La fondazione estetica di un’etica minima universale: una proposta di dibattito, a partire da “Totalitarismo, democrazia, etica pubblica” di Federico Sollazzo

Di SONIA CAPOROSSI

Federico Sollazzo, Totalitarismo, Democrazia, Etica Pubblica (Aracne 2011)
Federico Sollazzo, Totalitarismo, Democrazia, Etica Pubblica (Aracne 2011)

“Si giunge così alla parte conclusiva del lavoro in cui si sviluppa la parte propositiva volta a rintracciare i criteri per una pacifica convivenza umana in quei valori che sono alla base di un’etica minima condivisibile. Infatti ogni uomo è in possesso di necessità e capacità psico–fisiche, emozionali e biologiche dalle quali deriva sia la sua dimensione identitaria, sia la possibilità di condurre un’esistenza autenticamente appagante. L’identità a livello biologico ed emozionale degli individui costituisce, quindi, la dimensione al cui interno è possibile ricercare principi universalizzabili su cui basare le coordinate per un’etica minima condivisibile. Tuttavia, questa base etica comune si realizza in una pluralità di modi storicamente diversi, in uno scenario multiculturale e multietnico. La possibilità di confronto tra diverse società e culture è ricercata da Sollazzo in una sorta di “sintesi disgiuntiva”, attraverso cui contemperare da un lato l’interazione tra identità diverse e dall’altro il mantenimento per ciascuna della propria riconoscibilità e non assimilabilità.”

(dall’introduzione di M. T. Pansera)

Nel suo Totalitarismo, democrazia, etica pubblica  (Aracne, 2011), Federico Sollazzo tematizza alcuni argomenti di importanza capitale per comprendere strutturalmente e storicamente il mondo in cui viviamo. Non è questa la sede per esporre una recensione puramente descrittiva del suo libro, né per esaminare a fondo ogni sua singola sezione, come invece hanno fatto alla perfezione gli amici Filosofi Precari nella veste riassuntiva di Giacomo Pezzano. Il mio intento, piuttosto, è discutere e fare critica (impuramente, com’è mio solito) di alcuni passaggi importanti della parte non espositiva, bensì costruttiva del libro, ovvero le argomentazioni riguardanti la possibile individuazione di un’etica minima universale che stia alla base della comunità umana in senso antropologico, sociologico, politico, financo biologico, come quel quid che ci identifica e ci imparenta in quanto umani; che poi risulta essere l’argomento portante dell’intero lavoro dell’autore, il collante fra le tre parti in cui è opportunamente suddiviso il testo: filosofia morale, filosofia politica, etica.

In breve, la domanda che l’autore del libro si pone è la seguente: esiste ancora dopo più di duemila anni un quid che permetta l’universalizzazione dei principi propri di un’etica minima condivisibile? Sollazzo risponde, preliminarmente, di sì, partendo da una prospettiva prettamente antropologica (Scheler, Plessner e Gehlen in primis) e francofortiana, per il momento aggirando consapevolmente la discorsivizzazione della presunta morte dell’uomo conseguente alla nicciana morte di Dio, che tanto ha permeato la cultura filosofica francese della seconda metà del secolo scorso e, pur citando Foucault, non accogliendone il costruttivista assunto in base al quale “l’uomo è un’invenzione recente”, come è scritto nero su bianco in Le parole e le cose.

Per l’autore, infatti, “una delle acquisizioni più consolidate della filosofia, ed in particolare dell’antropologia filosofica, del Novecento è la convinzione che l’uomo non sia una mera somma di due sostanze (res cogitans e res extensa), ma una struttura unitaria di corporeità ed extracorporeità nella quale questi due aspetti si fondono” (p. 45). Come dire che l’uomo consiste nella perfetta fusione fra la sfera biologica e la sfera emozionale, un tantino giustapposte, e ciononostante date anapoditticamente per congiunte senz’ulteriore determinazione. Infatti l’assunto iniziale del brano non è dimostrato se non in forma di auctoritates etiche e di citazioni le quali abbisognano a loro volta di essere argomentate sul piano teoretico. Questo assunto potrebbe quindi contenere una fallacia vera e propria, consistente nel cortocircuito in base al quale, con una grossa petitio principii, la conclusione non deriverebbe, ma coinciderebbe con le premesse; e tuttavia, su di essa si fonda tutta la teorizzazione seguente circa gli “universalizzabili” che contribuirebbero a formare quest’etica minima condivisibile che rende l’umanità una sola.

Innanzitutto, però, occorrerebbe determinare che cosa si intenda con questa universalità di cui si parla, dato che anche la sua stessa definizione rientra all’interno del panorama culturale proprio dell’autore o di chi di volta in volta ne argomenta, lungi così dall’essere condivisibile fra culture diverse se non nel senso della comune struttura logica soggiacente al linguaggio, la quale a sua volta, a dar retta a Sapir e Whorff, non è neanche poi tanto comune. Sollazzo tuttavia evidenzia la funzione cognitiva delle emozioni (con Nussbaum) che agiscono da collante umano e che sono atte a consentire questa condivisibilità. Per Sollazzo, insomma, biologia ed emozioni sono i veri pilastri della condizione umana. In questo senso, si dà come esistente  “un’unica costituzione antropologica” basilare, pur se, come l’autore tiene a specificare, “all’interno del paradigma concettuale in essere” (p.55); ma allora, verrebbe da dire, non si dà in quanto tale, essendo i paradigmi concettuali decisamente più d’uno.

Quanto al riferimento agli “universali” e agli “universalizzabili”, da decenni questi ultimi sono stati messi in discussione in qualsiasi campo degli studi umani: pensiamo ad esempio alle critiche rivolte contro Noam Chomsky per il quale esiste una grammatica universale, dotata di “universali linguistici”, concepita come sistema di regole e principi compresenti in tutti i linguaggi umani soggiacenti ad un comune basamento biologico [1]; le critiche a questa concezione  hanno messo in crisi già da tempo la grammatica generativa, per la quale, ad esempio, l’unità più ampia d’analisi è la frase: ma così, contraddittoriamente, non si sa come rendere conto del discorso, più ampio e complesso rispetto al periodo e alla frase, in un contesto situazionale. Allo stesso modo, come si può pensare che esistano “discorsi” validi universalmente nel melting pot culturale dell’era globalizzata, a meno di imposizioni culturali neocolonialiste? Un universalismo etico, oggi, rischia di poter analizzare soltanto i “concetti” etici presi singolarmente, di volta in volta, in una contestualizzazione di riferimento hic-et-nunc: libertà, pace, progresso, violenza, guerra e via discorrendo, dimostrandosi così ben lontano, nella sostanza, dalla sua stessa denominazione.

Allora, se vogliamo aver per forza fiducia illuministica in una universalità di fondo dell’humanum, come uscire dall’empasse?

La questione, a nostro avviso, andrebbe piuttosto indagata in modo critico e all’interno di un campo d’indagine preliminarmente estetico; allora la domanda si tramuterebbe nella seguente: esiste un quid che permetta la comunicazione del “senso comune” in senso forte tra soggetti umani, tale che da esso si possa dedurre un’etica comune poggiantesi sulle stesse fondamenta, per così dire, universali? E se esiste, in quale aspetto dell’attività umana può essere rintracciato?

L’incipit della trattazione è già in tal senso cogente. Infatti, se è vero, come scrive l’autore, che il potere totalitario trova il suo metodo di controllo sulle masse attraverso il linguaggio; se è vero, come è vero, che il conformismo ha preso il posto dell’adesione fideistica ai regimi di potere del secondo Novecento, quelli stessi che Pasolini, ad esempio, chiamava profeticamente “nuovo fascismo” e che si identificano con i meccanismi omologanti della società consumistica attuale, dal Boom economico all’odierna crisi ed oltre; se è vero, come è vero, che “l’autototalitarismo” consiste nell’incapacità di pensare autonomamente, secondo l’asserzione della Arendt; allora il concetto marcusiano di “Sistema” tecnocratico può essere inteso nel senso di una castrante inibizione del pensiero critico, una “desublimazione repressiva” (cfr. L’uomo a una dimensione) dell’arte e della cultura, ricondotte al principio di realtà. Ecco il campo in cui vige una coscienza falsamente felice che non comprende le forme di dominio a cui è sottoposta. Per Marcuse ciò è il segno di una crisi della ragione, laddove, com’è noto, anche per Adorno e Habermas il totalitarismo ha origine dalla crisi della razionalità. Ma allora dov’è che si condensano tutti i reietti valori di libertà espulsi dalla società borghese, anche secondo Marcuse, Habermas e l’ultimo Foucault, tanto per citare tre tra i maggiori ispiratori del lavoro di ricerca di Sollazzo? La risposta, a nostro avviso, era ed è molto semplice: nell’esercizio libero dell’arte come espressione di una cultura e primo segno di presenza umana nel mondo.

Qui si trovano alcuni punti interessanti che aprono il dibattito su altri fronti rispetto agli argomenti principali della trattazione, ovvero l’etica e la politica; come per esempio l’interpretazione arendtiana della facoltà di giudizio per il tramite della Critica del Giudizio di Kant. Senza scendere in merito alla trattazione, ci basti qui considerare all’uopo che la Arendt interpreta il giudizio da un punto di vista eminentemente etico, più che estetico. Fondamentale, ai fini di un’ermeneusi costruttiva, è provare a pensare tale passaggio concependo l’estetica come filosofia della percezione e del senso, proprio perché Sollazzo, come abbiamo detto, intesse, da un punto di vista etico, un interessante discorso sull’aspetto biologico – emozionale della natura umana reggentesi sulla fondazione pedissequa di un’etica minima universale (e universalistica).

Bene, in tal senso la migliore trattazione della facoltà di giudizio è quella in cui l’estetica va a cadere nell’etica, come lo stesso Croce delle quattro parole sapeva bene, perché non si può saltare di palo in frasca: la dimensione estetica, in tal senso, è fondante [2]. Ciò significa, nella mia proposta di dibattito, che bisogna occuparsene preliminarmente, ovvero prima (in senso forte) dell’etica stessa, altrimenti una qualsiasi trattazione dell’etica rischia di consistere in una mera esposizione del già detto oppure in un’ “etica generativa” che distingua, a sua volta, come il Chomsky linguista, struttura profonda e struttura superficiale, ricadendo per questo in un dualismo irrisolvibile.

Allo stesso modo si potrebbe argomentare circa il senso comune citato dall’autore, per il tramite della Arendt, come fondamento dell’etica, in relazione alla trattazione arendtiana del giudizio di gusto. Ma attenzione! Il senso comune kantiano, contro la parziale interpretazione arendtiana, non ha nulla a che fare con l’inglese “common sense” né tantomeno col comune “buon senso” della società per bene: esso, al contrario, è dotato di una natura concettuale ben precisa, eppure contemporaneamente e paradossalmente nebulosa. Esso sì, deve essere concepito come l’“universale soggettivo” (!) di cui Kant tratta nella KdU, che ha un esito profondamente etico, il quale consiste nella comunicabilità di significazioni, nella condivisibilità esperienziale fra gli uomini, nell’universalità di sentimenti di cui parla Sollazzo stesso anche nel primo capitolo del suo lavoro, riferendola ad un’etica minima universale e alla sua necessità intrinseca come fondo etico, sociale, politico, ma soprattutto antropologico della nostra persistenza al mondo [3]. In questo senso, l’indagine che Federico Sollazzo cortocircuita circa la possibilità di un’etica minima universale è un discorso, volendo, di per sé kantianissimo.

