Lo sfaldamento dell’humanitas in Oscar Wilde e James Joyce

Oscar Wilde, 1883

Di UMBERTO PETRONGARI

Nell’esaminare racconti, romanzi, scritti poetici e teatrali moderni, ho implicitamente, costantemente, avuto l’intento di fare un mio tipo di critica letteraria. Mi interessano gli autori moderni nella misura in cui siano stati in grado di distruggere l’idea di ‘classico’, così come emerge emblematicamente in Dante e – specialmente – nella sua grandissima Commedia. Il mito, la poeticità, la moralità, l’oggettività, hanno avuto nel ‘Sommo Poeta’, non solo la più esaustiva, esauriente, espressione contenutistica, ma anche la più alta (e forse ineguagliabile) espressione stilistica. Il pensiero platonico – e ancor più quello aristotelico – hanno inciso nel formare la medietà e l’ingenuità proprie della personalità dell’Alighieri. Con l’avvento della modernità si è iniziato a sfaldare e a dissacrare man mano l’essenza mitica dell’arte classica: se – da un lato – la sua perfezione stilistica ha iniziato per lo più a venir meno, subentrando in suo luogo uno stile più grezzo e accessibile (per via della sua maggiore immediatezza rispetto alla raffinatezza retorica dei classici) – dall’altro – il concetto di ‘capolavoro’ ha manifestato la tendenza a trapassare dall’opera all’autore dell’opera (per via della sua minore o maggiore ‘grandezza’ di individuo – che è fra l’altro qualcosa, per così dire, di ‘quantitativo’).
Per quel che dunque riguarda lo stile, esso, quanto più è elegante ed erudito, tanto più ha bisogno della memoria per poter venir compreso. E così, ad esempio, si apprezza molto il V Canto dell’Inferno in base al paragone che fulmineamente facciamo tra quest’ultimo e varie altre produzioni rispetto ad esso gerarchicamente inferiori (per gradi diversi).
Ma la degradazione stilistica, nell’arte moderna, procede di pari passo con un incremento (in alcuni casi maggiore, in altri minore) di immorale scientificità, che va a minare (in modo più o meno radicale, a seconda dei casi) il moralismo da ‘tipi semplici’ insito nei classici.
Possiamo allora concludere che l’essenza di tutta l’arte moderna (nelle sue varie forme) è nel suo conato veritiero, ovvero nell’impulso (quindi scientifico, ossia ‘davvero conoscitivo’ e non mitico-poetico) alla verità, a raggiungerla.
La meta, la vetta, verso cui tutta l’arte moderna è orientata, consiste in qualcosa di non-artistico: esperienze come quella (ad esempio e in primo luogo) del Satori, dell’illuminazione, dello Zen, ci rivelano come la vita di noi tutti sia irrisolvibile: in uno stato di estremo e lucido raccoglimento – che è al di sopra dell’ebbrezza stessa – si prende atto del fatto che tutto è tale da non soddisfarci appieno (ovvero, è tale da non soddisfarci affatto). Un lievissimo senso di frustrazione ci fa guardare le cose che abbiamo intorno nella loro banalità e – quasi – nel loro più crudo realismo (è la banalità, ad esempio, trasmessaci da onde che si infrangono in modo monotono su uno scoglio). Se, in generale, ‘artistico’ è tutto ciò che soddisfa un nostro bisogno (qualunque esso sia), l’illuminazione del buddismo nipponico getterebbe quindi luce sulla frustrante equivalenza di ogni possibile scelta esistenziale.
Tale frustrazione è tuttavia solo un’apparenza (sia pure strutturale, ovvero strutturante ogni essere umano). Nel momento infatti in cui tale disagio lo affermiamo liberamente, esso non è disagio ma egoistica, assoluta, felicità, di cui tutta l’umanità (qualunque sia la sua condizione esistenziale) beneficerebbe. Tale scenario di assolutamente positivo nichilismo, possiamo paragonarlo ad un teatro, luogo in cui si sa benissimo (lo si sa in fondo nella vita reale) di recitare una parte, qualunque essa sia. Eppure, per via di quell’apparente e strutturante dolore che accompagna costantemente le nostre vite, non possiamo fare a meno di recitare, di fingere, di simulare (ovunque ‘porgiamo lo sguardo’, ‘ciò che vediamo’ non può che coinvolgerci – non può cioè lasciarci mai del tutto indifferenti).
