimento (che è uno strumento ancora attivo a detta di Cescon, di cui possiamo osservare poi solo gli indirizzi e le bio di chi poi ha spedito, molti non erano interessati) serve a far sì che un’operazione legata alla produzione video vada in porto, organizzativamente parlando, le tempistiche sospetto siano quelle che sono. Il metodo di votazione chiusa è legittimo, ma migliorabile. Il tutto non serve alla critica, e se i poeti vogliono conoscersi, forse è meglio che lo facciano al bar, da persone comuni, come magari ha già fatto Franco Loi in Teater. Tuttavia credo che sia utile spronare – e il dibattito lo dimostra – Villalta, Gasparet, Garlini e Cescon, a utilizzare il database per un’operazione che riguardi la critica, e credo che le persone che ci leggono sono sensibili, o almeno è una speranza.

  12. Volevo aggiungere, ovviamente, che un conto è il lavoro filologico – critico, beneaugurato e necessario quanto volete, di mappatura della poesia nazionale o addirittura, per chi avesse la pompa, internazionale: che è lavoro critico precipuo per il quale, senza un gruppo di collaborazione, non basterebbe una vita; un altro conto, invece, è l’autoinclusione del proprio nome in questa mappatura, cosa ad oggi apparsa in molti casi prassi anapodittica e data per buona; come è il caso del censimento di Pordenonelegge.
    Sonia Caporossi

  13. L’una cosa esclude (o determina a seconda della prospettiva che si usa per guardare) l’altra: l’assenza di un lavoro serio filologicamente e criticamente conduce al riempimento del vuoto attraverso autoinclusioni tassonomiche. Un po0 come il prozac supplisce alla mancanza di felicità.
    Dunque: che si fa? perché il problema mi sembra sia chiaro già da molto tempo, sono i metodi, i chi i cosa ed i perché ed iquando ad essere oscuri.
    L.

    1. Ma guarda, ti do ragione sul fatto che la questione è politica, epperò continua ad essere determinante al suo interno il fattore mediatico sociologico, la possibilità, che tutti abbiamo colto, del fare “rete allargata” tramite i nuovi mezzi di diffusione e di comunicazione, opportunità che sta lì per farsi sfruttare ma che quando la colgono tutti, è come se non la cogliesse nessuno, perché non genera contenuti bensì il loro contrario, ovvero, ripeto ancora, l’indistinzione più totale per cui “polvere si era e polvere si tornerà”. In questo modo non emergono quelle personalità distinte che fanno davvero la storia, non so se mi son spiegata: un gruppo tipo quello di Officina, che poi al suo interno ha anche un outsider totale alla Roversi, insomma. Ho detto Roversi solo perché è più outsider di Pasolini nella sua volontà non solo di criticare il Sistema, ma anche di starne ai margini continuando a detenere contenuti, ovvero qualcosa di importante da dire. Qualcosa da comunicare al mondo che non siano mere lamentazioni di Geremia, come pure a qualcuno pare che stia facendo io.
      E allora la domanda preliminare che tutti dovrebbero farsi, prima di “ammucchiarsi” nell’indistinzione e di autoattribuirsi la targhetta di poeta, di scrittore o di critico, è la seguente: “aspetta un attimo, ma io ho davvero una poetica, dei contenuti, un fare operativo che travalichi la fase dell’emergenza del sommerso e che rimanga ai posteri? In una parola: ho davvero qualcosa da dire?”.

      Sonia Caporossi

  14. Io credo di aver colto molto bene il messaggio del tuo intervento, Sonia. Sto solo dicendo che, si, il passo successivo alle lamentazioni di geremia sono delle proposte fattibili, strutturate e praticabili. Altrimenti è un circolo che non porta da nessuna parte perché si ripiega su se stesso.
    Come anche ritengo sia opportuno non far di tutta l’erba un fascio altrimenti sembra sempre che non si faccia mai nulla quando invece qualcosa in realtà si fa solo però senza che ottenga un risalto mediatico. Ma allora la domanda diventa: davvero non funziona nulla oppure ciò che funziona non ha sufficiente risalto mediatico per essere considerato valido?