Allora, quella che propongo al dibattito è una chiave di lettura del dualismo coercitivo in cui l’uomo etico s’è autocastrato da secoli, quello fra res cogitans e res extensa, che poi si reduplica irrisolto, a dir la verità, persino nell’allotropia foucaultiana inquadrantesi all’interno di una condizione trapassata, in breve, dalla società della disciplina a quella del controllo tramite la dialettica fra norma e devianza. L’uomo è franto, disunito, nel senso del più radicale ethos antropoi daimon. La ricomposizione fra corporeità ed extracorporeità, che è argomento importante del testo, o è intesa come allotropo foucaultiano, o come dualismo irrisolto, o ancora, per esempio, come “l’indagine sull’essere della natura” la quale  “è, per Jonas, l’unica prospettiva che possa conciliare nell’uomo, la componente spirituale, coscienziale, con quella corporea, organica”. In questo senso Sollazzo nomina jonasianamente una sorta di “ontologia dell’essere corporeo che, a partire dalla considerazione che l’uomo non è né solamente un essere spirituale, né solamente un corpo materiale, rifiuta qualsiasi forma di dualismo e/o di esaltazione dell’una o dell’altra componente umana (come accade, ad esempio, nello spiritualismo e nel materialismo), concependo l’essere umano come un tutto unitario” (p. 220). Ma non è che semplicemente dicendole unite, queste due componenti smettano di essere semplicemente giustapposte. Occorre, secondo me, un secondo livello di analisi, per il quale tale ricomposizione fra corporeità ed extracorporeità trovi ideale compimento anche ontologico nel sentimento estetico per il tramite di ciò che precipuamente lo suscita: il bello naturale o, data l’era della techne, l’arte [4].

Insomma, la domanda che ci si poneva all’inizio dell’opera trova la sua risposta ideale se si considera il sentimento estetico, del bello e del brutto nella fattispecie, come la possibilità preliminare di una fondazione dell’etica comune che funga da ponte, kantianamente, fra intelletto e ragione, fra sensi e senso delle cose, e per questo tramite, da recupero dell’uomo in quanto tale: la grecità ne ebbe solo l’acritico sentore col kalokagathòs. Si potrebbe qui obiettare che la stessa percezione del bello e del brutto artistico si fondano su differenti basi culturali, come testimonia la varietà delle arti, delle loro forme e della loro fruizione.  Ma al di là della produzione artistica, che ne è di fatto la fenotipizzazione sociale, e quindi sovrastrutturale, il sentimento del bello e il brutto si poggia a sua volta sull’aisthesis, sul quid estetico irriducibile che coincide col “cogliere di colpo”, per l’appunto,  attraverso i sensi il senso delle cose. Ed è appunto l’aisthesis, il suo funzionamento, la sua natura, che debbono essere fondamentale oggetto di indagine.

È questo l’unico modo per evitare una serie interminabile di aporie che potrebbero sorgere dalla ricerca puramente apofantica di un’etica minima universale, come quando si affermi ad esempio che non ci sia contrasto tra l’universalità di un’etica minima e il multiculturalismo: certo, non ce n’è, ma esiste invece con i paradigmi culturali su cui questo si fonda, essendo i due piani molto diversi fra loro. Ecco perché seguire Levi – Strauss parlando di  “universalismo della differenza”, di “sintesi disgiuntiva” (p. 65) e da questi concetti affermare che l’etica umana è “una” è quantomeno dato come presuntivamente autoevidente, laddove invece non lo è affatto. Infatti, certo che bisogna “accettare gli altri come diversi e uguali”, ma questo è più un dover-essere morale che un dato di fatto antropologico, e così siamo ben lungi dal superare in questo modo, come vorrebbe Touraine, “due posizioni, il razzismo e l’universalismo apodittico” (p. 64). Ciò perché tentare di superare l’apoditticità con l’anapoditticità indimostrabile non fonda un’etica minima, al limite la dà per buona.

Allo stesso modo, ad esempio, Charles Taylor afferma, trattando il concetto di valore nella modernità, che esso sia una capacità (o “potenzialità”) umana universale; sì, lo è, ma in un determinato contesto culturale e storico esso consisteva nell’onore, in un altro determinato contesto esso era la dignità, e così via! E si può, poi, pacificamente affermare che la dignità sia il valore del moderno liberalismo, se il liberalismo stesso riconosce le molte culture per poi inglobarle in una sola con un bieco processo di omogeneizzazione? Notare come oggi sia in atto un processo dialettico tra spinte omologanti e spinte diversificanti, fra il liberalismo, (globalizzante) e il comunismo (no – global, localizzante) significa dover argomentare le due cose evitando le semplici giustapposizioni, come invece, Amartya Sen, sembra fare quando dice che le differenze debbano essere intese non tanto come rapporti tra civiltà, ma tra persone che sono, ovviamente, fra loro uguali e diverse, ed in particolare, per Sollazzo, uguali nel pattern universale dettato dall’etica minima.

Così, per superare l’empasse, è interessante il discorso che Lévinas intesse su un concetto non egocentrato di alterità, così come il riferimento alla différance di Derrida, giacché, come afferma Sollazzo, “Il tentativo di definire le nuove responsabilità dell’uomo moderno, testimonia l’inquietudine e lo spaesamento di un epoca (la nostra) che fa seguito al decentramento del cogito, alla “morte di Dio” ed al politeismo dei valori. Ma proprio la tematizzazione di tali nuove responsabilità rende chiaro come esse non vadano assunte da un soggetto auto–referenziale (che si confronta solo con se stesso), bensì in relazione alla categoria di alterità, sia oggettiva (la natura e le cose) che soggettiva (il prossimo). Così, le grandi questioni filosofiche si allontanano da una teoria “forte” della conoscenza, imperniata sull’egemonia dell’ego cogito, e si riconfigurano attorno alla questione della relazione all’alterità; è quindi nell’ambito di tale relazione che devono essere rintracciate le nuove (co–)responsabilità dell’uomo” (p. 230); ed ancora: “In qualsiasi modo si voglia rispondere alle suddette questioni, il solo fatto che esse siano state in tal modo poste, il solo fatto che una parte non indifferente della filosofia contemporanea abbia concentrato la sua attenzione sul tema dell’alterità, testimonia della necessità (e, direi, dell’urgenza) di un’integrazione fra prospettive filogenetiche ed ontogenetiche” (p. 242).

È per questo che discutere di un’etica minima universale significa indagare l’aisthesis come via preliminare per scavare a fondo le radici morali dell’umanità, anche e proprio nel senso dell’integrazione fra prospettive filogenetiche ed ontogenetiche. Proprio Sollazzo, del resto, afferma implicitamente la fondatezza estetica dell’etica, quando la definisce “un’etica minima (intesa come l’attribuzione agli altri della nostra medesima sensibilità di base, del nostro stesso sentire di fondo, insomma, come una condivisione dello stesso patire)” (p. 45): detta così, su cos’altro si fonderebbe, infatti?

E tuttavia l’autore non pone l’accento sul fondamento estetico dell’etica, perché gli interessa mettere in rilievo per il momento altro, soprattutto nelle parti del libro che riguardano la trattazione del concetto di totalitarismo come antiragione, esposto con ampi orizzonti di studi e di vedute, o nel ripensamento del concetto di democrazia che la renda attuale ed attualizzabile: parti centrali del libro in ogni senso, che per scarsità di spazio non possiamo andare qui ad analizzare e per i quali vi rimandiamo certamente alla lettura diretta del testo.


[1] Al di là della nota polemica fra Chomsky e Skinner, in seguito alla dura critica che il primo svolse contro il comportamentismo del secondo esposto in Verbal Behaviour (1959), ovvero contro l’idea che il linguaggio sia solo questione di stimolo, risposta, rinforzo, il limite che già trent’anni fa segnò la crisi della linguistica chomskiana risiede nel fatto che tutti gli orientamenti psicolinguistici ispirati alla grammatica generativa dagli anni Sessanta in poi fanno prevalere l’intenzione di trovare conferme (eterodirette) ai modelli, alle strutture e alle regole che la loro linguistica propone, invece di interessarsi effettivamente all’uso del linguaggio o alla capacità di parlare, come invece, ad esempio, Austin (pur con le dovute riserve in seguito espresse da Searle) nella teoria degli atti linguistici fece.

[2] Il significato della terza critica kantiana è estetico nella prima parte, etico nella seconda (giudizio teleologico); non si tratta di una classificazione, ciò ne esprime il senso.

[3] Nella prima parte della KdU, Kant indaga il giudizio di gusto per via di negazione per capirne l’interno tì estìn e facendo ciò giunge all’idea di questo “universale soggettivo”, che è il giudizio sul bello: la bellezza è soggettiva ma contemporaneamente “pretendiamo” che tutti gli altri siano d’accordo con noi quando esprimiamo questo giudizio di gusto. Esso infatti ha da essere indagato preliminarmente, prima dell’etica (in senso logico, non cronologico), perché è su di esso che si fonda l’ethos, ovvero l’universalmente comunicabile. Per ciò, la KdU ha questo di fondamentale: non è un’etica, ma una fondazione dell’etica, e non si possono trarne conclusioni etiche tout court, ribadiamo, senza prima indagarne la fondatezza estetica.

[4] Per l’ultimo Foucault questo è un punto talmente fondamentale da comportare un radicale ripensamento del proprio precedente dis-umanismo come retaggio strutturalista e poststrutturalista.

32 pensieri riguardo “La fondazione estetica di un’etica minima universale: una proposta di dibattito, a partire da “Totalitarismo, democrazia, etica pubblica” di Federico Sollazzo

  1. non so perchè, forse per retaggio culturale, ma l’etica minima mi pare un controsenso. mettersi d’accordo un minimo, sarebbe certo cosa auspicabile, ma è sufficiente per parlare di etica?

    1. Il concetto di etica minima fornisce certamente il destro per una serie di aporie e di problemi che ho cercato di sollevare nell’articolo.
      L’unico modo per superare l’empasse, a mio avviso, è indagare preliminarmente l’aisthesis ed il funzionamento psicosociorelazionale del giudizio come “ponte” non solo, kantianamente, fra “intelletto e ragione”, ma fra sfera sensibile, privata e dimensione sociale del soggetto. La dimensione etica, infatti, ha bisogno di un quid comunitario per poter essere anche soltanto pensata: proprio perché è difficile considerarla universalmente condivisibile, occorre indagare preliminarmente la possibilità stessa e la natura eventuale di un tale quid, senza darne per scontata la struttura universale.
      Non è possibile infatti ritenere pregiudizialmente che esista un’etica minima in un mondo in cui le semiosfere sono molte e somigliano sempre più a sistemi chiusi che una volta aperti non permangono stabili, ma si disperdono in entropia: occorre andare a vedere se un’etica minima sia anche solo possibile, e se sì, come.
      E’ una proposta di dibattito che spero di sviluppare.
      Sonia Caporossi

  2. Intervento interessante, per certi versi ingeneroso rispetto alla questione antropologica sollevata dal testo di Sollazzo, che nella recensione non ho potuto affrontare ma i cui fondamenti sono ben solidi e il riferimento per esempio a Gehlen, Plessner e Scheler non è tanto quello ad autorità quanto quello del rimando a chi ha gia indagato una questione individuandone le coordinate essenziali (un testo è d’altronde ovviamente limitato e non puo affrontare tutto); in ogni caso è anche vero che alcune questioni importanti nel testo sono più sollevate che non “sviscerate”, ma non voglio farla lunga portando subito il discorso altrove e cerco di restar al punto sollevato: se ho ben inteso si tratta di individuare come “base comune” il sentimento estetico in senso artistico, ossia la capacità di cogliere di colpo sensorialmente il senso di quanto si dà, e – sempre se ho ben inteso – in questo darsi è in fondo già implicito un rapporto con l’alterità, con il proprio “fuori” (in questo senso i sensi, perdonatemi il gioco di parole, sono davvero le porte di ingresso del e nel mondo).