Le parti che un uomo può recitare al mondo – se considerate nella loro purezza e veridicità – sono solo di tre tipi. Vi è un tipo umano spudoratamente, sfacciatamente, vanesio (in tutto e per tutto), che è l’individuo egoistico borghese (talvolta è un populista). Vi è un tipo umano ‘comunitario’, in cui la vanità sembra non sussistere, ma che invece è in egli presente ed è camuffata nei suoi ideali comunitari o antiegoistici (è il rappresentante di ogni ‘cultura popolare’). Vi è infine il nichilista (che è il tipo umano ‘aristocratico’) che – per quanto può – attenua il più possibile (al limite dell’indifferenza) la sua vanità, somigliante però in tutto e per tutto a quella espressa dal suddetto tipo borghese.
A produrre società comunitarie (ad esempio comunistiche) o egoistiche (borghesi) sono i vari mezzi di propaganda: corrispondono alle influenze del contesto sugli uomini di una determinata, di una certa, società. Se anche l’economia influisce su di essi, lo può fino a un certo punto (a mio parere – quasi da ‘idealista’ – è soprattutto la propaganda a formare gli esseri umani). Il nichilista è ad esempio colui che brucia interamente la sua Humanitas, per poi affievolire, dis-intensificare – per quanto ciò sia possibile – ogni sua pulsione di tipo borghese, termine, quest’ultimo, da intendersi dunque in senso esteso (ovvero, nel senso di ‘egoistico’).
Ma l’impulso ‘davvero conoscitivo’, la spinta esistenziale ‘scientifica’, a cosa conduce, in definitiva? A nulla. E approda a maggior ragione a niente, in quanto una conseguenza del nichilismo è il relativismo (mi limito ad accennare a ciò). E così, oltre a prendere atto del fatto che il mondo và bene così com’è (in qualunque modo venga a configurarsi), alla fine si scopre, ad esempio, che tra una società comunista (e per simili società io simpatizzo), una moderna società capitalista, una vecchia società aristocratica, non se ne può prediligere una – a discapito delle restanti – se non del tutto gratuitamente, arbitrariamente. Con la scienza siamo dunque ricondotti, non solo al punto da cui eravamo partiti (all’Humanitas), ma possiamo soffermarci liberamente su qualsiasi punto del tragitto (anche caratterizzato da idee non vere) che ha condotto dall’umanismo al nichilismo.
Ma ciò non significa forse l’impossibilità di ogni critica letteraria? Ovviamente. Perché, allora, prediligere le arti moderne piuttosto che l’arte classica?
A monte dell’Humanitas più colta o erudita – a monte di tutto – vi è in realtà un nichilismo-relativistico originario, però non tematico o irriflesso, ovvero tale da non poter ancora aver fatto se stesso oggetto di riflessione. Esso è espresso da un uomo che, nella sua scarsa curanza di tutto e tutti, ‘tollera’ – per quanto ciò gli sia possibile – tutto e tutti (cioè l’intero esistente).
Settori quali la filosofia, piuttosto che la letteratura, hanno tuttavia manifestato la tendenza a distruggere man mano ogni valore (anche se, magari, non completamente). Ebbene, assumere (ad esempio e in primo luogo) filosofia e letteratura moderne quali punti d’appoggio per radicalizzare – fino all’estremo – la loro vocazione distruttiva, è ciò che consente, infine, ‘in definitiva’, di riflettere, di tematizzare, il nichilismo relativistico.
Ho parlato in precedenza di ‘grandezza’ e di ‘individualità’. Ebbene, alla fine si scopre che ‘grande’ e ‘individuo’ sono caratteristiche spettanti ad ogni possibile essere umano. Tutti sono ‘individui’ (sono individuali), in quanto nulla esiste (siamo ‘nulla’). Si è poi detto come la ‘grandezza’ sia qualcosa di ‘quantitativo’. Ha difatti a che vedere con l’infinito: con la scoperta del nichilismo relativistico ogni possibile parametro commisurante viene meno; persino chi è nell’errore (poiché magari si contraddice) esprimerà la Ragione, sarà nella Ragione (avrà cioè – a suo modo – ragione).
Giunti alla fine del percorso veritiero della conoscenza, possiamo legittimamente affermare qualsiasi cosa siamo: essere comunitaristi o umanisti, essere borghesi o egoisti, essere – infine – aristocratici o nichilisti, diviene del tutto indifferente.