    1. Al contrario, certe operazioni ce ne hanno troppo, tanto che non si distingue il diamante dalla me…me…Ehm, melma. E comunque è proprio come dici, il fatto è che molti, troppi, pensano di star già facendo qualcosa di operativo per la collettività, mentre tirano semplicemente acqua al loro mulino. Personalmente, ho la coscienza a posto: io suono e compongo musica, scrivo poesie e racconti e faccio il critico. Quando scrivo una merdata, non la pubblico; quando qualcun altro scrive una merdata, la denuncio come tale. Quanti possono dire altrettanto? No, perché qua tocca cominciare dalle piccole cose, dalle questioni base, direi.
      Sonia Caporossi

  15. Mi pare che il senso del pezzo stia tutto in questo passaggio:

    La mia personale risposta al perché oggi continuino a nascere gruppi poetici in assenza di poetiche differenziali è nuda e cruda, senza mezze misure: per ottenimento di visibilità, puro e semplice. È questo il motivo principale per il quale preferisco gli outsider.

    Ovvero: in un mondo di gruppi d’interesse (non mi pare sia una grande scoperta, scoprire l’ovvio: cioè che il raggruppamento serve alla visibilità) può aver senso spacciare la propria marginalità per distacco snob.

    Sulla lista di Pordenone: Balzac voleva fare concorrenza all’anagrafe, ma credo sia improprio chiedere all’anagrafe ciò che può fornirci solo Balzac.
    La lista è costituita per tamtàm e conoscenze? Senz’altro. Esiste un altro modo?

    Essere in quella lista ha un valore sociale. Non esserci può essere convertito in valore sociale. Per alcuni può essere conveniente non esserci.

    1. Che quella lista abbia un valore sociale, del resto evidenziato nel mio articolo, è anch’esso ovvio. Che non esserci possa avere un valore sociale, è vero. Perché i gruppi si aggregano per emergere dall’indistinzione, ed invece ottengono così facendo il risultato esattamente opposto non solo in mancanza spesso di una vera e propria poetica differenziale ma anche perché si aggregano “i poeti di x anni” con poetiche, stili e tematiche fra loro diversissimi: che senso ha farne l’elencatio per anagrafe?
      La verità è che il senso del pezzo non era riassumibile in quella frase, che ne è solo un corollario di sociologia della letteratura, ma nel richiamo al valore delle poetiche differenziali, all’impegno propositivo dei gruppi poetici operativi e alla centralità del testo.
      Se il poeta outsider, infatti, da un punto di vista sociale, è sicuramente al margine per snobberia più o meno palesata, il poeta che appartiene ad un gruppo di Cantor, come molti aggregati anagrafici d’oggi, è un epigono coatto per indistinta poetica.
      Ciò fa del bene alla poesia? Al poeta magari sì, ma alla poesia no.
      Come dire che c’è marginalità e marginalità: quanto ai de vulpe et uva di bassa lega, si evidenziano con scientificità periodica da tutte le parti.

      Sonia Caporossi

  16. Ma, Sonia: direi che già parlare di “poetiche differenziali” significa parlare di distinzione: concetto sociologico. Parlare di “aggregazioni” significa parlare dell’agire sociale. Eccetera. Scocciarsi perché dei poetucoli bene organizzati raggiungono visibilità, mentre grandi isolati poeti non ce l’hanno, significa avviare una rivendicazione sociale. Eccetera.
    E non dico che non sia giusto.

    L’esplicitazione di una poetica individuale a me pare già un gesto sociale. Aggregarsi sulla base di una poetica condivisa è una scelta organizzativa (come lo è aggregarsi sulla base, a es., del comune desiderio di far fuori la generazione precedente).

    Il fatto che un certo gruppo abbia una ben distinguibile poetica condivisa, e un altro no, a me pare poco rilevante dal punto di vista poetico (dove rilevanti saranno le opere, non le poetiche).

    1. Ho capito cosa intendi, ma tu appunto parli da un piano sociologico, io espongo ciò che a me del piano sociologico sembra abbia prevaricato il piano ermeneutico ed estetico circa la poesia in quanto tale. Io infatti parlo di poetiche differenziali come concetto estetico filosofico. Per questo a me, il fatto che un certo gruppo abbia una poetica differenziale e un altro no pare rilevante in primis dal punto di vista poetico, e in secundis anche sociale (in senso logico, non cronologico), dato che dal punto di vista estetico – critico le opere si scrivono in base a contenuti, poetiche e stili, che sono appunto quei fattori atti a distinguere un poeta da un altro su tutti i piani, compreso quello sociale; distinzione che però dilegua inesorabilmente, anche e soprattutto sul piano sociale, se li si mette tutti insieme in un calderone senza badare, appunto, a ciò che ne determina la differenza scrittoria: pessimo favore alla poesia in quanto poesia, apparente favore ai poeti per la propria momentanea visibilità, ma a lungo andare ricaduta nell’indistinzione e nell’oblio del textus, delle poetiche, dei linguaggi, dei versi, dell’opera stessa. E lo dico senza atteggiamenti giudicanti, ma come dato di fatto.
      In questo senso dico che i gruppi poetici hanno piena ragione di esistere, di organizzarsi e di mettersi in evidenza in quanto tali, ma su altre basi che la mera anagrafe, insieme di Cantor in cui gli elementi posseggono una tale indeterminazione che il contenuto, la chose stessa insomma, dilegua.