    Ora, posto che io abbia ben compreso, non mi è chiaro il passaggio dal senso-sensazione alla questione estetica in senso artistico, ossia alla percezione e al riconoscimento del bello, o meglio mi è chiaro nel senso del riferimento a Kant, ma non vorrei fosse un mero richiamo a quell’autorità “criticata” a Sollazzo e non il tentativo di fare emergere un concetto vero e proprio. Anche perché possiamo partire dal dire che il senso è tensione verso il senso dell’altro, per esempio, ma poi sentire un altro sentire è un conto (ed è questa mi sembra l’etica nel senso indicato da Sollazzo), sentire il bello è un altro conto (l’estetica), ma anche sentire una connessione oggettiva è un altro conto (la conoscenza in senso teoretico, ecc.), e così via (distinzione non meditata, lo dico subito): non capisco perché la seconda sarebbe più a fondamento della prima e della terza, ecc. Brutalizzo la questione: forse che un contadino vissuto tutto il tempo nei campi senza nemmeno dedicarsi mai uno spazio per la “fruizione estetica” della terra coltivata non potrebbe essere etico? (esempio debole, me ne rendo conto, io stesso vedo le molte possibili obiezioni, ma lo lancio per riaprire la discussione)

    Giacomo Pezzano

    1. Caro Giacomo,
      l’esempio del contadino a me sembra mal posto; perché non c’entra tanto il sentimento del bello in senso culturale (che per forza di cose si sviluppa “dopo”), come pari dire tu, bensì il fondamento estetico stesso della natura umana.
      il contadino, in questo senso, ha un’aisthesis in tutto identica alla mia o alla tua.
      Il sentimento estetico, del resto, non riguarda neanche solo il bello né tantomeno solo l’arte; si dice in genere che riguardi esemplarmente il bello e l’arte, ma solo come emergenza del sommerso; di fatto il sentimento estetico consiste, per così dire, nell’atto coscienzale primigenio in senso logico, non cronologico, che mette in collegamento il prodotto dei sensi col dipanarsi del senso delle cose all’interno di noi stessi, tramite il quale noi ci orientiamo nel mondo e per mezzo del quale solo può nascere una virtuale o virtuosa comunità sociale, sorgente a sua volta sull’accordo di tutti i suoi membri su ciò che è buono e bello, brutto o cattivo, come sentire immediato in senso forte; in questo senso, l’estetica è strettamente connessa con la filosofia del linguaggio e va ben oltre il settecentesco classicismo kantiano, quindi non si tratta della ripresa di un’auctoritas in quanto tale. In questo senso, inoltre, l’estetica a me pare fondante per la teoretica, per l’etica e per tutti gli aspetti della semiosfera di riferimento proprio in quanto viene “prima” (resta da indagare se esistano semiosfere altre: direbbe Cartesio, la mente di Dio o dei pazzi, ad esempio).
      Si tratta, insomma, preliminarmente, di indagare per quali mezzi e in quali forme si diano i sentimenti di bello e buono, brutto e cattivo (et cetera, ovviamente: non si tratta solo di questo), per quali mezzi e in quali forme essi siano stati espressi in forma sociale nelle comunità umane come strumenti di definizione di una comune base di accordo e questo può farlo solo l’estetica; e tuttavia, sia chiaro: un’estetica che non sia intesa come mera filosofia dell’arte, bensì come filosofia del senso, o volendo, “filosofia non speciale” alla Emilio Garroni (il nome di Garroni a me è molto caro ma la mia proposta non consiste in un’adesione fideistica al suo dettato, anzi, lo travalica; del resto, Garroni come filosofo non si presta affatto alle crasse auctoritates).
      E’ un percorso da costruire, di cui si vedono le tracce e che può consistere realmente in una indagine fondante, in tempi di magra, come siamo, per ogni tipo di fondamento.
      Per essere ancora più chiara:
      Perché noi diciamo che qualcosa è bello o qualcos’altro non lo è?
      E perché a ciò che è solo piacevole (termine kantiano) concediamo la possibilità del de gustibus individuale mentre invece pretendiamo che tutti siano d’accordo nel nostro giudizio di gusto, per esprimerci in termini tradizionali, e quasi ci offendiamo quando qualcuno non ritiene bello ciò che noi consideriamo tale?
      E perché ciò che è bello pare attirarci fino alla rassicurazione etica della sua bontà, mentre ciò che è brutto pare anche cattivo?
      E’ questo ciò che dobbiamo preliminarmente indagare prima di poter parlare di “etica minima universale”?
      A me pare di sì, perché è il sentimento estetico ciò che pare fondare il senso comunitario, in quanto sembra coincidere con la forma più intima di linguaggio estroflesso in forma di sentimento e, quindi, di comunicazione che cerca un accordo il quale dalla sfera soggettiva si faccia sociale.
      Per indagare questo, però, non basta costruire una panoramica dello stato dell’arte e porre assiomi dati per buoni: occorre calarsi nel magma bollente della materia e trovare un methodos.
      Spero di esser stata più chiara.
      Grazie
      Sonia Caporossi

      1. Grazie per la risposta.
        La prima parte mi ha lasciato questa perplessità: allora in cosa la tua proposta (ti do liberamente del tu, se posso) si “oppone” a quella di Sollazzo? Mi sembra un’integrazione, una maniera di rischiarare ciò che lui dice quando parla di “emozionalità” come base minima, e il definirla estetica anziché etica parrebbe un modo per nominare esplicitamente che l’emozionalità è un sentire appunto e non in prima battuta un agire, un comportamento, una condotta in senso “morale”, ecc.

        Ed è certamente una precisazione anche interessante, che però la seconda parte rende ai miei occhi nuovamente traballante: questo immediato connettere giusto (buono) a bello mi spiazza perché qui vedo l’inserirsi della questione estetica in senso “stretto”. Se la questione è che il senso esprime (o tende verso, ricerca, ecc.) originariamente una forma di “accordo” e “armonia” che corrispondono all’esigenza di un rapporto in-tonato con il mondo (penso alla Stimmung in senso profondo o all’at-tuning di Peirce, ma anche alla “confidenza generale indeterminata” di cui parla Husserl), e in questo senso a un rapporto che sia al contempo “bello e buono” perché appunto sereno ed equilibrato (che è poi un modo di dire felicità e stare bene, ma allora qui ritorna la questione etica e soprattutto politica, la troppo spesso ‘filosoficamente obliata’ politica), allora non capisco in che senso il sentimento “estetico” sarebbe a fondamento di quello “etico”, nel senso che andrebbe esplicitato in cosa estetico ed etico si distinguono.
        Cioè, dare ‘preminenza’ all’etico nel testo di Sollazzo è un modo molto semplicemente per dire su cosa possiamo basare il nostro stare insieme che è fatto di atti e azioni (evidentemente, direi) e non semplicemente di ‘osservazioni’, e questo “basamento” è rintracciato in quell’emozionalità che è a tutti gli effetti un sentire.
        Che va connotato e articolato, certo, specificato, ed in questo senso le tue considerazioni sono interessanti, ma non capisco se la questione è che il sentimento inteso come sentire e dunque come “estetico” debba tradurre in maniera più chiara l’emozionalità o se è il sentimento “estetico” a ricomprendere precedendolo (in che modo? ma soprattutto, perché?) il sentimento “etico”.

        Forse che il sentire etico è un sentire l’altro uomo mentre nel sentire estetico sarebbe in gioco un sentire l’altro in quanto tale (il mondo, l’altro prima della distinzione tra altro umano e altro non-umano), e in questo senso il secondo ‘precede’ il primo in quanto più ampio e generale? E lo farebbe proprio perché espressione appunto del semplice sentire ciò che c’è e accade nel mondo per ‘corrispondervi’ in modo proporzionato ed equilibrato? Per cogliere il senso del darsi del mondo e con ciò il suo ordine, e riscontrare così anche l’ordine della sensorialità stessa, la commistione misurata tra bello e buono, ecc.?
        Mi fermo per non abusare del tuo tempo e della tua pazienza.
        Perdona l’incalzante interrogare ma è solo perché percepisco in quanto dici qualcosa di significativo che però non riesco sino in fondo a ‘inquadrare’ (a mettere in un quadro, esteticamente potrei dire! – ma non nel senso di ‘logicizzare’).

        Giacomo Pezzano

  3. Cara Sonia,
    ti ringrazio per l’articolo e ringrazio Giacomo per il commento, mi permetto di aggiungere delle precisazioni e qualche osservazione.

    La questione “estetica” è certamente per me importante, prima di precisare qualcosa a riguardo voglio però accennare a come l’ho intesa nel testo. Sulla scorta dell’interpretazione arendtiana di Kant, la questione estetica rimanda al gusto e quindi alla facoltà di giudizio, essendo il gusto quel “senso comunitario” (gemeinschaftlicher Sinn) che, appunto, crea condivisione perché ci permette di ragionare (occupazione solitaria; Selbstdenken) attraverso gli occhi dell’altro (testimoniando quindi il fatto che al mondo non c’è l’uomo, ma gli uomini), partecipando così alla costruzione del mondo, che in questi termini è anche una sua comprensione. Ma questo percorso è sterile se inautentico, imposto in qualche modo, e l’unico modo di renderlo autentico è quello di intraprenderlo non per uno scopo ulteriore ma per se stesso, perché è platonicamente Bello e quindi Buono. Se Kant ed Arendt indicando il percorso, il “come”, Platone indica lo scopo, il “perché”. Tutto questo presenta una stretta relazione con la “teoria critica” francofortese e, a proposito di coscienza critica, rende evidente come essa non dipenda dall’Arte e dall’Alta Cultura, benché siano fattori che certamente la favoriscono (prova ne sia il fatto che gli ignoranti contadini italiani del secolo scorso mi sembra che avessero molto più senso critico degli acculturati gerarchi nazisti).
    Precisato questo, spero sia meglio comprensibile perché rifiuto le critiche di mancato svisceramento della fondazione estetica e di ricorso al principio d’autorità, e le rifiuto per (almeno) tre motivi.

    Primo. Questo libro non è una monografia (genere peraltro a me non congeniale) ma il tentativo di avanzare di una proposta che, per non essere campata in aria, deve collocarsi nella panoramica dello stato dell’arte, e così facendo offre anche una mappa filosofica della modernità, come è scritto nella Premessa.

    Secondo. Se quando si vuole costruire un’argomentazione personale ricorrendo ad elementi del pensiero altrui, ci dovessimo fermare su ciascuno di essi per sviscerarlo capillarmente non arriveremmo mai ad esporre ciò che vogliamo esporre. Non si tratta quindi del ricorso al principio d’autorità, ma di un chiarimento per il lettore, una sorta di avvertenza: “mettiamoci d’accordo, questo è il materiale da costruzione che userò per costruire la mia argomentazione”; ovviamente ciascun singolo elemento di quel materiale può essere sottoposto ad uno zoom ermeneutico, ma questo è un altro lavoro (monografico) rispetto a quello che mi sono prefisso in questo libro e che, se facessi in quel modo non riuscirei ad argomentare.