Chi ha tuttavia riflettuto sul nichilismo potrà acquisire dei poteri che prima non aveva (il nichilista ne dispone in via naturale e in modo irriflesso): l’egoista potrà diventare un nichilista, rendendo in tal modo massimamente gradevole la sua esistenza individuale, potendo addirittura trarre dei grandi benefici sul piano politico, se è anche su tale piano che opera. Anche l’individuo comunitario potrà beneficiarne, anche se soltanto sul piano politico (per via della sua indole antinichilistica): avrà infatti guadagnato un massimo grado di lucidità mentale che lo favorirà politicamente. E così, ad esempio, avrà compreso che un’arte umanistica estremamente semplice (non complessa o elaborata come quella dantesca, piuttosto che come quella rinascimentale, per intenderci) potrà venire utilizzata quale pragmatico strumento di propaganda politico-economico-sociale assai efficace (io sto ad esempio dalla parte di tale tipo d’arte, simpatizzando – in definitiva – unicamente per il tipo di cultura da essa espressa).
Ma tutto ciò – ancora una volta – alla fine, a cosa serve, se in fondo siamo già tutti felici (pur nella nostra assoluta solitudine)? E la risposta sarà ancora una volta: a nulla. Non si può infatti prescindere dalla nostra arbitraria libertà: qualsiasi scelta esistenziale decideremo di intraprendere sarà frutto della più assoluta gratuità.
Se non vi fosse libera scelta (anche se apparentemente essa non sembrerebbe sussistere), se fosse cioè la necessità a farla da padrona, la mia visione verrebbe a coincidere con quanto Alberto Arbasino ha probabilmente espresso nel suo angosciante Super-Eliogabalo.
Svolto ogni preambolo, esaminerò in questo saggio due romanzi di autori dunque moderni (di Wilde e di Joyce). Il lettore potrà cogliere da sé il grado di sfaldamento della Humanitas che tali due letterati hanno espresso nelle opere qui considerate.
Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde è un libro religioso (o a suo modo religioso) a patto che per religione non si intenda quanto è espresso dalle religioni convenzionali. Alla base di esse tutte vi sarebbe l’utile. Ma utilitaristico, per Wilde, è forse – più estesamente – il fondo di ogni valore che si possa concepire: persino la libertà quale disinteresse (nobile o no che sia) e l’amore autenticamente concepito, quale puro, freddo, auto-sacrificio (oltre al sentimento ecc.) sarebbero in fondo espressione ipocrita di egoismo.
L’utile può essere anche immediato: mi viene fame e subito mangio. Chi ne beneficia è un io, egoistico e solipsistico, ovvero incurante di tutto ciò che non riguardi il suo meschino egoismo. Ma allora ogni uomo è solo.
Veniamo dunque alla soluzione prospettata da Wilde al problema della solitudine e dell’egoismo umani, facendo riferimento ad uno dei personaggi – solo apparentemente secondario – del suo romanzo. La giovane e piuttosto povera attrice Sybil Vane, estremamente graziosa ma altrettanto sensuale, assurge a ruolo di messo angelico inviato dalla provvidenza per salvare l’anima di Dorian: ma il suo duro e stupido cuore la respingerà, inducendola in tal modo (addirittura) al suicidio. Entrambi si illudono di aver trovato la grazia: lei, per via dell’eccezionale bellezza di Dorian (crede che essa rifletta, esprima, la sua bellezza interiore); quest’ultimo crede invece stupidamente di aver trovato in Sybil l’incarnazione tangibile di quei falsi valori di cui si è detto sopra. Dal momento che al mondo c’è solo egoismo, si è meramente fascinati da chi – per così dire da lontano – ci appare quale l’incarnazione degli anzidetti valori. Conoscendolo più da vicino, stando con egli a contatto, siamo riportati con i piedi per terra, in quanto ci si accorge che quella persona è uguale a tutte le altre, ovvero egoista e priva di fascino, tediosa (personalmente ritengo invece che ci si illuda del tutto gratuitamente circa il fraintendere la vera natura di un essere umano).
Se anche soddisfare le nostre imprescindibili esigenze primarie si lega alla nostra vanità, assecondare le nostre esigenze di origine sociale risulterà altrettanto vanesio, ovvero da ‘tipi fanatici’. Continuare a vivere è infatti irrazionale, senza senso, poiché il dolore, o perlomeno la noia e la solitudine, caratterizzano essenzialmente il nostro vivere (che sarà allora un mero ‘tirare a campare’). È solo tramite l’arte e la bellezza, secondo Wilde, che possiamo salvarci, riempiendo il vuoto delle nostre esistenze. Sono le ‘belle arti’ a renderci umani, a farci diversi rispetto agli animali. Suonare, dipingere, praticare uno sport, ma anche conversare, fare sesso ecc. appagano pienamente il nostro spirito a patto di risultare delle attività del tutto prive di vanità.
