Marxismo-leninismo essoterico ed esoterico, un saggio di Umberto Petrongari

Lenin, Marx ed Engels

Di UMBERTO PETRONGARI

Dando per buono che i meccanismi politico-economici e propagandistici applicati da Lenin e Stalin in Russia siano stati, nonostante ogni intralcio non dipeso per lo più da loro, di indubbia efficacia, tenterò di cogliere e di chiarire il retroscena filosofico che è alla base dell’efficienza di tali procedimenti (nel saggio non spiegherò del tutto i motivi di tale efficacia, avendone discusso in altre sedi). Tale retroterra non è stato certamente ben focalizzato dai due leader russi. Del resto, di costoro, mi interessano relativamente le loro posizioni teoriche, essendo maggiormente interessato a quella che è stata la loro effettiva prassi politica (parlando di marxismo-leninismo intendo riferirmi soprattutto ad essa).

Parlerò dunque di un marxismo da impartire al popolo (essoterico) e di un marxismo esoterico che getta luce sul vero significato di quello essoterico.

Come sarà chiaro, sia il marxismo-leninismo esoterico che quello essoterico, si discostano entrambi dall’ortodossia marxista, della quale ora andrò a parlare.

Ritengo che il principale merito di Karl Marx sia consistito nel suo sforzo scientifico di cogliere la pura vita, la nuda realtà, per quella che – dunque, senza orpelli – è, per poi vedere se la situazione – magari negativa – che essa costituisce, conceda o meno degli sbocchi, delle vie d’uscita, stabilendo – quindi eventualmente – quali siano, ma badando a non individuarne di astratte e illusorie.

Per lo studioso di Treviri sarebbe stato Eraclito, con la sua pessimistica filosofia e la sua dialettica, ad aver carpito, almeno in parte, i segreti metafisici del cosmo. Ma la tragica immobilità storica, ovvero l’assenza di storia, l’antistoricismo interamente negativo, che ha caratterizzato la storia dell’umanità fino alla sua fase di dominio o di affermazione della borghesia, potrà venire gradualmente superata dall’ascesa del parco proletariato in lotta, la cui meta è il comunismo. Ma l’idea hegeliana della conciliazione tra interessi discordanti, da realizzarsi su basi di pragmatica avvedutezza, è da respingere quale irreale mitologia: per Marx ci sarebbe solo dialettica immediatezza, nichilismo dialettico, scontro di tutti contro tutti sulla base dell’ubbidienza di ognuno a pulsioni immediate di diverso tipo. E non è che per Marx tale principio nel comunismo venga propriamente superato (se ci si attiene all’interpretazione che Lukács ha forse offerto della sua opera).

Lasciando per il momento da parte il problema del socialismo, quale graduale ascesa verso il comunismo, vediamo dunque quali principi vigerebbero per Marx in tale situazione sociale.

Essa sarebbe essenzialmente caratterizzata o definita dal pieno superamento dell’alienazione umana. La cessazione dello sfrenato consumismo, come ciò che induce a guadagnare il più possibile per soddisfarlo, e la cessazione delle conseguenze negative che tale smodato guadagnare comporta sul piano sociale, politico ed economico, darebbero luogo ad un’inaudita dimensione sociale, in cui le attività ludiche (di natura contrapposta rispetto al consumismo) sostanzierebbero la vita dell’intera umanità. La piena soddisfazione esistenziale derivante dall’esercizio dell’arte e, più in generale, del gioco, unita alla massima diminuzione del lavoro per la propria assicurata sussistenza, renderebbero gli uomini non più famelici, ma più contenuti nel prendere e nell’afferrare (nell’appropriarsi di cose). Non è dunque che la dialettica cessi: forze tra loro sempre e comunque contrapposte non giungerebbero più – per così dire – ‘a contatto’ (ovvero, a scontrarsi).