    Terzo. Benché tutti noi si sia amati della filosofia, questo non deve impedirci di coglierne i limiti: non tutto è verbalizzabile, la fondazione ultima ultima del pensiero è l’intuizione (questo sì, non ho sottolineato nel volume). E questo vale anche per quella dimensione che nel libro chiamo “emozionalità”. Le emozioni non si comprendo con la genetica (biologismo), con la razionalità (razionalismo) o con la percezione (cognitivismo), ma con l’intuizione; gli altri aspetti servono solo a dare un “corpo” (e sui corpi che diamo ci sarebbe molto da dire) a un’intuizione che è già avvenuta, altrimenti non ci porremmo neanche la questione di darle un corpo. E “su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. Invece si può e si deve parlare delle applicazioni, e relative conseguenze, di argomentazioni ontogeneticamente e filogeneticamente rilevanti.

    Grazie, un caro saluto a tutti,
    Federico Sollazzo

    1. Caro Federico,
      la chiosa dal Tractatus non mi pare pertinente, dato l’ulteriore sviluppo del pensiero wittgensteiniano che getta un ponte fra l’estetica come filosofia, appunto, dell’intuizione e del senso, e la filosofia del linguaggio. In questo senso Le Ricerche Filosofiche mi sembrano più corroboranti per il discorso che sto cercando di chiarificare, e la citazione più adatta per cercare di capire, volendo, potrebbe essere:
      “descrivi l’aroma del caffè”.
      Come si fa a descrivere l’aroma del caffé? Non si può! Eppure lo sentiamo, e intuiamo semplicemente che qualcun altro possa sentire al nostro stesso modo l’aroma del caffé: proprio laddove dondoliamo in punta di piedi sul crepaccio che ci separa dal baratro dell’espressione, al limite estremo del linguaggio e della comunicazione.
      Proprio perché non tutto è verbalizzabile, occorre mettere in rilievo questo limite del linguaggio che è anche il limite della comunicazione umana in ogni senso, anche etico. Mi sono chiesta leggendoti quale fosse il fondamento reale di un sentire condiviso, e mi sono risposta nell’articolo, come proposta di lavoro, che tale fondamento è estetico, risiede cioè proprio nell’intuizione che tu giustamente qui nomini e che altrove ho chiamato “il cogliere di colpo”. Io ho compiutamente affermato all’interno dell’articolo che la tua prospettiva è di per sé estetica, ma che per ragioni di focalizzazione tematica non la sviluppi nel tuo saggio, ed ho pertanto proposto che essa sia oggetto di ulteriore studio e approfondimento, magari in testi futuri. Che siano monografie.
      Grazie a te
      Sonia Caporossi

  4. Caro Giacomo,
    Certamente il mio articolo vuole essere un’integrazione ad un discorso che è già di per sé chiaramente estetico, come ho anche affermato nel mio articolo. La mia proposta non si oppone, bensì integra quella di Sollazzo.
    Per quanto riguarda la distinzione fra estetica ed etica, si dà pensando all’indagine nelle modalità del suo farsi. All’interno del saggio di Federico ho riscontrato un’ottima bibliografia e una compiuta panoramica di autori e temi; e tuttavia l’affermazione di un’etica minima universale è “data”, non è “problematizzata” fuori da determinati ipse dixit.
    Occorre a questo punto indagare in termini problematici in che modo la sfera emozionale si ponga come fondamento della dimensione prima umana, poi sociale: la prima fase dell’analisi è chiaramente compito precipuo dell’estetica.
    E’ chiaro che se uno parte dal dato di fatto, come fa Sollazzo all’interno del suo libro, le sfere di pertinenza del bello e del buono, una volta chiuse a cerchio, non sono più nettamente distinguibili.
    Tu scrivi: “non capisco se la questione è che il sentimento inteso come sentire e dunque come “estetico” debba tradurre in maniera più chiara l’emozionalità o se è il sentimento “estetico” a ricomprendere precedendolo (in che modo? ma soprattutto, perché?) il sentimento “etico”. Io mi sono domandata spesso se non sia piuttosto il contrario, se, mettiamo, Croce con la sua vituperata filosofia delle quattro parole non avesse intuito invece qui una struttura della natura gnoseologica umana in cui sia l’etica a ricomprendere in sé l’estetica la quale quindi, proprio per questo, si porrebbe alla base di qualsivoglia indagine circa la condizione umana, come strumento per analizzare la condizione “aurorale e primigenia” dello spirito umano (dire “spirito” oggi fa un po’ ridere, ma ci capiamo se intendiamo per esso, in modo assolutamente non crociano, la semiosfera umana nel suo darsi in quanto tale. Come vedi, ancora una volta, nessuna auctoritas, bensì una proposta). Proprio per questo mi sono permessa di suggerire che “prima” di parlare di etica, occorrerebbe compiere un percorso speculativo a ritroso: giusto per cercare di capire meglio di che cosa si stia parlando.
    Grazie a te
    Sonia Caporossi

  5. Il pensiero occidentale è ricco di pensatori, come Lévinas e Ricoeur, per citarne solo due del novecento, che hanno suggerito, al posto di quel “paradigma dei diritti” della modernità basata sulla relazione ego-alter-ego, un paradigma basato invece sulla différance, intesa nel senso di Derrida, che sostituisse la “morale del debito” con “l’etica del dono”.

    La proposta è di realizzare un approccio diverso con l’Altro, intendendo l’Altro come assoluta esteriorità e irriducibilità.

    Questo nuovo e diverso approccio è possibile solo uscendo dalla logica del do ut des a cui s’ispira la morale del debito e le relazioni del dare/avere.

    E’ possibile solo se fondato su un puro disinteresse, su quell’etica del dono che trae origini nel pensiero cristiano.

    La posta in gioco è veramente alta, soprattutto in quest’epoca che, come da tempo va dicendo Z. Bauman, le strutture sociali da solide sono diventate liquide, come gli orologi di Dalì.

    Una speranza che, semmai un giorno dovesse realmente avverarsi, trasformerebbe le società umane in una kantiana pace perpetua.

    Non entro nel merito dei complessi ragionamenti messi in campo da Lévinas, Ricoeur ed altri per sostenere le loro accattivanti tesi.

    Voglio invece limitarmi a una domanda: una società basata sul fondamento dell’Amore, sull’etica del dono e del disinteresse, dopo duemila anni di fallimenti seguiti al messaggio cristiano, è concretamente possibile? O resta nell’orizzonte ideale di chi vuole ancora sognare un mondo diverso?

    Come realizzare questa nuova intersoggettività e come relazionarla con la sfera pubblica?

    Gli autori sopra citati rispondono suggerendo che sono necessari un’autentica rivoluzione dell’io prima e una conversione dell’etica pubblica poi.

    Che ci vogliono un discorso politico nuovo, una democrazia compiuta e un diritto che s’ispiri a un qualcosa che trascenda l’uomo così com’è.

    La storia, invece, risponde con l’ultima grande illusione: con la società comunista, che ha fatto sognare milioni di uomini e donne, e che, secondo Marx, sarebbe sopraggiunta quando le contraddizioni insite nel capitalismo l’avrebbero fatto crollare, spalancando finalmente le porte del regno della libertà.

    Sappiamo com’è andata a finire. Altro che libertà, è stato l’Inferno.

    Sulle macerie del fallimento comunista, in questo inizio millennio, sperduti si aggirano uomini e donne affamati di speranza.

    Parlare, malgrado ciò, ancora di possibilità di un’etica del dono dunque? Per questi uomini e per queste donne forse è l’ultima illusione.

    1. Bisognerebbe distinguere con grande attenzione “secondo Marx”, “secondo il marxismo”, “secondo i dirigenti del partito comunista russo” ecc.

      Comunque nella frase “Gli autori sopra citati rispondono suggerendo che sono necessari un’autentica rivoluzione dell’io prima e una conversione dell’etica pubblica poi.

      Che ci vogliono un discorso politico nuovo, una democrazia compiuta e un diritto che s’ispiri a un qualcosa che trascenda l’uomo così com’è”

      c’è tutta la questione: tali autori sono autori che credono che la questione sia nella rivoluzione dell’io e nella conversione dell’etica pubblica, qui la questione non slitta più nemmeno dall’etica all’estetica, ma dall’etica alla religione (“qualcosa che trascenda l’uomo così com’è”).

      Non è casuale che siano tutti pensatori “afflitti” da messianismo, cosa che si vede con disarmante chiarezza nel testo ‘spettrale’ di Derrida su Marx.

      Voglio dire, che forse la critica che si può fare al testo di Sollazzo, che però in realtà è anche ben consapevole di questa questione nel suo riferimento ad Arendt o a Marcuse, è che la questione politica è sotterranea. Come in troppa filosofia contemporanea.

      Che cioè non si tratta di fondazione estetica o di conversione religiosa (che poi la si nomini “democrazia nuova” o “paradiso ultraterreno” non fa grande differenza in fondo, sempre afflato religioso è), ma di ridare spazio alla politica, spazio vero.

      Ed è qui una questione di prassi, e allora serve una filosofia che davvero sappia pensare la prassi, come Marx ha solo indicato ma molto schiettamente non è riuscito a fare.
      Come Gentile ha provato a fare in gioventù per poi abbandonare la strada facendo dell’attualismo una forma di religione filosofica del corpo sociale, se così posso dire.
      Come forse Fichte ha fatto ma con un linguaggio che ancora richiede di essere “tradotto”.

      Voglio dire, sono anche d’accordo con il dire che tutto (qui, l’etica) si fonda sul “sentire di colpo” e che questo possiamo pure chiamarlo estetico, però qui andare all’origine rischia di essere sempre e solo un percorso all’indietro che trova il “momento primo” ma poi non si occupa davvero di ciò che arriva dopo. Come a dire che l’uomo è una scimmia evoluta, e andiamo alla ricerca di quel momento di “stacco” (grado o salto che sia) per capire che cosa è davvero l’uomo, dimenticandoci che cosa sia davvero l’uomo lo determinerà dove arriverà, cosa farà.
      Da questo punto di vista sono rimasto folgorato da un’osservazione di Franco Venturi (in “Utopia e riforma nell’illuminismo”): i filosofi sono sempre “malati” di genealogismo, confondono l’origine di qualcosa con ciò che poi è diventata (Genesis con Geltung, si può dire con linguaggio diverso).

      Curioso che proprio il più grande (il primo vero?) genealogista – Nietzsche – abbia detto senza sosta che andare all’origine di qualcosa non significa coglierne per nulla il senso, il significato vero ecc.

      Allora dico questo, polemicamente: non è un difetto che non sia maggiormente esplicitata la questione della base dell’etica minima nel testo di Sollazzo, perché la questione davvero importante non è ciò che sta “prima” dell’etica, ma “dopo” essa. Quindi dovremmo iniziare a riflettere davvero su quel “dopo”.
      Per quanto poi interessi, “peso di gravità”, inclinazioni ecc. di ognuno siano diverse, ci mancherebbe.
      E per quanto so che a “noi” (?) filosofi interessi sempre quel “prima preliminare”, quel “passo indietro”, ecc.

      Quindi in questo senso se non sono proprio convinto sino in fondo del “silenzio” chiamato in causa da Sollazzo, ne capisco (o perlomeno credo, con quanto detto) però appieno il senso e la direzione. Non è quel silenzio che rinuncia e getta la spugna (salvo poi chiamare in causa il mistico o il dono “a venire”), ma quel silenzio che dice “rimbocchiamoci le maniche e mettiamoci al lavoro, non parliamo soltanto” – detto brutalmente [che poi a voler fare il democristiano filosofico l’intuizione di Federico e il cogliere di colpo di Sonia non sono poi così distanti per certi versi!].