Un atto, un gesto, è puro quando soddisfa (per giunta pienamente) solo noi stessi nel momento in cui lo eseguiamo, senza badare ad ogni altro tipo di tornaconto che può arrecarci. E così, viceversa – ad esempio un gesto sportivo – può svolgersi accompagnato dal pensiero di dover far vincere la nostra squadra (traendone – in fin dei conti – noi stessi vantaggio), dalla preoccupazione conformistica di venire accettati dalla società in cui viviamo per via della nostra bravura, dal pensiero di dover far colpo sull’altro sesso ecc. (fra l’altro, il conformismo consisterebbe non solo nel renderci pari di alcuni membri della società – superando un antecedente senso di inferiorità nei loro confronti – ma serve anche a far sentire malignamente inferiori rispetto a noi coloro che crediamo non siano alla nostra altezza, non potendo conformarsi ai nostri dettami).
In un atto puro, dunque, la sola cosa che sprona ad agire è un accumulo di energia potenziale puramente fisiologica. Ci si scarica da una tensione puramente fisica, senza aver altra preoccupazione al di fuori di ciò. Ma a tal fine sono necessari gesti liberatori, disalienati, ovvero non meccanici o ripetitivi, ossia non animaleschi. Con la nostra mente avulsa da ogni altra preoccupazione che non sia quella di compiere un autentico gesto, dunque irriflessivo, il nostro organismo, distaccato da tutto il resto e dunque estremamente rilassato, saprà funzionare al meglio, al massimo delle sue potenzialità. L’atto sarà allora tecnicamente e atleticamente perfetto (se – a titolo di esempio – di atto sportivo si tratta), bellissimo da contemplare.
E così, allo stesso modo, quando, fermi, siamo profondamente assorti nei nostri pensieri, l’espressione del nostro volto massimamente disteso sarà dunque massimamente piacevole da guardarsi.
Chi è capace di puri gesti, quando viene il momento di contemplare, vorrebbe vedere, a sua volta, dei puri gesti: è ciò che Sybil si aspetta da Dorian. Chi è capace di atti puri è inconscio, geniale, strumento di gioia per la vita altrui: senza saperlo, dona tutto se stesso all’altro, riempiendogli completamente l’esistenza.
Sybil è incosciente del suo modo d’essere, del suo immenso fascino, per tre motivi: vivendo solo il presente, l’immediato, usa conoscitivamente la sola sensibilità (non il pensiero) e, nella prassi, non può dunque che obbedire a pulsioni altrettanto immediate (ignorando soprattutto il futuro). Non potendo dunque riflettere, non potendo fare della filosofia circa le ragioni del suo universale ammaliare, di esso non ne sa nulla. Inoltre, non avendo vanità, nei suoi puri gesti non fa nulla di proposito per sedurre chi gli è vicino. Infine, dal momento che la bellezza che si sprigiona da puri atti non coincide con i ruoli e i valori – positivi o negativi che siano – che vigono in ogni stupida società (fatta piuttosto da gente in malafede), chi ne è capace – mettiamo sia non troppo abbiente come Sybil – non riesce a comprendere i motivi del suo piacere agli altri.
La disillusione di Dorian circa la nobiltà di lei lo renderanno cinico e spietato, dando corpo alle idee malsane del suo amico Lord Henry. Da allora rinnegherà ogni valore (quindi solo apparentemente) positivo, vivrà nell’attimo, epperò in contrasto dialettico con tutto e tutti (inizierà a commettere una serie di omicidi per proteggere unicamente se stesso). Ciò da un lato. Dall’altro diverrà un frivolo esteta: i suoi gesti, pur tendendo alla suprema purezza dell’atto, non potranno coincidere con essa. Essi tutti saranno costantemente accompagnati da un – sia pur minimo – senso di vanità (e dunque – fra l’altro – saranno sempre un po’ buffonescamente – per così dire – ‘virtuosistici’): ma la sua vanità sarà talmente debole da rasentare l’indifferenza, la pura, gelida, freddezza di cuore. Sperimenterà una stordente e sottile ebbrezza in luogo della vera gioia. Ma – proprio per questo – la sua vita sarà dannata alla solitudine e all’insoddisfazione. E sarà proprio il suo cuore di ghiaccio a rendergli sopportabili – attenuandoli nel modo più ampio possibile – tali due aspetti della vita (anche se, verso la fine del romanzo, non sarà più in grado di accettare un tale stato di cose, una simile situazione esistenziale).