      Sonia Caporossi

  17. …a me, il fatto che un certo gruppo abbia una poetica differenziale e un altro no pare rilevante in primis dal punto di vista poetico…

    E a me, invece, Sonia, pare irrilevante dal punto di vista poetico. Perché rilevanti mi pare siano le opere, e nient’altro; e mi pare irrilevante – dal punto di vista poetico – che dei gruppi esistano.

    Insomma, non siamo d’accordo su questo; e tutto il resto è conseguenza.

    Certo: nei gruppi si cresce, ci si scambiano letture, si creano rapporti pedagogici, eccetera: ma per questo non occorre che vi sia una poetica condivisa. Né occorre che il gruppo abbia visibilità, o che semplicemente si sappia che esiste.

    (Trovo curioso che tu usi l’espressione “poetica differenziale” per indicare – a meno che io non abbia capito proprio niente – ciò che io nomino con “poetica condivisa”).

    1. Cercherò di chiarificare. Detenere una poetica diventa rilevante quando le opere rientrano in una corrente, che è un gruppo poetico dotato di senso e significanza. Poi è vero, esistono tanti tipi concettuali di “gruppo”, per questo forse non ci capiamo. Un elenco anagrafico non fa corrente, perché è composto da poeti anche molto diversi l’uno dall’altro sul piano scrittorio; per questo non detiene una poetica unitaria, che è condivisa, come dici tu, all’interno di un eventuale gruppo – corrente, ma che è differenziale, come dico io, fra una corrente ed un’altra.
      Ora, gli outsider, quando va bene, fanno corrente a se stante, ma è appunto uno stato di grazia abbastanza raro. Inoltre, ci sono correnti e correnti, ma il giudizio critico su di loro avviene dopo questo primo sfrondamento concettuale, ovvero dopo la distinzione fra un gruppo di Cantor e un gruppo poetico propriamente detto.
      Secondo me, comunque, un’opera come tale detiene sempre al suo interno contenuti forme e stili determinati, quindi il concetto di opera, per me, è indissolubile da quello di poetica, ma “poetica” non è lo stesso che “corrente”, essendo la corrente la fenomenologia aggregativa e sociale che parte da una poetica definita e condivisa da un gruppo. Anche per me sono rilevanti le opere sopra ogni cosa, ma in base al principio della centralità del testo l’analisi critica di quelle opere avviene tramite tratti definitorii. Questo non significa dover incasellare ogni testo necessariamente all’interno di una poetica preconfezionata, beninteso, né che ogni gruppo debba rientrare in una corrente (a me le correnti dopo un po’ sembrano anche anguste), né che debbano necessariamente esistere i gruppi di contro ai singoli.
      L’articolo infatti è stato scritto solo per cercare di definire i pro e i contro di quanto sono andata esponendo anche qui.
      So di avere un piglio a tratti eccessivamente diairetico, ma spero che così sia più chiaro.

      Un saluto
      Sonia Caporossi

  18. Sonia, cerco di fare una distinzione.

    Allora: “gruppo” e “corrente” sono due parole che non hanno niente che fare l’una con l’altra.

    Un “gruppo” è una forma di associazione. Un gruppo esiste quando c’è un accordo tra più persone, ed è un “dato di fatto” (nel senso in cui un contratto d’affitto o un dialogo del tipo: “Ci vediamo domattina alle sette?” “Sì, va bene” sono dei “dati di fatto”: qualcosa la cui esistenza può essere provata, o almeno potrebbe essere provata: uno statuto, delle pubbliche riunioni, delle dichiarazioni comuni eccetera). L’accordo può concernere la poetica, o anche no. Spesso l’accordo contempla alcuni scopi (visibilità, finanziamenti pubblici, organizzazione di attività varie, ritiri spirituali, frequentazione di una determinata birreria ecc.).

