
Testo di SONIA CAPOROSSI *
Lettura in video di FILIPPO LUBRANO *
Esiste, in teoria della letteratura, una dicotomia funesta e foriera di infiniti lutti addotti non solo agli Achei, ma anche ai contemporanei: quella tra poesia e letteratura, ovvero tra oralità e scrittura, tematizzata negli ultimi anni da un’agguerrita frangia di poeti performativi. Si tende a sottolineare in modo un po’ manicheo tale dialettica dei distinti ponendo in risalto l’ovvietà del fatto che originariamente la poesia sia nata orale e solo dopo si sia fatta anche testo scritto, la posteriorità dei due termini della contesa essendo concepita in senso logico, non solo cronologico. Da questa posizione, discendono alcune antinomie spesso fuorvianti: esisterebbero, così, la poesia che si declama e la poesia che si legge interiormente (ma per coloro che sostengono l’originarietà estetica dell’oralità poetica, la lettura interiore è un approccio comunque sonoro anche se si svolge nel privato della propria autopercezione sensoriale isolata e monadica); esisterebbero insomma, per parafrasare Pirandello, la poesia che si scrive e quella che si vive. Per dirla in breve, si tratta del rovesciamento prospettico del noto detto latineggiante, in base al quale diviene costruttivisticamente vero che scripta volant, verba manent. Per esempio, in base a questa visione si farebbe un’immane fatica a ritrovare lo status di facebook scritto solo venti giorni prima scorrendo in su col touchscreen o col mouse, segno più o meno evidente che una certa tipologia di scrittura perderebbe, proprio in virtù del medium scrittorio, la propria istanza di perdurabilità; ragionamento in qualche modo equivalente a sostenere che se pubblichiamo la notizia dell’incidente in una galleria sul giornale del mattino, a sera o nelle edizioni del giorno dopo è come se l’incidente non fosse accaduto: visione oltremodo costruttivistica e davvero poco sostenibile. Del resto, è pur vero che, grazie al medium, riascoltare infinite volte una canzone in virtù dell’impianto hi-fi permette la ricorsività di qualcosa che altrimenti sarebbe evanescente; ma lo è solo apparentemente, e solo in virtù di quell’estetica della forma sonora riguardante parimenti la musica, caratteristica peculiare del quid in questione che è nota dall’estetica del Settecento in poi e che definisce l’asemanticità e l’indeterminatezza del suono in quanto tale, ancorché vocale, il quale vive proprio in virtù della durata, ovvero della perdita della momentaneità e della dimensione puntuale. Il suono perde, in altri termini, la propria istanza di obsolescenza non tanto grazie al fatto di essere se stesso (è questo, filosoficamente, l’inghippo), ma in virtù del fatto che viene ripetuto e diviene riproducibile infinite volte: proprio tramite quella famosa riproducibilità tecnica di benjaminiana memoria che da una parte permette la nascita e lo sviluppo di nuove arti (come ad esempio la fotografia) e dall’altra ne determina ineliminabilmente la perdita della sacralità e dell’aura, ovvero lo status prenovecentesco (e il proprio valore) di atto unico e irripetibile.
A sua volta, l’impermanenza reale o presunta della parola scritta affonderebbe le sue radici nel fenomeno, ben noto agli storiografi del Novecento, dell’accelerazione del tempo storico. Così, le nuove forme espressive in cui si fenomenologizzano la Street Art e la poesia di strada fornirebbero una definizione in qualche modo univoca di tale impermanenza proprio per contrasto: trattasi di arte comunicativa, che in quanto tale, si dice arrivi prepotentemente a un pubblico non specializzato, addirittura poco avvezzo, riuscendo a saltare gli steccati di una preparazione culturale pur presuntivamente necessaria. Questo messaggio che bypassa la mediazione scritta e persino l’habitus alla poesia laureata non può arrivare sotto altra forma che quella della poesia concreta; però, si nota subito che la stessa regola non è valida per altre forme di arte medesimamente definibili concrete: ad esempio, la musica concreta non ha lo stesso successo di pubblico perché viene considerata d’elite o di nicchia; non parliamo poi della pittura materica o del teatro performativo di tipo sperimentale.
La motivazione di come la Street Poetry riesca a comunicare (domanda che si interlaccia inevitabilmente col relativo problema del che cosa comunichi) forse risiede nella necessaria semplificazione del messaggio poetico il quale, inevitabilmente, deve rendersi comprensibile al massimo grado per arrivare ad un non meglio determinato popolo. Da qui alle definizioni di popular art e popular poetry il passo è breve: ma in questo stato dell’arte, e a queste specifiche condizioni, come fa un tale messaggio massificato, quale che sia il proprio contenuto, ad arrivare anche al lettore del testo scritto, notoriamente ben più esigente? E viceversa: come si può rendere più complesso il messaggio poetico di volta in volta proposto dai poeti di strada, semplificato giocoforza proprio in virtù del medium, affinché assurga a valore poetico davvero permanente e non sia costretto a relegarsi nell’angusta e risibile dimensione dei Baci Perugina usa e getta? Il rischio, diciamocelo chiaramente, è quello di un’eccessiva surroga di iperrealtà da una parte (laddove, se il messaggio si dà come immediatamente evidente, la poesia perde la propria istanza metaforico – analogica, che è proprio quel quid formale che la rende tale) e della ghettizzazione nella nicchia imbalsamata dall’altro.