Un presente squallido, ripugnante e opprimente, non dà pace a Stephen Dedalus, il protagonista del Ritratto dell’artista da giovane di James Joyce. In tale romanzo di formazione il piccolo Stephen è già perseguitato da un’immediatezza come sopra caratterizzata: già chiuso dunque nel suo egoismo, nella sua vita di bambino non aspira ad altro che a perseguire sensazioni di soffice sollievo. Come ogni bambino riesce a dimenticare con facilità i disagi trascorsi (il presente che non è più), riuscendo a continuare a vivere per mezzo dell’egoistica speranza di un futuro (il presente che non è ancora), in cui – per egli e solo per egli – lo squallore della vita avrà finalmente fine in un mortuario stato di fredda felicità.
Il piccolo Dedalus – ed è tutto quanto lo differenzia dal Dedalus adulto – non ha ancora maturato un temperamento. È a partire dall’adolescenza che la sua labilità caratteriale – attraverso la scoperta dell’altro sesso – inizierà a venir meno (superata la sua crisi spirituale, religiosa, confermerà una scelta esistenziale – come tra breve dirò – individualista). La vita ci pone per Joyce – quindi ad un certo punto del suo percorso – di fronte a un bivio: diventare individualisti oppure ‘comunitari’ (come i suoi amici sostenitori del nazionalismo irlandese). Opterà per la prima di tali due fondamentali scelte.
Quando la donna gli conferisce riconoscimento, la reazione dell’uomo è quella di subordinarla a sé, è quella cioè di porsi al di sopra di lei, soggiogandola e dominandola. La donna spinge eroticamente l’uomo a mutare la sua inetta e abulica natura bambinesca in una natura capace, ambiziosa e sopraffattrice. È dunque la forte attrattiva che la donna suscita in noi a indurci, non solo a conformarci ai dettami imposti dalla società, ma anche a primeggiare all’interno di essa. Ogni consorzio sociale è caratterizzato dall’uso di un linguaggio condiviso. Se si soffre per essere esclusi da tale consorzio, il nostro linguaggio già coincide con quello in uso in esso. È il non sopportare il cattivo giudizio altrui nei nostri confronti a spingerci ad adeguarci ad un certo ambito o contesto sociale. Ma non ci basta conformarci ai dettami di un certo ambiente. L’uomo infatti non si accontenta di avere finalmente dei ‘pari’, ma aspira, ambisce, addirittura a superarli. Fa ciò facendosi però comprendere dagli altri, ovvero non rinunciando ad utilizzare quel linguaggio che costoro continuano a condividere con lui. Nello specifico del caso di Dedalus, il suo scopo è quello di primeggiare nel settore dell’arte, creando con un bagaglio linguistico condiviso qualcosa di nuovo e di estremamente interessante, ma che gli altri possano dunque comprendere, riconoscendo in tal modo la sua grandezza di artista. È questo l’intento perseguito – più o meno consapevolmente – da Joyce-Dedalus nella sua vita.
Quanto ho appena concluso di esporre coincide fra l’altro – anche se approssimativamente e parzialmente – con il contenuto di quel capolavoro che è L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht, in cui il grande letterato tedesco scandaglia in modo lucidissimo e chirurgico l’anima del solipsistico uomo delle società capitalistiche. In detto dramma – in cui si potrebbe dire che è la ‘magia nera’ a farla da padrona – Brecht supera il punto di vista marxista ortodosso: in base a quest’ultimo la società ci spiattellerebbe in faccia il massimo dell’agio e del lusso in cui si possa vivere. Ma il lusso più estremo se lo può però concedere solo una ristretta cerchia di uomini. Entrare a far parte di tale giro, conformarsi pariteticamente ai suoi componenti, è l’obiettivo cui aspira ogni borghese, che dunque – se ne è capace – ascenderà man mano di grado o livello sociale fino a subentrarvi, per non doversi più sentire frustrato.