    Una “corrente” è un’ipotesi di lavoro nell’ambito del lavoro critico e storico. Si dice in genere (mi pare) che vi è una corrente quando si rinvengono tratti comuni nelle opere e/o nelle poetiche. Faccio notare peraltro che identificare una “corrente” (ovvero: fare l’ipotesi di lavoro che vi sia una “corrente”) sulla base dei tratti comuni delle poetiche dichiarate è cosa molto diversa dall’identificare una “corrente” sulla base dei tratti comuni delle opere. Qualora vi sia un ampio consenso sull’ipotesi di lavoro (descrizione dei tratti comuni, identificazione delle poetiche e/o delle opere ecc.), allora si può dire che “esiste (è esistita) una corrente”. Si tratta però di una verità intersoggettiva.

    C’è poi il caso delle poetiche non dichiarate ma ricavate dalle opere. Faccio presente però che se il poeta X non ha mai dichiarato una poetica, quando il critico Y ricava una poetica dall’analisi dell’opera (lavoro lecitissimo) fa un’ipotesi di lavoro, non accerta un “dato di fatto”. Quindi attribuire l’autore X alla corrente Q sulla base della poetica ricavata dall’analisi dell’opera, significa attribuire un’ipotesi di lavoro a un’ipotesi di lavoro. Siamo ancora più distanti dai “dati di fatto”. (E anche qui, se l’ipotesi riceve ampio consenso, si potrà dire che “X appartiene alla corrente Q, che esiste”: e anche qui si tratterà di una verità intersoggettiva).

    E’ possibile che vi sia talvolta identità tra i componenti di un gruppo e i componenti attribuiti a una corrente. Ma la cosa non mi pare rilevante, se non altro perché di gruppi e di correnti – se si vogliono evitare confusioni – si parlerà in ambiti ben diversi.

    Gli elenchi anagrafici, poi, sono tutt’altra cosa ancora. Si potrebbe dire forse che sono “gruppi debolissimi”: nei quali tutto l’accordo tra i componenti comincia e finisce con la disponibilità a essere citati nell’elenco. Ma mi pare veramente poco.

    Ha senso augurarsi o auspicare la coincidenza tra gruppi e correnti? Ha senso auspicare che i gruppi tendano a formarsi sulla base di quei tratti comuni in base ai quali, successivamente, chi fa il lavoro critico e storico farà l’ipotesi di lavoro dell’esistenza di una corrente?

    Non so. Ho la sensazione che ci sia un po’ di “effetto Provolino” (quello che sommò alle pere quattro mucche e un contadino).

    1. Giulio, quando ha parlato di lavoro critico che ragiona per ipotesi di lavoro, mi sono sinceramente commossa, perché è la prassi critica che amo e che preferisco, quella stessa che però oggi è a volte impedita da una serie di fattori.
      Infatti, bisogna dire che non è sempre vero che gruppo e corrente non coincidano, in quanto ci sono stati e ci sono oggi esempi nella storia della letteratura in cui un gruppo letterario ha espresso consciamente e volontariamente una corrente proponendo un manifesto e magari avendo fra le proprie file figure di critico – scrittore o critico – poeta.
      Tu domandi giustamente:
      “Ha senso augurarsi o auspicare la coincidenza tra gruppi e correnti? Ha senso auspicare che i gruppi tendano a formarsi sulla base di quei tratti comuni in base ai quali, successivamente, chi fa il lavoro critico e storico farà l’ipotesi di lavoro dell’esistenza di una corrente?”
      E’ proprio questo il punto, non ha senso se si concepisce il termine “corrente” sull’onda della tradizione critica, ovvero considerandone la determinazione come un a posteriori storico, un lavorio critico dotato di giusta distanza e che arriva “dopo” in base alle sacrosante ipotesi di lavoro, come mi piacerebbe che fosse sempre, ma come oggi non è possibile spesso e volentieri che sia, perché la tua diairesis tra gruppo e corrente è correttissima, per carità, ma il fatto è che oggi vige uno stato di simultaneità appositamente ricercata in base a cui “gruppo” e “corrente” concettualmente si sovrappongono: quelli che si sono incontrati ad Albinea la settimana scorsa, ad esempio, erano un gruppo o una corrente? Erano una corrente da cui è nato un gruppo o un gruppo da cui s’è delineata una corrente? Il nuovo oggettivismo poetico è una corrente o un gruppo? Il Futurismo e il Gruppo 63 erano una corrente o un gruppo? E soprattutto in casi come questi ha senso dividere i due termini?
      A me pare di no. Il critico in tutti questi casi osserva un gruppo di poeti i quali, oltre a possedere caratteristiche comuni a livello di poetica e stile, si riuniscono, fanno incontri, reading, antologie, eventi. In questi casi, gruppo e corrente vanno di pari passo, in quanto determinazioni consapevoli e volontarie che non abbisognano di ipotesi di lavoro: sono proprio alcuni gruppi poetici a togliere la penna di mano al critico e ad autoinvestirsi come espressione di una poetica comune,a definirsi, bruciando i tempi legittimi della meditazione critica che ragiona giustamente per ipotesi di lavoro, “correnti”; e allora, spesso, con questi soggetti si è avuto e si ha a che fare.
      Altri gruppi, invece, non fanno corrente affatto e lasciano il tempo che trovano; in questo caso si hanno di fronte casi fortemente eterogenei, ma non vorrei ripetermi.
      Poi possiamo stare qui a parlare una settimana come accaduto anche in passato su altri argomenti (è sempre molto stimolante ragionare con te, Giulio). Ma l’effetto Provolino, credimi, è eteroindotto.