      So di aver spostato un po’ l’asse della discussione, me ne scuso.
      Giacomo Pezzano

      1. “però qui andare all’origine rischia di essere sempre e solo un percorso all’indietro che trova il “momento primo” ma poi non si occupa davvero di ciò che arriva dopo.”
        Ma andiamo, ma se in filosofia non si fa altro che occuparsi di ciò che viene dopo!
        La filosofia contemporanea, dammi retta, è malata di epimeteismo e poco propensa al prometeismo, altroché. Il caro Venturi, grandissimo storico dell’Illuminismo, sa bene quanto il genealogismo pertenga piuttosto al nietzschenianesimo selvaggio della filosofia francese della seconda modernità novecentesca, col rischio che spesso questa straparli in termini costruttivistici, cosa da me infinite volte aborrita da chiunque mi conosca.
        Non è questo il caso di Sollazzo, ovviamente, del quale ho detto compiutamente che la mia proposta voleva solo integrare la base di partenza di un discorso valido di per sé, laddove esso si fa politico, ma non valido se autodeterminantesi sui fragili basamenti dell’ipse dixit, specialmente, ribadisco, laddove l’assunto FONDAMENTALE del suo libro è la definizione di un’etica minima universale, la quale nella trattazione meramente ESPOSITIVA, non ANALITICO – CRITICA che ne dà, diventa altresì ambiziosa, in quanto NON giustificata in modo FONDANTE attraverso un’indagine filosofica che non consista in una mera panoramica di temi problemi e auctores.
        Non mi sembra di esser stata carente di chiarezza in questo senso.
        Se poi vogliamo continuare a difendere l’evidenza, fate pure. Sollazzo stesso ha dichiarato esplicitamente che il suo libro non è una monografia: dunque se ha un difetto, è quello di pretendere di possedere una tesi di fondo tipicamente monografica, cioè DI RICERCA, che però, proprio in virtù della sua panoramica espositiva ampia, diffusa, completa, accurata, penetrante e quant’altro, tuttavia non è altresì indagata, discussa e dimostrata, ma data per buona in nome del già detto. A maggior ragione perché il libro è diviso in tre sezioni a cui questa tesi di fondo dovrebbe fare da collante!
        Tu scrivi: “non è un difetto che non sia maggiormente esplicitata la questione della base dell’etica minima nel testo di Sollazzo, perché la questione davvero importante non è ciò che sta “prima” dell’etica, ma “dopo” essa. Quindi dovremmo iniziare a riflettere davvero su quel “dopo”.
        Bene, per riflettere davvero su cosa c’è “dopo” l’etica minima, occorre sapere “prima” che CHE COSA ESSA SIA e QUALI BASI ABBIA, e “poi” scriverci su una MONOGRAFIA, cosa che Sollazzo non fa per sua stessa ammissione. Altrimenti rischiamo di costruire postmodernamente un trattato sul Sarchiapone. Rischio che Sollazzo evita compiutamente, beninteso: ma appunto perché perde di vista spesso e volentieri la questione del tì estìn dell’etica minima, che pure dovrebbe essere l’argomento da dimostrare nel libro, per continue digressioni citazionistiche dando per pacifico che cosa essa sia in nome di una definizione stile “x è y” effettuata nelle prime quaranta pagine del libro, che promettono molto ma mantengono poco. Alla fine del libro, insomma, si evita il costruttivismo ma non si è dimostrato davvero un bel nulla.
        Sul rimboccarci le maniche, sono perfettamente d’accordo. Ma teniamo presente che per farlo occorre essere di una levatura operazionale degna a livello teoretico, mettiamo, di un Agamben, e a livello pratico, mettiamo, di un Chomsky.
        A me non sembra che né io, né te, né Sollazzo, a meno di non spararla grossa, possiamo pretendere oggi come oggi, con le nostre sole forze, un’operatività di quel livello; possiamo solo, allo stato attuale dell’arte, ragionare sulla possibilità di una fondazione di un’etica minima universale. Quello che sostengo io, e che è evidente, è il fatto che Sollazzo, nel suo libro, non parli in questi termini, bensì la giustifichi conto terzi.
        Non vorrei ripetermi, perché rischio di annoiare. Questa è cosa che trasuda fin dalla prima lettura del testo, ed è l’unico appunto che mi sento di poter fare, in nome di una critica costruttiva ma non costruttivistica, ad un lavoro per il resto ben scritto e completo per la nozione dei temi che abbraccia.
        Ora, che l’etica abbia un fondamento estetico, è una mia proposta, decisamente operativa e pragmatica, perché di ricerca in senso forte, proprio quello che esigi tu dalla filosofia: ma per quanto mi riguarda, Sollazzo avrebbe potuto anche scrivere che no, che l’etica minima non si fonda sull’estetica, ma sull’accorta lavorazione dei tre luppoli del premiato birrificio Angelo Poretti. A me, ti assicuro, sarebbe andata anche bene come soluzione da poter poi discutere e decostruire, se solo fosse seguita una qualsivoglia trattazione dimostrativa dell’assunto preliminare iniziale non composta da mere carrellate a cornice.
        A maggior ragione in funzione di una visione davvero pragmatica della filosofia come incessante laboratorio, che è poi il mio principale intento.
        Grazie ancora per la possibilità di chiarimento.
        Sonia Caporossi

      2. Non vorrei essere frainteso, se la questione è il testo di Sollazzo è un conto, si può dire che c’è più promessa che non mantenimento ecc., ma io appunto spostavo un po’ l’asse della questione. Né sto mettendo in discussione che il tuo intervento originale fosse sul testo di Federico, forse non sono stato troppo esplicito su questo e ho ingenerato confusione. Cercavo di cogliere degli spunti per allargare il dibattito, tutto qua.

        “Bene, per riflettere davvero su cosa c’è “dopo” l’etica minima, occorre sapere “prima” che CHE COSA ESSA SIA e QUALI BASI ABBIA, e “poi” scriverci su una MONOGRAFIA”

        Proprio a questo mi riferivo quando dicevo che la filosofia di “impregna” del “preliminare” ecc., la filosofia si perde (per sua stessa intima struttura, essenza e vocazione, perlomeno in parte) in questo prima, e proprio in questo senso perde completamente di vista il dopo. Che non è affatto in senso meramente cronologico, beninteso. Quando Sonia scrivi che c’è poco prometeismo in filosofia non dici quindi che c’è poco “dopo”? In un senso diverso dal mio peraltro, perché Agamben, Esposito, Deleuze, sono tutti futuristi iper-prometeici, non è quel “dopo” che ho in mente.
        Con ciò è anche detto che Agamben non ha, per quanto vada di moda e dunque non si possa dire, sia di spessore ecc., un orizzonte tale da pensare il “dopo”, la sua è una filosofia del prima a tutto tondo anzi! E da buon benjaminiano culmina anche lui nel messianesimo “a venire”. Ma così il dopo lo sanno fare tutti, prima o poi bisognerà pur iniziare a dirlo. Che si chiami Agamben, Sollazzo, Caporossi o persino Pezzano, dire che un Dio verrà presto o tardi a salvarci ha lo stesso significato.

        Voglio dire che a me pare proprio mancare una filosofia del “dopo” nel senso di una filosofia della politica in senso alto, non di riflessione sulle forme di governo, sulla norma ecc., ma sulla prassi, sul suo significato e sul suo senso, sulle sue forme contemporanee ecc. Quasi di certo sembra a me perché conoscerò il 3% dei filosofi contemporanei, quindi spero in una smentita che mi faccia scoprire un autore, però io riscontro questo.
        E lo riscontro soprattutto in un atteggiamento diffuso tra “noi” (?) filosofi, quello appunto dell’andare alla ricerca della fondazione, del prima di ogni cosa.
        Rifugio dopo le “illusioni” infrante di cui parlava l’intervento di Divinangelo? Forse.

        Rispetto al testo e all’intervento di Federico, nello specifico dicevo solo che l’istanza che ho sollevato mi pareva anche contenuta nella sua risposta che ‘difendeva’ il senso del libro, che mi rendo ben conto è per te evasiva (e lo è, senza nascondersi, non sono tipo da nascondino), cioè nell’idea che c’è al fondo un’intuizione non “discorsiva” e in ultima istanza persino “ineffabile” (a meno di voler fare i fenomenologi del sentire, che appunto è una di quelle radicali forme di immersione nel prima che è tanto affascinante quanto alienante, a me pare), e che dunque non c’è davvero tanto da dibattere del “prima”. Io aggiungevo che se davvero è così a essere importante è il “dopo”, la politica, la praxis.

        Spero di aver chiarito meglio!
        Giacomo Pezzano

      3. Giacomo, Divinangelo, io vi ringrazio moltissimo del bel dibattito che si sta sviluppando.
        A te, Giacomo, rispondo questa volta un po’ di corsa, perché impegni di lavoro questa sera purtroppo me lo impongono. Solo due osservazioni di sfuggita.
        Tu scrivi: “Quando Sonia scrivi che c’è poco prometeismo in filosofia non dici quindi che c’è poco “dopo”?”
        No, intendo dire che ci sono molti Epimetei, che vedono le cose “in ritardo”, e pochi Prometei, cioè filosofi “previdenti”, non nel senso oracolare del termine, ma nel senso di chi non straparla costruttivisticamente e sa bene invece su quali basi fonda il proprio discorso filosofico.
        Inoltre scrivi: “Voglio dire che a me pare proprio mancare una filosofia del “dopo” nel senso di una filosofia della politica in senso alto, non di riflessione sulle forme di governo, sulla norma ecc., ma sulla prassi, sul suo significato e sul suo senso, sulle sue forme contemporanee ecc.”
        Questa filosofia del “dopo” che delinei a me non sembrerebbe neanche filosofia politica, ma politica tout court.
        Ergo.
        Sonia Caporossi

  6. Un breve chiarimento in merito al mio intervento di cui non reputo esagerato che voi(Giacomo e Sonia) lo possiate considerare inopportuno e intromissivo, visto che del testo di Sollazzo, l’avrete notato, conosco solo alcuni stralci da cui ho tratto l’ispirazione per il mio commento.
    Detto ciò, mi preme entrare nella vostra discussione sul prima e\o dopo dell’etica poichè, scartando la facile soluzione mandalica del cerchio o degli estremi che si toccano e che per loro essenza dunque vanificherebbero il problema sollevato, sono, in accordo con Sonia, del parere che se non si definisce con estrema chiarezza cosa sia l’oggetto(in questo caso l’etica) di cui si sta discutendo o pronosticando il futuro si rischia, a mio modo d’intendere, di parlare di “aria fritta” o nel migliore dei casi di una cosa diversa di ciò che invece si crede si stia discutendo.
    Importante perciò andare alle radici dell’etica e conoscere il terreno su cui esse sono radicate.
    Nel mio modesto indagare le radici del mondo umano, quindi anche quelle dell’etica, affondano e si nutrono esclusivamente dal\nel suolo terrestre e dalla “terrestrità” non può che apparire dunque ogni visione e ogni sentire dell’umano(da cui l’estetica che precede l’etica).
    Per tornare brevemente al tema dell’etica del dono e agli autori cui tale etica si riferisce, aggiungo che, in contrasto al loro ottimismo o alla loro fede nel cambiamento della natura umana(rivoluzione dell’io), personalmente sono con l’incontrovertibile homo homini lupus di Hobbes e con l’unica speranza di Cioran, ovvero quella che l’umanità prima o poi si autodistrugga.

  7. Ovviamente, so bene che dire d’avere come unica speranza che l’uomo prima o poi si tolga via dalla faccia della terra è un’affermazione forte, tuttavia insisto poichè, e lo chiedo anche a voi, mai nessuno ha saputo dirmi cosa voglia dire un “mondo migliore”, escludendo naturalmente le solite vuote risposte come “un mondo basato sull’amore o sull’ugluaglianza o sulla giustizia ect.”, insomma come dire in attesa d’un paradiso terrestre o di noia mortale?
    Forse gli orientali sono andati più lontano di noi eredi dei greci.