Ma esse stabilisco tra loro relazioni sociali di vario tipo. Nel comunismo ogni uomo acquisirebbe una dignità ontologica derivante dal suo possesso spontaneo (o quasi) di una cultura del gioco non erudita, non tradizionale, più attiva che contemplativa, che lo renderebbe oggetto di apprezzamento da parte di chi entra in un qualsiasi tipo di rapporto con lui. Ma un rapporto fondato sulla stima non corrisponde ad un rapporto basato, ad esempio, su di una fraterna o amorevole benevolenza reciproca. E così, ad esempio, l’ideale cavalleresco che vige tra due onorevoli guerrieri schierati su fronti opposti (ossia tra nemici che si rispettano), non li induce certamente ad astenersi dallo scontrarsi fra loro (nel comunismo non vigerebbe tuttavia – ovviamente – alcun genere di violenza). L’uomo nuovo prospettato da Marx rimane solipsista e il comunismo è nichilismo nel senso più proprio.

Credo che leggendo attentamente Storia e coscienza di classe di Lukács – forse il più fedele interprete marxiano – sia da escludersi la presenza in essa di rousseauismo. Tale concezione sarebbe invece presente in un comunque grande esegeta sia di Marx che di Lukács, ovvero in Horkheimer, forse il più influente dei Francofortesi. Altro aspetto estraneo a Marx, ma comunque di non poco interesse, presente nel francofortese, consisterebbe nell’aver individuato il duplice e atteggiamento che un borghese può assumere in modo interscambiabile: o darsi a un edonismo consumistico sfrenato, oppure stremarsi, fisicamente o mentalmente, nel lavoro, per produrre sempre più efficienza della quale dunque non beneficerebbe, in quanto, inoltre, essa è rivolta all’uomo stesso, ottimizzandolo sempre più nelle sue prestazioni lavorative.

È inoltre a mio parere da escludersi un’esegesi pansessualista del marxismo, come quella offerta da Deleuze. Marx, in alcune cose, permarrebbe ancora legato alla tradizione filosofica realistica, platonico-aristotelica, ben distinguendo (ingenuamente) tra cose come il sesso, l’amore, l’amicizia, e altro ancora.

Inoltre in Marx la dimensione del gioco troverebbe la sua giustificazione filosofica nella dialettica, in una logica di tipo dialettico, più propriamente nel principio di determinazione-negazione (mi limito a tale accenno). Per Deleuze invece essa si legherebbe alla contingenza, alla libertà. Ovvero, la causalità, la necessità, non sarebbe altro che un’allucinazione: non esistono infatti moti reali di cose concrete che producono spostamenti altrettanto reali, e l’agire umano non sarebbe mosso da mancanze, da bisogni. Inoltre le restanti categorie (tutte essenzialmente o necessariamente implicate dalla causalità) non esisterebbero, per cui la causalità stessa non vigerebbe, vigendo, di conseguenza, la libertà. Ma la necessità, sia nel suo carattere oppressivo, sia nel suo essere allucinatoria (mero schema, mera astrazione), è contraddetta – da un lato unicamente, e dall’altro, per così dire, il più possibile – da un agire, da un cangiare, sia umano che cosale, sempre nuovo e il più possibile diversificato, sfuggente alla statistica.

È mio intento sostituire al nichilismo dialettico marxiano un nichilismo di tipo contingentista, magico (lo si potrebbe dire ‘davvero nichilistico’), sebbene io sia più propriamente, a livello teorico, uno scettico e un relativista: gli intenti scientifici di Marx sono stati apprezzabili. Si tratta di affinarli, e forse definitivamente.

Vediamo, innanzitutto, se tale mia operazione abbia avuto o meno qualche antecedente. Qualcosa di meramente analogo lo si è forse avuto con Sartre, a mio parere già comunista sin dalla Trascendenza dell’Ego (in L’esistenzialismo è un umanismo esplicita il suo essere comunista). È assai probabile che vi sia del rousseauismo anche nell’esistenzialista francese. Per il resto la sua filosofia è (assai sinteticamente) contingentismo (delle azioni umane e della natura, mentre Marx non pone in discussione la scienza moderna, sebbene non creda in un Soggetto trascendentale in quanto è un nichilista) e oppressione dell’Io (più o meno marcata, a seconda dei casi e delle situazioni).

Per Sarte la natura dell’uomo consisterebbe nella libertà, ovvero nell’essere il più possibile affrancato da ogni tipo di oppressione (sua e dell’Altro, i quali farebbero empaticamente tutt’uno). Il comunismo consisterebbe allora nel raggiungimento di una situazione in cui l’uomo diviene massimamente, per quanto può, libero nel senso anzidetto.