      Sonia Caporossi

      P.S. “Dato di fatto” era riferito al rischio dell’indistinzione più in generale, non alla presunta identità gruppo – corrente, che va di volta in volta verificata o falsificata.

  19. Il Futurismo e il Gruppo 63 sono stati un gruppo – il primo organizzato piuttosto militarmente, il secondo un po’ meno; e comunque diversi tra di loro: si poteva essere “espulsi” dal Futurismo, o almeno “scomunicati” (anche se Marinetti era piuttosto propenso all’inclusione che all’esclusione; in questo il Futurismo è stato assai diverso dal Surrealismo); più difficile era essere “espulsi” dal Gruppo 63, che si ritrovava più su un piano ideologico che su quello della poetica (basta guardare la diversità dei testi raccolti nei “Novissimi”).

    La vitalità di questi gruppi ha generato delle “correnti”: vi sono autori attribuibili all’ “aria che tira” futurista o grupposessantatreista, e che non hanno avuto rapporti strutturati, o addirittura non hanno avuto nessun rapporto, con i gruppi. (Nell’introduzione a un’antologia del surrealismo pubblicata tanti anni fa da Garzanti – cito a memoria e posso sbagliarmi – Fortini parlava di qualcosa come un “surrealismo di massa” – ovvero il surrealismo diventato corrente).

    Credo si possa dire che il Gruppo 63 si è costituito perché alcune persone avevano delle idee simili (ripeto: più sul piano ideologico che su quello delle poetiche), ovvero perché c’era un’ “aria che tirava”: quindi una “potenziale corrente” che è diventata poi una “corrente effettuale” grazie all’esistenza di un gruppo. Mentre ho il sospetto che il Futurismo sia nato tutto dalla mente di Marinetti, e che tanti si siano aggregati perché aggregarsi portava visibilità eccetera.

    Ma tutto questo, appunto, è sociologia della letteratura.

    Per il resto, Sonia: mi pare di aver capito ora il tuo discorso (che in questo tuo ultimo intervento mi pare molto più chiaro e semplice). E rispondo alla mia domanda: secondo me non ha senso augurarsi che “gruppi” e “correnti” coincidano. Se non altro perché il lavoro critico successivo ha mostrato che gli autori di Futurismo e Gruppo 63, pur volendo a tutti i costi essere “gruppo” e “corrente” insieme, possono essere tranquillamente attribuiti a “correnti” assai disparate. Che relazione c’è tra Marinetti e Govoni? E tra Marinetti e Palazzeschi? Davvero possiamo metterli (come ipotesi di lavoro…) nella stessa corrente? E il fatto che le opere “futuristiche” rimaste nel tempo non siano quelle esemplari a livello di poetica, non sarà un segnale importante? Che le opere letterarie del “gruppo” e della “corrente” del Gruppo 63 siano quelle meno fedeli alle istanze ideologiche ufficiali, non sarà un segnale importante? (Pontiggia, ad esempio). Ecc.