    1. Anch’io di fretta purtroppo:

      i) no, non è politica, è filosofia della prassi, e pensare che il dopo sia appunto di per sé politica significa misconoscere il rapporto tra filosofia e politica che non è di per sé già politica appunto. Dato che la filosofia mette in questione il vivere in funzione del vivere bene, sarà pur ora di costruire una seria filosofia della prassi, il che per me significa antropologia filosofica della prassi, ma questa può essere una declinazione non la declinazione, me ne rendo conto.

      ii) sperare che l’umanità si autodistrugga non è un’affermazione forte, scusa la franchezza, ma un’affermazione stupida. Nel senso che nessuno lo spera neanche tu lo speri; è al limite una provocazione che in modo più o meno esplicito e conscio segnala quello che è sotto gli occhi di tutti pur non visto (come se ti metti un foglio attaccato agli occhi), cioè che viviamo in una modalità storico-sociale, culturale-economica ecc. che sostanzialmente ha prosciugato le radici di senso. Insomma, la trinità Dio-Denaro-Merce rende tutto ciò che a essa non si riduce insensato, solo che tutto ciò che a essa non si riduce è tutto ciò che conta per vivere bene. E qui non è questione di comunismi, di lotta di classe, ecc. Qui è questione di riscontrare semplicemente che in un’epoca in cui la competitività economica è l’imperativo sociale (performarce, prestazione, ecc., ormai pure la critica è parte del sistema, sappiamo già tutto) è “naturale” pensare gli uomini come lupi. Oppure pensarli reattivamente come donatori intimamente giusti ecc.

      Quindi un mondo migliore non è per nulla un mondo basato sull’amore e sulla giustiza ecc., un mondo migliore è un mondo in cui le persone litigano e si insultano eccome se è il caso, non è un mondo senza conflitti, è un mondo in cui però il conflitto non è considerato generatore di socialità e di miglioramento. Possibile che sia così difficile capire la differenza tra la presenza e l’incancellabilità del conflitto e il fondare tutto sul conflitto? Possibile (qui scendo un attimo sul filosofico) non rendersi conto che la modernità nasce quando Hobbes dice che siamo spietati assassini l’uno dell’altro, quando Aristotele viene messo in soffitta? E che con questo non si sta semplicemente dicendo che il conflitto è presente nei comportamenti e nelle vite umane (non siamo dèi!) anzi talvolta pure necessario, ma si sta dicendo che il conflitto esaurisce e fonda tutti i comportamenti e le vite umane?

      Ma torniamo a che cos’è un mondo migliore: che cos’è un mondo migliore? Un mondo in cui non ci sono basi militari su territori considerati sovrani (vedi USA in Europa), un mondo in cui la libertà non è solo una parola ma una realtà (vedi distinguere antisemitismo da problematizzazione degli atteggiamenti di Israele), un mondo in cui non devi pagare 950 euro se vuoi fare uno stage di tre mesi in una casa editrice, un mondo in cui non devi andare a chiedere un prestito al tasso di interesse del 12% se vuoi aprire una gelateria perché non c’è più nessuno che “stampa moneta”, un mondo in cui non conta se sei “figlio di” perché conta quanto sei capace (il che in concreto vuol dire che ai colloqui e ai concorsi non c’è qualcuno che “passa avanti”, molto banalmente, ecc.), e mi fermo perché è tutto talmente banale che quasi mi vergogno a scriverlo.
      Ed è una risposta di fretta e non filosofica, va da sé. Né di antropologia filosofica, che consente di capire in che senso comprendere che l’uomo è l’animale r(el)azionale non significa affatto pensarlo come un “buon selvaggio”. Qui è davvero quell’evidenza che ormai soffochiamo quasi ogni giorno perché troppo male buttato addosso costringe all’anestetizzazione. All’atarassia.
      Ecco che stranamente il neostoicismo è diventata l’etica della contemporaneità…

      La fretta mi ha costretto all’apoditticità, me ne scuso!
      Giacomo Pezzano

      1. Al punto due lascio rispondere chi di dovere, visto che non è rivolto a me.
        al punto uno, invocare una filosofia della prassi, senza dire “prima” in senso logico, non cronologico (e torniamo a monte) in che termini compiuti essa si dovrebbe progettualmente declinare e manifestare, senza cioè esporre per sommi capi ciò che hai in mente in base ad un tì estìn della chose determinato e determinante, è per l’appunto un segno di costruttivismo teoretico o di parlar vago, anche perché la definizione sommaria che ne dai nel messaggio precedente lascia pensare che essa si declini come politica nel senso originario del termine (non meno che prassi, appunto), e non come filosofia politica, distinzione per l’appunto da me notata; richiamare questo distinguo è uscire dalla notte in cui tutte le vacche sono radical chic e, lungi dal misconoscere la distinzione tra politica e filosofia politica, al contrario la pone. Ti chiedo insomma di definire meglio che cosa tu intendi con questa filosofia della prassi, siccome teorie della prassi che hanno dato luogo a prassi, da Marx a Stirner fino ad oggi, non è vero che non siano esistite; ma se non ti riferisci a questo, ti prego di circoscrivere e definire, appunto, in modo fenomenologicamente, criticamente e/o analiticamente più dettagliato quanto vai paventando, delineandolo almeno per sommi capi.
        Conscia del fatto che occorrerebbe un libro, ciononostante puoi riassumere almeno qui brevemente un poco meglio cosa intendi, a scanso di equivoci, soprattutto per evitare l’epimeteismo di cui sopra.
        Sonia Caporossi

  8. Rispondo a Giacomo e al suo commovente apologismo d’un mondo migliore da cui trae, fermandosi poi in tempo visto che se ne vergogna a scriverlo, un elenco di “fatti” che a suo parere renderebbe il nostro mondo un mondo migliore.
    Ebbene, sarebbe un mondo migliore, come tu dici, se ci fossero basi militari su territori considerati sovrani (vedi USA in Europa), un mondo in cui la libertà non fosse solo una parola ma una realtà (vedi distinguere antisemitismo da problematizzazione degli atteggiamenti di Israele), etc, ma ammesso, e personalmente non lo ammetto per le ragioni di cui parlavo nei commenti sopra postati, che ciò fosse realizzabile davvero credi che un mondo simile sia auspicabile per l’umanità o una simile realtà non sarebbe piuttosto la fine della storia ovvero dell’umanità stessa; insomma una simile realizzazione vorrebbe dire un dare ascolto al messianismo o a quell’escatalogismo di cui Cristo e Marx sono i due maggiori ispiratori.
    Credo, che il “legno storto” rappresentato dall’umanità sia irredimibile, ma aggiungo anche che questa presunta dannazione sia la vera, autentica salvezza dell’uomo e della sua storia sulla terra.
    Con quanto sopra affermato credo d’aver anche implicitamente dato una risposta al punto in cui si discute della filosofia politica o della prassi politica o filosofia della prassi(che è lo stesso).
    In breve, il futuro delle società è nell’assenza di futuro nel senso inteso di “dopo”, cioè di trascendenza della storia o della sua fine come qualcuno agli inizi dehli anni novanta affrettatamente , vista la caduta del muro di Berlino e del comunismo sovietico, decretò.
    E’ chiaro che per questi argomenti ci vorrebbe uno spazio maggiore, ma è già tanto sentire e cogliere certe tematiche aprendo dibattiti interessanti come in questo blog.
    Buona serata divinangelo terribile

    1. Togliere le basi USA dall’Europa è messianesimo? Mi sfugge il passaggio. Ne riparliamo tra un centinaio d’anni. Sarebbe irrealizzabile? Per nulla. Non è ancora successo? Mica lo nego. Ne parliamo tra un centinaio d’anni. Sarebbe auspicabile? Diamine sì! Sarebbe la fine della storia? E perché mai, quale altro passaggio mi sono perso? Migliorare il mondo significa la fine del mondo? Non scherziamo. Se qualcuno davvero crede questo è semplicemente perché non gli va di migliorarlo, forse non è personalmente interessato a farlo. I conflitti non finiranno mai, le persone litigheranno sempre, ci mancherebbe, ma di qui a dire che siccome in fondo l’uomo è dannato ma qui sta la sua salvezza allora viva tutte le guerre a me pare ci corra un oceano in mezzo, un oceano chiamato uomo. Se davvero c’è chi pensa che la fine dell’umanità sia aprire una gelateria senza dover finire in mano agli strozzini, ebbene io penso che questa è la fine della storia e dell’umanità.

      Cara Sonia, magari un libro soltanto: occorre una nuova generazione di filosofi, che ahimé è cosa ben più complessa perché i filosofi sono umani che come tutti gli umani respirano il proprio tempo, e disintossicarsi è un processo lungo e difficile.
      Detto però questo, in quanto come si sarà intuito non amo i sapienzialismi, non rifiuto la sollecitazione.
      E provo a dare almeno alcune coordinate, farò i nomi giusto per dare i riferimenti, cercando di non dipendere da essi.

      Premetto però che Stirner non aveva nessuna filosofia della prassi, non aveva nessuna filosofia, Stirner è uno che voleva essere lasciato in pace a farsi i fatti i propri, in modo anche coerente rifiutando qualsiasi relazione di dipendenza con l’esterno sino al punto di vivere di stenti. Ha scritto un unico libro (intitolato l’unico non per caso) che non è una filosofia della prassi, ma appunto una giustificazione di quanto ognuno sia se stesso e dunque ciao ciao al resto dei rapporti ecc.
      Marx ha impostato il discorso per una filosofia della prassi perché ha cercato di incorporare filosofia e storia da buon allievo di Hegel (sarebbe ora di ricominciare a ristudiarlo davvero, facile fingere che non sia esistito perché “è difficile”, è un filosofo che sorpresa!), spostando l’asse storico sul piano però non della Ragione ma della produzione concreta, e da qui poi si è dedicato sostanzialmente solo a questa (analisi dei cicli di produzione, ecc.), per questo non c’è una vera e propria filosofia della prassi in lui.

      In realtà sono un po’ combattuto perché tenderei a riportare subito in partenza la questione nelle mie coordinate: l’antropologia filosofica. L’uomo è Gattungswesen (Marx), ente naturale generico.
      “Ente”: non è sostanza o essenza in senso di causa sui, non è un Essere che ha già tutto in sé ma deve passare attraverso l’altro da sé per determinare se stesso.
      “Naturale”: l’uomo è animale umano, è una parte della natura, è espressione della natura, la natura si dà in e tramite lui in una particolare modalità.
      “Generico”: tale modalità è appunto tale da far sì che l’animale umano non abbia una natura DEgenere (non c’è una natura umana, uomo = tabula rasa e via dicendo), né però una geneTica (tutto è predeterminato in maniera ridiga e intrascendibile dal dato biologico, che lo si chiami gene Dio Destino e via dicendo), bensì una geneRica appunto: perciò non ha tutto “dentro” ma deve rivolgersi al “fuori” (agli altri, al mondo, ecc.).

      Sta qui la radice della prassi, perché natura generica è natura che deve realizzarsi passando attraverso l’altro da sé e specificarsi in maniere determinate: deve esprimersi storicamente. La storia è il teatro della realizzazione dell’animale umano, dell’uomo pensato come soggetto universale autocosciente, che trova l’autocoscienza di essere umano proprio tramite il processo storico (Koselleck).