Il gioco, nel suo senso più proprio, non è ammesso filosoficamente da Sartre: in luogo della ‘gioia’ (che forse condivide con ‘gioco’ un medesimo etimo), nel comunismo vi sarebbe ‘ebbrezza’. Di esegeti marxiani teoricamente sostenitori dell’ebbrezza in luogo della gioia ve ne sono stati: certamente e in primo luogo lo è stato Benjamin. Anche, ad esempio, nel marxista Pasolini potrebbe esservi un’analoga lettura di tale risvolto del pensiero di Marx.

Tornando a Sarte, egli sostiene che ogni gesto che l’Io rivolge negativamente sia verso se stesso che verso altri, è un atto di sua esclusiva responsabilità (l’Io è infatti contingenza, pura casualità delle sue azioni). Forse, al pari di Kierkegaard, ha valutato negativamente la contingenza dell’agire umano. Oppure, in caso contrario, avrebbe sostenuto l’applicazione di metodi statistici e probabilistici, non solo all’ambito della natura ma anche al dominio delle azioni umane (ponendo tutte quelle condizioni che rendono assai probabile un comportamento umano di tipo positivo, sia socialmente che individualmente, personalmente).

Ammettendo invece che si sia richiamato in parte a Kierkegaard, allora, come il pensatore danese, avrebbe forse distinto fra un vero atto, fra una vera scelta e una falsa scelta, poiché indifferenziata (e dunque non preferibile rispetto al suo contrario). Quest’ultima cosa è nichilismo: al suo opposto vi sono gerarchie di valori cui adeguarsi e da rispettare. Per il filosofo di Copenaghen, ad esempio, un’intensa e persistente disperazione può spingerci ad abbandonare la negativa libertà, facendoci abbracciare la positiva necessità. Kierkegaard sarebbe insomma agli antipodi di chi pone in relazione libertà e dovere da un lato, necessità e animalità, egoismo solipsistico, dall’altro. E così, ad esempio, in Kant il nostro complesso nevrasse ci consentirebbe, rispetto ai restanti animali, di concepire il puro dovere (la disobbedienza a impulsi fine a se stessa): concepitolo ci si adeguerebbe nel comportamento a tale principio. I sostenitori del dovere quale contingenza ritengono invece che la conseguenza etica del pensiero, della concezione, del dovere, non sia obbligata (l’uomo potrebbe cioè continuare ad agire secondo necessità, ossia da schiavo delle proprie pulsioni).

Tornando a Sartre, costui potrebbe aver concepito quanto predispone più alla necessità che alla libertà, e ciò consisterebbe in una salubre condotta misurata, che renderebbe l’uomo civilmente etico, ovvero conforme agli aspetti rousseauiani, socievoli, del suo pensiero.

Ebbene, veniamo alle differenze tra me e il pensatore parigino. Innanzitutto, rispetto a Sartre, non credo nel rousseauismo.

Esiste un gusto universale che è dato dall’assumere un qualsiasi atteggiamento esistenziale (dai più materiali e tangibili – come ad esempio uccidere – ai più morali ed aerei – come ad esempio offendere a parole) con il massimo distacco, con il minimo coinvolgimento (senza isterie, o comunque dando il minimo valore a tutto, non prediligendo alcunché). La sregolatezza favorisce il prodursi di una tale modalità comportamentale: si sarà liberi (o il più possibile liberi) nell’assumere sempre atteggiamenti conformi a tale gusto estetico universale. Tale il nichilista.

Al di là di ciò vi sono le varie prospettive umane, le varie opinioni, tutte contraddistinte dal fatto che conferiscono valore a qualcosa (per cui si privilegia qualcosa, fosse anche unicamente la propria pelle): possono piacere o meno. Si sta ovviamente parlando dell’ ‘atteggiarsi’ umano, di ‘modi di fare’ o ‘stili’ comportamentali.

La moderazione farà in modo che mi adegui costantemente e coattivamente ad atteggiamenti opposti rispetto a quelli nichilistici, dando a tutto il massimo valore che gli si possa conferire, nonché riconoscendo l’esistenza di ogni possibile valore al mondo: tale l’Humanitas (che mette assieme, infatti, cose tra loro inconciliabili come felicità, sentimento e disinteresse).