Ma torniamo a Joyce. Se ogni volontà di potenza aspira al nulla, ovvero al dominio assoluto, alla piena felicità, essa – finché si è vivi – è destinata a restare insoddisfatta. Ma veniamo alla volontà di potenza degli amici nazionalisti di Dedalus, che quindi rappresenterebbero l’indole ‘comunitaria’ del non-individualista. Anche quest’ultimo aspira al ‘nulla’, a dominare assolutamente tutto e tutti, seguendo tuttavia una direzione esistenziale per così dire contraria, contrapposta, a quella seguita dall’individualista. Il ‘tipo comunitario’ tenta (invano come l’individualista) di dominare assolutamente il reale abbassando gli altri alla propria mediocrità. Il suo cuore si acquieta un po’ solo e soltanto se vede che nessuno sovrasta nessun altro, ovvero che tutti sono uguali. Il non-individualista fa della sua mediocrità la ‘Legge’. Essa è vincolante in sommo grado, contrapponendosi a ogni tipo di libertà che ci si possa concedere. E così, ad esempio, il tipo umano comunitario respinge l’omosessualità (costume sessuale che non rientra nella medietà) in quanto – per un motivo o per l’altro – essa è espressione di libertà (di fronte all’omosessuale si sente – in fondo – un bigotto). Odia anche chi è servile con i potenti e forte con i deboli, in quanto anche ciò è espressione di illiceità. Soffre nel vedere il sadico che si compiace di arrecare dolore o disagio al prossimo, in quanto anche tale comportamento è delinquenziale (nel primo caso) o immorale (nel secondo caso). E dominerà la donna pretendendo che assuma un carattere buono (per meglio dire, innocuo), positivo.
Con Joyce e con il suo romanzo in esame, siamo riportati agli albori della filosofia. Talete è un ‘fisico’ in quanto il suo pensiero non sarebbe altro che scienza empirica ancora grezza e astratta. Vuole innanzitutto spiegarsi l’origine della vita, volendo superare conoscitivamente il divario che pare sussistere fra i morti fenomeni e i fenomeni vitali. Riconducendo tutto a particelle elementari acquatiche, crede di aver superato una simile separazione. Se l’acqua è fondamentale per rimanere in vita, allora essa avrà a che fare con la vita. Il suo ilozoismo attribuisce forse coscienza inconscia – e dunque capacità di auto-movimento – ai corpuscoli sensibili acquatici. L’idea che l’incoscienza possa produrre solo necessità, o solo arbitrarietà o caos, è propria della filosofia moderna, e non di tutta la filosofia moderna (Leibniz infatti è un vitalista al pari di Talete e Anassimene: le sue monadi – quantomeno – si comportano come l’acqua e l’aria così come le concepirono i due presocratici). Ebbene, è proprio la coscienza di cui disporrebbero, per Talete, a fare in modo che gli atomi acquatici agiscano in base a motivi, a scelte, dando in tal modo luogo ad una Natura regolata. Il desiderio che un giorno – sviluppando completamente le sue intuizioni sulla ‘physis’ – si conosceranno tutti i suoi segreti, è ciò cui Talete aspira, è ciò che sogna.
Il presocratico di Mileto spera allora di dominare assolutamente la Natura. Sebbene Aristotele parli di esercizio filosofico fine a se stesso (poiché magari riteneva procurasse piacere), egli stesso aveva a cuore problemi di carattere scientifico-tecnologico. E nonostante ci riferisca che lo stesso Talete facesse filosofia per il gusto di farla – a prescindere dunque dalle sue conseguenze pratiche – un certo aneddoto aristotelico smentisce che il milesio non avesse interessi di natura pragmatica. Tale aneddoto ci parla di un buon affare commerciale che Talete riuscì a compiere grazie al suo pensiero (se non alla sua filosofia in senso stretto).
Concludendo, ritengo che l’universo culturale greco presocratico sia all’origine del più moderno capitalismo. I primi e più importanti presocratici condividevano una visione tragica dell’esistenza, che tutti superarono attraverso una soluzione esistenziale di tipo dionisiaco: schiacciati dal presente, dall’immediatezza, non badavano al passato (per cui mancavano di memoria storica) e speravano (invano) – aperti al futuro quasi con stupefazione – in un domani in cui detta angosciante immediatezza avrebbe potuto aver fine.
Ebbene, l’affarismo dionisiaco dei ceti medi-subalterni ellenici (daranno luogo alla polis democratica ateniese nel V secolo), ha a mio parere relazione con il contenuto inconscio del Ritratto dell’artista da giovane, in cui dunque Joyce esalterebbe – quasi senza saperlo – il più moderno universo capitalistico.

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