      Tutto ciò in realtà trova un più fine rivestimento filosofico: la dottrina della scienza di Fichte. Idealista è chi non accetta il dogmatismo di chi ritiene il cammino storico subordinato a una cosa in sé che impedisce qualsiasi modificazione dell’esistente, idealista è dunque la coscienza non pigra che non si piega alla malattia di chi crede che l’accidentale sia il necessario, che cioè il mondo sia un fatto bruto e massiccio che è così com’è e non può che essere così com’è. L’Io non è per nulla un principio logico, l’Io è prassi trasformatrice, prassi produttrice che produce sé tramite la produzione stessa, il setzen non è un porre logico ma un porre storico, è il porre dell’umanità (Umanità) intesa in senso unitario-trascendentale, che però ha bisogno dell’urto e dell’incontro con la resistenza con il Non-Io, funzionale dunque allo stesso superamento da parte dell’Io. Se volete ritradurre si potrebbe dire così: devo passare tramite l’altro da me per trovare me stesso (questo anche ontogeneticamente), ossia Io che passa tramite Non-Io, ma qui che cos’è il Non-Io? Ciò che è stato precedentemente posto dall’Io nel corso del suo cammino: p.e. il comunismo storico è un Non-Io (prodotto dall’Umanità, Io) che però è funzionale al proprio stesso superamento, perché vedendo il comunismo storico l’Io vede che quel Non-Io era appunto qualcosa che non esauriva l’Io, che non lo esprimeva compiutamente ecc. Mi guardo allo specchio per capire se sto bene o meno (l’amico è specchio, diceva Aristotele, vede me permettendomi di vedermi, la specularità è emblema del riconoscimento insomma), detto in maniera ridicolamente riduttiva.
      Tutto accennato in modo talmente contratto da far storcere il naso, me ne rendo conto.
      Che poi qua non sia in gioco l’idealismo per come viene per lo più interpretato Fichte, ossia come uno che pensa che con la testa sto partorendo la tastiera che sto usando (i filosofi saranno pure strambi, però…), è implicito. Ci sono anche delle complicazioni, filosofiche e non, in tale prospettiva, è chiaro né lo nego, ma proprio per questo c’è da lavorare!

      Poi per carità, uno può pensarla ormai disilluso su tutto come Divinangelo, e chissenefrega se l’umanità non si realizza, se gli uomini non sono felici, anzi in fondo meno male che non si realizza e che non sono felici, e allora chiudiamo baracca e burattini e organizziamo un bel suicidio collettivo. A me continuerà sempre per sempre a sfuggire il passaggio da “l’uomo è capace anche di male” (legno storto ecc.) a “l’uomo deve compiere il male fino in fondo con tutte le sue forze” o a “l’uomo è maligno punto”, ma pazienza. Quindi non abbiatene a male, ma per la data scelta per il suicidio collettivo non mi presenterò.

      Se però vogliamo prendere il nostro essere al mondo sul serio, dunque il nostro essere umani, dunque anche la filosofia (che ha a che fare con il senso del nostro essere umani, con la nostra buona vita), prima o poi queste questioni, anche in senso filosofico dato che è qui ciò di cui stiamo dibattendo, dovremmo porcele seriamente.

      Spero con ciò di aver chiarito perlomeno la direzione cui mi riferivo, il percorso che mi pare irrinunciabile da intraprendere, sapendo che come sempre ognuno cadrà laddove il suo peso gravitazionale lo condurrà, ci mancherebbe!

      Giacomo

      1. Caro Giacomo,
        ho capito un po’ meglio che cosa intendi per filosofia della prassi. Però, se mi permetti, come la filosofia politica non è certamente politica, allo stesso modo la filosofia della prassi non è prassi e bisogna vedere se sarà mai in grado di diventarlo. Ma tant’è.
        Il tuo fichtianesimo sembrerebbe assurdamente datato ai più, ma io sono hegelista (a proposito dell’invito a ristudiarlo!), pertanto il riferimento non mi sconvolge. L’unico appunto che potrei fargli è che l’antitesi Io / Non Io non è più fenomenologicamente attuale, e per un semplice motivo: per il fatto che ogni dualismo ormai, proprio in virtù della dialettica hegeliana, è ormai superato. Per cui, tu parlavi di un dopo, ma in realtà quest’antitesi si assesta abbastanza in un prima: oggi la krisis ha assunto altre forme, l’uomo, per me, è piuttosto animal symbolicum (Cassirer), pertanto la questione si fa molto più complicata, in quanto occorrerebbe escogitare una filosofia del simbolo per riuscire a comprendere le fenotipizzazioni storiche dell’uomo in quanto tale, il quale, peraltro, è stato pure dato erroneamente per morto da quel simpaticone di Foucault (Le parole e le cose: “l’uomo è un’invenzione recente” ecc. Ma che sciocchezza!). E tutti sanno quanti hanno seguito in questa assurdità il pelatone, dandone per buono l’assunto.
        Ora capirai anche un po’ meglio perché il mio spirito critico si eserciti con tale cipiglio sullo smascheramento degli assunti costruttivisti ovunque essi si annidino.
        Infatti sono d’accordo con te sulla necessità di mantenere sempre ferma e viva una prospettiva antropologica, come dire umanistica, per la filosofia, altrimenti si rischia di ricadere nell’imbecille costruttivismo assoluto della presunta morte del soggetto di francofona memoria. Uno dei filosofi che maggiormente mi sembra abbiano cercato oggi di costruire una filosofia della prassi è stato sicuramente Habermas con il suo “agire comunicativo”. Il caro Jurgen è almeno uno che ad uscire dall’empasse nel nichilismo e a costruire una proposta operativa, ci ha provato davvero.
        Per quanto riguarda Stirner, hai perfettamente ragione a dire che non aveva una filosofia della prassi, ma ha dato luogo ad una vasta progenie di followers, per lo più ridancianamente abbarbicati ad un sessantottinismo da pars destruens veramente insopportabile in quanto assolutamente nichilistico; ed ancora adesso costoro si avvicendano nei cenacoli filosofici delle università, insieme ad un deleuzianesimo selvaggio e d’accatto (che accoppiata!).
        Per quanto mi riguarda, il discorso di Divinangelo è a-umanistico e pervaso da un nichilismo non giustificato né giustificabile. Oggi il nichilismo è un atteggiamento filosofico che davvero, alla luce del transmoderno, non ha più ragion d’essere, vive e si struttura su un’antitesi dualistica immobilizzante che non induce ad altro che allo stare a guardare: quanto di meno pratico ci sia.
        Per gli altri argomenti in questo dibattito toccati ti rimando ai seguenti articoli:
        Per quanto riguarda una mia analisi del concetto del sé:

        Io, non – io, perchè proprio io? Il problema filosofico della conoscenza di sé dal razionalismo all’idealismo


        Su un mio abbozzo di antropologia del linguaggio, ti rimando a:

        Lingua, linguaggio e costruzione della coscienza


        Sulle implicazioni pratiche del costruttivismo nel linguaggio filosofico e nella prassi, ti rimando a:

        La crisi del linguaggio filosofico nella seconda modernità: una riflessione dal sottosuolo.


        Presto seguiranno altre riflessioni in forma di articolo. Te le segnalerò; intanto, se vuoi, puoi spostare anche il dibattito su questi articoli, il contenuto dei quali non è stato secondo me discusso a sufficienza.
        Grazie, con stima
        Sonia

  9. Perdonatemi ambedue se il mio discorso è apparso ai vostri rispettivi sensori filosofici “a-umanistico e pervaso da un nichilismo non giustificato nè giustificabile” , come dice Sonia, o che “migliorare il mondo, per me, sarebbe la fine del mondo”, secondo l’interpretazione di Giacomo del mio commento. Qui non si tratta di passaggi che mi son (forse?) perso del vostro scolastico filosofare intorno alle categorie della filosofia come l’Io e il non-Io, l’idealismo hegeliano, la filosofia della prassi di matrice marxista o del neopragmatismo d’un Habermas; qui la cosa è molto più seria e va al fondo(grund) dell’essere stesso nel senso heideggeriano e del suo restare sulla linea del nichilismo, di una localizzazione(Erorterung) dell’essere in quanto essere svuotato della classica metafisica.
    Non entro per ragioni di tempo e di interesse nel merito di simili discussioni prettamente filosofiche(infatti anche quando si parla di prassi non si fa altro che parlare ancora di filosofia, come ben aveva compreso Lenin nel suo empiriocriticismo) giacchè sono convinto che non saranno simili “approfondimenti” del pensiero a salvare l’uomo da se stesso e dalla storia che ha prodotto e produce(ricordate, a proposito di storia, l’Angelo Novus di Benjamin?).
    Certamente, caro Giacomo, che non è messianesimo togliere le basi USA dall’Europa, ci mancherebbe! Sarebbe come uno svalutare il concetto stesso di messianesimo se lo associassimo nientemeno, come fai tu, alla possibilità d’aprire una gelateria senza dover finire in mano agli strozzini.
    Tuttavia,sono convinto che tu sai benissimo di cosa si parla quando si parla di messianismo e quindi preferisco prendere le tue parole in cui dici di non capire e\o di che cosa ti sia sfuggito del mio discorso quando chiedo cosa vuol dire “un mondo migliore” come fosse una tua boutade per alimentare questo nostro(anche mio come vedi)filosofare a distanza.
    A Sonia, invece, vorrei ricordare che nichilismo non vuol dire affatto essere a-umanistici tantomeno essere anacronisticamente fermi in un atteggiamento filosofico che “davvero, alla luce del transmoderno, non ha più ragion d’essere”.
    E chi l’ha detto che non credere a un progresso della natura umana o, se preferisci, a una spiritualizzazione della materia(Prigogine) o non credere alla salvezza dell’uomo e a un paradisiaco avvenire del cosmos si tratti di un non più ragion d’essere? Forse il transmoderno?
    Con simpatia, a te Giacomo a te Sonia, divinangelo.

    1. Forse non ci siamo capiti. A me il transmoderno, come del resto il postmoderno, fanno concettualmente ridere, in quanto ambiti semantici ambedue costruiti a posteriori su un apriori logico. Quanto al nichilismo, la sua ragion d’essere è esaurita fintanto che oggi in tempi di crisi occorre rimboccarsi le maniche per non rimanere nell’estatica dimensione contemplativa del nulla e del male, ovverossia impastoiati in un immobilismo affatto onorabile in quanto inutile nel senso etimologico del termine.
      Un’etica non può fondarsi sull’inazione per sua stessa natura, a meno di non crogiolarsi in un estetismo davvero a-estetico ed in quanto a-estetico, a-umanistico. E se lo fa, non è etica per definizione, anzi non è neanche filosofia, ma qualcos’altro.
      Forse poesia nel senso originario di poiesis, ovvero fattura, costruzione verbale di fascinazione con contenuti a base veritativa, come vado paventando io personalmente da diversi anni a questa parte. Anche riguardo Nietzsche, che io definisco “il primo paraletterato” della storia, ovvero il creatore di quel bello e grosso e importante filone pseudofilosofico di paraletteratura che tanto ha attecchito nel Novecento, il quale ha prodotto testi belli e grossi e importanti, ma il cui valore veritativo, in tempi di crisi dell’aletheia, ha l’unico scopo di denunciarne l’esistenza, come qualsiasi altra testimonianza o fonte letteraria consistente nella manifestazione storica di un’epoca. Che ne sia nato un filone a là mode è tutto dire: il manierismo radical chic della filosofia, altro che scolasticismo.
      Sonia

  10. Leggo allora tutto con la dovuta calma appena ho modo. Comunque a flash Fichte e Cassirer dalla mia prospettiva condividono la stessa antropologia, non vedo la contrapposizione, non tanto netta perlomeno. Ma diventa un discorso da monografia accademica. Lasciamolo da parte quindi. A dopo la lettura.
    Giacomo