A metà strada tra un’estrema dissolutezza e il massimo rigore comportamentale si offrirà una situazione di tal sorta: il libero arbitrio vuole che, in presenza di un impulso, si possa obbedirvi o non obbedirvi. In tal caso, dunque, non si attribuisce valore alle conseguenze che l’eventuale obbedienza allo stimolo comporta. E in tal caso agirò con distacco, al pari del nichilista. Ma se, per il resto, sono ad esempio qualcuno che cura egoisticamente solo i propri interessi, allora, quando essi sono in gioco, starò sempre ben attento (secondo necessità) ad assecondarli.

Ora, una morale umanista e umanitaria, piuttosto che l’egoismo, piuttosto che altro ancora, sono cose equivalenti: mere ‘mode’, fondate dunque sul conformismo sociale (non avendo nulla di buono e di autentico). Qualcosa come il despota illuminato hegeliano è possibile a questo mondo, purché non si prenda il suo atteggiarsi ed agire da illuminista quale accorto pragmatismo volontarista, ma quale mera moda intellettuale.

L’uomo non è dunque né accorto né umano. È in grado di pensare a sé solo quando il pericolo è imminente, se non addirittura inevitabile (e vi sono uomini, rari o d’eccezione, che non badano neanche a ciò). Faccio degli esempi banali: si fuma, si beve ecc., nonostante si sappia che ciò potrebbe, con alta probabilità (se non con certezza) nuocerci.

Insomma, vi è da ritenere che l’intera realtà (qualora si possa parlare di realtà) sia nichilisticamente riconducibile al conformismo e all’arbitrarietà, sporadicamente al nostro egoismo. Altri principi non vigerebbero.

Questa è dunque la situazione che si offre ai nostri occhi. Vediamo dunque se e come possiamo venirne fuori nel modo per noi più confacente.

Innanzitutto, la problematicità marxiana dell’alienazione del lavoro non sussisterebbe. Da un lato, infatti, il libero arbitrio invalida il problema del lavoro alienante e coattivo, costrittivo. Se poi si lavora per conformistica necessità (per questioni di onorabilità, di rispettabilità sociale), il disagio sociale che ci induce a farlo non è poi così opprimente, in quanto è contraddistinto dal leggero, tenue, carattere dell’ebbrezza. Se lavoro per non dovermi vergognare socialmente (cosa alla quale dunque darò un peso relativo), la fatica o la spossatezza mentale che avverto nel lavorare, in quanto da me affermate in modo volitivo e pressoché intenzionale, non costituiranno la controparte interna di opprimenti attività esteriori. Ovvero, nel lavorare, da un lato sarò ebbro, dall’altro sarò addirittura attivo e non passivo.

Ma se l’alienazione di cui parla Marx non sussiste, un ipotetico futuro di socialismo mondiale verrebbe immediatamente, simultaneamente, a coincidere con il comunismo.

Una conseguenza di tutto ciò che ho affermato fino ad ora in merito alle mie vedute, conduce a svalutare la dimensione della cultura a favore di altre priorità. Tali priorità consistono unicamente nel salvaguardare la propria persona in modo pieno, o quantomeno nel modo migliore che ci sia possibile. L’etica è primaria, e l’etica per noi più congeniale è un’etica di tipo umanistico, basata quindi, innanzitutto, sui sentimenti. Se ognuno di noi l’assumesse quale costume comportamentale, il mondo sarebbe un luogo per tutti massimamente vivibile, abitabile.

Ma le nostre sole forze, a tal fine, non sono sufficienti. Dato il carattere in fondo esterioristico di detta moralità, non in ogni frangente assicura ciò per cui dovrebbe venire sempre e da tutti applicata.

Alcuni utilitaristi ritengono che si possa agire eticamente prescindendo da compassione, empatia o simpatia che dir si voglia, astenendoci dal male nell’immaginare un eventuale male futuro che, secondo una probabilità più o meno alta, potrebbe colpirci se facciamo del male. Il vago pensiero del male materiale che potrebbe capitarci in caso di cattiva condotta predisporrebbe alla rettitudine.