    1. Ma guarda che sono d’accordo con la tua disamina, Giulio, e dirò di più: tra Marinetti e Govoni e tra Marinetti e Palazzeschi c’è la relazione che intercorre tra una corrente e un outsider; il quale, a volte, è un fuoriuscito. Come Palazzeschi, appunto, che di futurista ha scritto poco più che l’Incendiario (era il 1913, sbaglio?), e poi ha sviluppato una propria, meravigliosa e meritevole, poetica a parte (c’è un bel libro di Pedullà padre scritto un paio di decenni fa per Rizzoli, “Il ritorno dell’uomo di fumo”, molto illuminante). Senza citare le differenze interne al Gruppo 63, fra le modalità espressive di un Sanguineti ed il neocrepuscolarissimo Pagliarani, ad esempio (penso a La Ragazza Carla). Anche se alla fine il Gruppo 63 deteneva un Manifesto, una teoria (schizomorfismo e compagnia bella), un mentore forte in quanto filosofo estetico che appariva per questo garanzia di poetica differenziale o condivisa (Anceschi) et cetera, et cetera.
      Infatti, il mio articolo propendeva non a caso per la figura dell’outsider. A leggerlo bene, si percepisce credo il mio fastidio nei confronti dei gruppi e anche delle correnti coatte, quelle costruite a tavolino e per forza, le stesse di cui parlavo poc’anzi, insomma. Il fatto è che ritengo, magari sbaglio per carità, che sia il male minore un gruppo dotato di una poetica degna e chiaramente identificabile, piuttosto che un gruppo al cui interno persino questa sia assente, perché si regge, insomma, solo in virtù di principii altri rispetto alla centralità della scrittura.

      Sonia Caporossi

  20. Sonia, scrivi:

    …tra Marinetti e Govoni e tra Marinetti e Palazzeschi c’è la relazione che intercorre tra una corrente e un outsider…

    No: tra un gruppo e un outsider (se sono buone le mie definizioni di gruppo e corrente di cui sopra).

    Trovo che sia inutile provare fastidio nei confronti dei gruppi. Non mi pare sensato provare fastidio per il fatto che le persone di aggregano per tutelare i loro interessi o perseguire i loro obiettivi. Fastidio si potrà avere quando sembri che gli interessi e gli obiettivi reali differiscano da quelli dichiarati.

    1. Giulio, avevo poco prima esposto una mia definizione dei gruppi – corrente, ed io a quella mi riferivo (tu parli ad esempio, nel caso di certi gruppi, di “correnti effettuali” generate da essi). Se il futurismo fosse solo gruppo e non anche corrente in un certo senso non ci sarebbe bisogno di fuoriusciti, perché si fuoriesce non solo da una “squadra” ma anche da una poetica condivisa, non seguendola più. Diverso il caso di chi si aggrega a un mero gruppo senza averla mai seguita, insomma.
      Tu scrivi:
      “Fastidio si potrà avere quando sembri che gli interessi e gli obiettivi reali differiscano da quelli dichiarati.”
      Esatto. Il mio “fastidio”, che non è quello del personaggio dei Ricordi del Sottosuolo bensì si manifesta in forma d’affetto, di appoggio, in un’assoluta tranquillità e continuo dialogo con i rappresentanti degli stessi gruppi oggi vigenti, con i quali c’è un continuo scambio e con cui collaboro spesso, nasce proprio dal rischio che gli interessi e l’obiettivo dichiarato, cioè la poesia, venga messo in secondo piano rispetto a “tutto ciò che ci gira intorno”; ovvero che il piano estetico venga surclassato da quello sociologico tale che questo secondo piano divenga come un insieme di Cantor in cui siano presenti tante scatole adornate di fiocchetto ma vuote di contenuto.
      Questo è il rischio principale che ho voluto mettere in evidenza in questo articolo, ma sono consapevole che a te può non sembrare un pericolo concreto perché vedi tutta la faccenda da altri punti di vista. Ho parlato con diversi poeti, miei amici e conoscenti, presenti all’interno del censimento di Pordenonelegge, di questi stessi argomenti, richiamando il principio della centralità del “testo”. Si è sviluppato un bel dialogo, ognuno ha posto le sue ragioni, nessuno m’ha detto che stessi paventando un discorso senza senso, come nessuno ha preteso la ragione assoluta. Vedremo come si svilupperanno le cose.

      Sonia Caporossi

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