In quest’eccessiva accelerazione temporale che porta alla fruibilità del graffito come fosse già adesso, nell’atto stesso della performance, testimonianza e fonte storica, ovvero nella quasi coincidenza del presente e del tempo della storia, i mutamenti di paradigma riguardano anche il fatto che, in definitiva, è proprio la qualità intrinseca della poesia (in senso sia formale che contenutistico) a non interessare più granché. Eppure, bisogna domandarsi se la tanto paventata impermanenza del testo scritto rispetto alla riscossa dell’oralità poetica sia davvero in atto, cosa che io non credo per i dubbi esposti in precedenza; intanto, la medesima domanda dovrebbe fare quantomeno riflettere riguardo le conseguenze prevedibili di un tale processo. Effettuando un notevole volo pindarico, Buddha Shakyamuni, nel Canone Pali, affermava tanto tempo fa: «la percezione dell’impermanenza, o bhikkhu, sviluppata e assiduamente praticata, porta all’abbandono delle passioni sensuali, all’abbandono della passione per l’esistenza materiale, all’abbandono della passione per il divenire, all’abbandono dell’ignoranza, all’abbandono e all’annullamento di ogni presunzione circa l'”Io sono”». Insomma, in senso sia filosofico che spirituale, l’impermanenza come categorema porta alla dismissione di qualsiasi contenuto concreto, materiale, mondano, empirico e immediato: paradossalmente proprio ciò che vorrebbe essere invece recuperato dal poeta di strada nell’autodefinirsi della poesia come comunicazione orale in quanto tale. Sembra quasi che si stia perdendo nella confusione il sano e originario discernimento tra la purezza della forma e l’impurezza del messaggio, laddove l’aspetto musicale (leggasi: formale) della dimensione poetica funge da ricettore e raggrumatore del contenuto in quanto tale, essendo in estetica proprio la musica l’elemento catalizzatore di tutte le arti.
Forse, per risolvere l’antinomia tra oralità e scrittura, proprio nel senso in cui la intendono i poeti performativi, occorre davvero indagare il grund musicale che le/li accomuna, e ricordare come, esteticamente, per uno come Hanslik la musica sia essenzialmente forma, non espressione, che qualsiasi arte, al fondo, si identifica con la sua tecnica precipua, che senza di essa non si dà l’artista e nemmeno l’artigiano, che a improvvisarsi cantori o poeti son buoni tutti, ma che quando son buoni tutti non è buono davvero nessuno, e non basta imbrattare un muro per strada o leggere al megafono versicoli ridiffusi poi dal mezzo maggiormente all’uopo per potersi dire poeti. In qualche modo, occorre uscire da una visione, quella della poesia come espressione e non come forma, che è ancora veteroromantica e che non lascia spazio alla comprensione del ti estìn delle cose. Giacché l’espressione, ovvero il contenuto (e in fondo, il suo mezzo), in poesia può essere davvero qualsiasi cosa, mentre è la forma che identifica il poetico in quanto tale (ad esempio: distinguendo banalmente la poesia dalla prosa, e un poema da un aforisma). Abbandoniamoci pertanto al flusso delle cose: from flux to form, recita David Sylvian in un brano quasi Zen; dall’indistinzione gretta e ignorante torniamo alla chose e, per favore, ricominciamo a chiederci di che diamine stiamo parlando: torniamo, in breve, a interrogarci non sul medium, non sul contenuto, bensì sulla forma.
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* Testo scritto da Sonia Caporossi in occasione del convegno nazionale Mitilanza #1, gli spazi mobili della poesia, tenutosi a La Spezia il 25 e 26 febbraio 2017 e riportato in video con la lettura di Filippo Lubrano un anno dopo, con la pubblicazione degli interventi critici raccolti per l’occasione, nella serie degli Elzeviri di Mitilanza: Elzeviro #3.
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Testo scritto in occasione del convegno nazionale Mitilanza #1, gli spazi mobili della poesia, tenutosi a La Spezia il 25 e 26 febbraio 2017 e riportato in video con la lettura di Filippo Lubrano un anno dopo, con la pubblicazione degli interventi critici raccolti per l’occasione, nella serie degli Elzeviri di Mitilanza: Elzeviro #3.