  11. Fondare e costruire un’epoca, come quella che abitualmente chiamiamo moderna, sulla base di un Ego a cui viene attribuito una verità esistenziale fuori da ogni dubbio non poteva che finire com’è finita: con l’Io esploso in mille frammenti e spirato insieme a un’epoca e al suo riflesso celeste: Dio.
    Con te, Sonia, condivido il giudizio ilare in merito al postmodernismo ma, forse, per ragioni diverse che si riconnettono al problema del nichilismo, della possibilità di conoscere e di dimostrare concettualmente (o logicamente) la verità, la quale tu stessa ne denunci la crisi, e infine dell’etica.
    Tu dici che in un momento di crisi, come appare essere il nostro tempo, non c’è spazio per star fermi e\o immobili o “inutilmente” meditabondi dentro questo cono d’ombra(nichilismo) rappresentato dalla morte del Soggetto, sia quello umano che quello divino, ma bisogna invece rimboccarsi le maniche; da cui la necessità di un’etica per un’azione comune “utile” a risolvere la crisi.
    Invece il mio ridere concettualmente del postmodernismo nasce non dal riconoscere che esso è “costruito a posteriori su un apriori logico”, bensì per il suo(nostro) vano sforzo d’uscirne fuori portandoci dietro ancora sanguinanti le stimmate di un linguaggio filosofico tuttora insuperato e (forse?) insuperabile, che proibisce l’uscita dell’uomo
    post\trans\moderno dall’umbratile cono.
    Buon fine settimana, divinangelo

    1. Divinangelo, il postmoderno non esiste, non c’è bisogno di uscirne fuori, esso è una neoformazione verbale i cui punti e i cui momenti preesistevano sotto le stesse spoglie ma con altre definizioni. E’ un concetto costruito a tavolino, salvando Lyotard che lo aveva posto come semplice proposta di lavoro. Molti dimenticano infatti che “La condizione postmoderna” era un’indagine preliminare sul sapere richiesta dal governo del Quebec, e che il termine postmodernismo ha la sua genuina e originaria applicazione in ambito architettonico, quanto di più lontano dalla filosofia.
      Dunque non si può uscire da qualcosa che non esiste, però posso uscire dal portone di un palazzo postmoderno, perché questo esiste.
      Purtroppo la filosofia del secondo Novecento è tutta impregnata di imposture costruttivistiche di questo tipo, che normalmente non sono colpa di chi le costruisce (ognuno può essere un buon poeta o poetico), ma colpa di chi ci crede.
      Per quanto riguarda la fondazione di un’epoca su un ego etc., non è discorso che mi riguarda, risponderà chi l’ha portato avanti. Mi limito solo a constatare come il tuo io non sia poi del tutto esploso in mille frammenti, se la centratura di quanto affermi con tanta sicurezza somiglia così tanto ad un relativismo assoluto che in quanto tale si toglie in partenza per il più classico dei non sequitur.
      Personalmente, inoltre, preferisco ignorare il discorso su Dio, perché in Dio non ci credo, quindi il problema per me non si pone; ma non occorre essere per forza nichilisti per non credere in Dio: basta essere addirittura illuministi (detto per inciso: io non lo sono).
      Per quanto riguarda la zavorra di un “linguaggio filosofico tuttora insuperato” eccetera, il problema è che esso è stato sostituito nella seconda modernità, come vado cercando di farti capire, da un apparato linguistico non certo migliore, anzi pervaso da una certa dose di impostura, perché costruttivisticamente dato per buono, mentre adombra esattamente gli stessi concetti e lo stesso interno logos del linguaggio filosofico preesistente, ed in quanto tale, significa esattamente le stesse cose retrostanti, solo le spaccia per nuove tramite la fascinazione estetica della parola e del neologismo: ecco l’estetismo radical chic di questo manierismo filosofico da cui davvero ci dovremmo liberare. Il “transmoderno”, in questo senso, è solo l’ultima inventio retorica per sollevare qualche po’ di polvere nella biacca del nulla retrostante.
      Alain Sokal docet quando ammonisce di non mescolare la scienza con la filosofia: se i teoremi di Goedel, se Heisenberg, se ancor prima le geometrie non euclidee hanno messo in crisi la certezza analitica della scienza (cosa da non confondere pacificamente con la verità), se pure l’aletheia in senso filosofico a causa di ciò è andata in crisi, stiamo molto attenti che il passaggio dall’una all’altra semiosfera, dalla scienza all’etica, non è poi così immediato e anapodittico da mettere in atto. Inoltre, proprio le età di crisi abbisognano del maggior impegno in senso umanistico per poter essere superate.
      O forse tu, per superare la crisi economica in atto, concepisci come impegno etico l’estinzione del tuo conto in banca?
      Buon week end.
      Sonia Caporossi

  12. Hai pienamente ragione nel dire che se il transmoderno non esiste non se ne può neanche uscire, il fatto è che io non ho detto questo ma intendevo dire uscire dal nichilismo che, come tu ben sai, ben altra cosa.
    Esso non è, come lo è, infatti son d’accordo con te, il termine postmoderno, un concetto costruito a tavolino come neanche è l’espressione di un neolinguaggio filosofico che balbetta o, come dici tu, con disinvolta impostura raggira o abbindola facili creduloni prospettando falsi territori filosofici o impensabili spazi storici dove spingere l’umanità a cercare la propria salvezza.
    Infine, è vero, come dici bene tu, che non occorre essere nichilisti, come d’altronde nemmeno essere illuministi, per non credere in Dio.
    Infatti io non credo in Dio e sono illuminista per la sola parte che elimina il fideismo o l’assolutismo, ma questo mio status non mi induce a credere in un alter deus si chiami questo neoumanesimo, storia, scienza o che altro ancora Sonia che la nostra immaginazione può inventare pur di estetizzare(nota bene non eitizzare) la propria esistenza?

    Scusa la brevità della mia risposta, con stima divinangelo

    1. L’umanesimo è un alter deus se lo si pensa tale, almeno quanto Dio è Dio se lo si pensa tale, almeno quanto il nichilismo è l’unica via se la si pensa tale. Ma ci deve essere sempre qualcuno a pensare un quid per renderlo quel tale quid che è. Un qualcuno universalmente soggettivo, e qui torniamo all’intuizione kantiana estetico – etica di partenza, quella che ho cercato di sollevare nell’articolo. Un qualcuno che sente le cose in comunione e in condivisione con l’altro da sé, o semplicemente, con l’altro, tale che queste cose che sente, le può comunicare, altrimenti sarebbe non dico inutile lo stesso linguaggio, quanto proprio inesistente.
      Tu stesso, le cose che senti e che pensi, le condividi con altri, ed hai quest’anelito di comunicazione che ti porta, ad esempio, a parlare qui con me.
      Pensaci bene: è sempre l’uomo che dice morto se stesso, ed in quanto lo dice non lo è, e pur se lo fosse, paradossalmente non lo sarebbe.
      L’umanesimo, alla fine, consiste solo in questa estrema consapevolezza, salvifica di per sé, anche se tutto intorno fosse raso al suolo.
      Ti invito inoltre di nuovo a riflettere su quanto assolute sembrino le tue certezze relative, con tutte le conseguenze aporetiche del caso.
      Scusa la brevità della risposta.
      Sonia

      1. Forse mi sono spiegato male o forse davo per scontato che ci capissimo in ogni caso condivido appieno il fatto che ci dev’essere sempre qualcuno che vede sente soffre, ecc e mi pare ovvio che quel qualcuno sia l’uomo in carne e ossa come lo sono io che in questo esatto momento scrivo queste cose e lo sei tu che invece or ora le stai leggendo.
        E’ un’ovvietà inconfutabile, è il medesimo ragionamento adottato qualche secolo fa da Cartesio per metter su il suo celebrato Metodo.
        Tuttavia, a chiarimento del mio pensiero, io non ho mai parlato della morte di quest’uomo , e come avrei potuto?, bensì ho parlato di, fra le altre cose, “umanesimo” come alter deus, come feticcio da adottare per una etica dei popoli nel tempo della storia dell’occidente. Non ho parlato d’altro! Che poi il concetto di umanesimo si porti dietro la secolare, a mio avviso anche irrisolta, questione di “cos’è l’umanesimo?” è la riprova del suo essere caduco o vulnerabile o mortale in quanto esso comunque gravita intorno alla sensorialità dell’animale uomo nella più evoluta forma del “sentire”.
        L’umanesimo, dunque, è il misuratore in ogni epoca del sentire umano; e ciò lo è e lo rimane ancora anche quando sente il “monstrum” o quello che in termini di popolo chiamiamo il dis-umano(un esempio a noi vicino il totalitarismo hitleriano o staliniano o quello che sta nascendo oggi e che per nome ha Tecnica e mondo globale).
        A proposito delle mie certezze relative viste come un assoluto non saprei come risponderti se non tornando indietro nel pensiero e fissare lo sguardo sulla triste Monade di Leibniz o sull’Io assoluto di Fichte.
        divinangelo

  13. Rileggendo stamattina quanto scritto ieri sera con estrema fretta vedo con disappunto che al posto di eticizzare ho scritto eitizzare nonchè altri piccoli errori di forma, soprattutto però noto che dopo aver elencato ciò che per me non è il nichilismo non dico cos’è.
    Ne approfitto per rimediare affermando che il nichilismo non è una moda epocale nè un sentiero errante del pensiero, bensì esso è una modalità appartenente all’essere nel senso presocratico, è il tema centrale su cui si avvolge in molteplici varianti(correnti filosofiche) il pensiero occidentale a partire dalla sua nascita in Grecia.
    Ecco perchè il fatto che occorra, data l’attuale crisi, rimboccarsi le maniche come dici tu per me non fa altro invece che distogliere lo sguardo dall’autentico problema della crisi(crisi delle scienze come della filosofia che già Husserl cercò di superare con un suo celebre saggio negli anni ’30 riformulando senza successo mediante il concetto di epochè la metafisica) aggirandone e nascondendone la vera causa.
    Da qui, del resto, proviene anche il mio crudo realismo, o come altri lo definiscono, il mio evidente pessimismo sul futuro della nostra specie.
    Divinangelo

      1. Ammiro Severino e lo leggo spesso, a lui mi lega la vicinanza ai presocratici.
        Mi divide, invece, l’ottimismo, la speranza e la gioia, che secondo lui dovremmo tutti provare dopo la morte. In questo modo, secondo me, egli ricade nel sentire umano e nella terrestrità che con la morte invece si pensava d’aver per sempre abbandonata.
        Buona domenica divinangelo

  14. Con l’approdo al probabilismo bloccato dall’entanglement fra le particelle del livello quantistico della realtà, sembra esaurita la discesa agli inferi del riduzionismo iniziata più di quattro secoli fa con la separazione dei fatti dello spirito da quelli della materia. Ora potremmo tentare la risalita verso l’uomo e la sua mente con un approccio inverso che io chiamo “ampliamentista”, che non può che portare alla riunificazione. Se trasferiamo i dati oggettivi acquisiti sperimentalmente — che vedono il “motore” del divenire nella Ricerca Dell’Equilibrio energetico fra ogni stato locale e lo stato successivo che lo contiene — ai livelli superiori della complessità aggregativa degli stati che seguono fino all’emergere della mente umana, potremmo individuare nell’etica “naturale” che ne deriva, il modello per la definizione di una nuova etica universale non più disegnata da visioni metafisiche manipolabili a seconda degli interessi dominanti. Questo coinciderebbe anche con la necessità di attribuire il massimo valore estetico all’etica, poiché, nessun prodotto derivante dal raggiungimento dell’equilibrio tra i suoi componenti può essere “brutto” e quindi, “ingiusto”.

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