Ora, io non credo in tale possibilità. Credo invece che l’uomo consapevole tema unicamente le leggi dello stato, e ovviamente a patto che siano sempre, sistematicamente e severamente applicate. E non tutti gli uomini dispongono di tale tipo di consapevolezza, motivo per cui vi sarebbe bisogno di rassicuranti forze dell’ordine sempre vigilanti.

Credo infatti che esistano due tipi d’uomini: un uomo ancora animalesco e un uomo dotato di coscienza. Non che il primo sia sempre uno sciocco in quanto più facilmente incappa nei pericoli: razionalmente incosciente, se la cava nel pericolo (in guerra, in una scazzottata) meglio dell’uomo cosciente, in quanto più bravo di quest’ultimo nell’azione. Ma, tutto sommato, astenersi civilmente da contrasti di ogni sorta è qualcosa di più conveniente. E per ogni restante problema la non sventatezza ci preserva nel modo migliore.

Ma la morale resta relativa: chi dispone di un ingentissimo patrimonio, da cui gli derivano poteri politici, giudiziari ecc., che lo tutelano al meglio, dovrà piuttosto continuare ad affamare il mondo per non perdere tali poteri, i quali, in una condizione di equilibrio economico, gli verrebbero meno.

A chi non dispone di enormi ricchezze, converrebbe in ogni circostanza vivere in un paese comunista piuttosto che in una nazione capitalista? In linea di principio quest’ultima realtà politica non comporta, in fondo, una vita migliore rispetto a quella che si vivrebbe nel socialismo: tutto ciò che interessa davvero ad un uomo, checché ne dica e ne pensi, è soprattutto la soddisfazione delle sue primarie e irrinunciabili esigenze.

Perché, infine, essere persone di sentimenti, perché, ad esempio, prodigarsi politicamente anche per gli altri (per far ad esempio emancipare una nazione oppressa e senza risorse)? L’umanismo, si è detto, non è che un certo tipo di gusto etico-estetico formatosi in noi sulla base di un condizionamento sociale. Ma sui gusti non si deve e non si può discutere.

Passiamo ora a parlare di culture. In molti distinguono tra una cultura alta e una cultura bassa, differenziandole sulla base dei ceti e dei tipi umani che, da sempre, storicamente (o comunque nel passato), hanno prevalso politicamente su tipi umani contrapposti. Si ritiene che anticamente (o soprattutto anticamente), il barbaro, l’uomo d’azione, l’invasore, abbia sempre prevalso su più stanziali popolazioni composte da uomini più civili, industriosi, pacifici e pensanti. Sebbene si possa ritenere che tale schema storico sia un po’ troppo astratto, in linea teorica è addirittura smentibile. L’intelligenza che escogita il fucile prevarrà con sicurezza e facilità su chi ha molta destrezza ma usa ancora la clava per combattere.

Stabiliamo tuttavia che sia alta la cultura legata ai ceti signorili di dominatori e bassa la cultura dei ceti assoggettati.

Una cultura tanto più si innalza, tanto più tende al nichilismo, ovvero a inciviltà e ignoranza (all’incultura). Tanto più si abbassa, tanto più si fa ugualmente incolta (pur non tendendo al nichilismo), poiché ingenua, di un’ignoranza puerile, bambinesca.

Sia chiaro come tutta l’arte sia conformismo (nulla di genuino). In alcuni casi è (perlomeno in linea di principio) non indispensabile lievità. Infine, più si innalza, più diviene pericolosamente individualista, ossia nichilista (e dunque antisociale).

La morale umanistica comporta, suggerisce, che la forma umana di vita più fragile e debole che abita la selva del mondo vada tutelata nel modo più accurato e accorto, e vada rassicurata e rasserenata nel modo più pieno.

Un bambino, quanto più è piccolo, tanto più non è in grado di contenere scene e immagini psichicamente forti, sessuali in primo luogo, secondariamente di violenza. Ogni bambino tende a interamente ingannarsi, ridisegnando il mondo quale luogo di piena positività. Per il bambino la vita diviene felice e irrinunciabile, il suo personale modo d’essere davvero buono e solenne, cioè davvero morale. La ‘bella eticità’ hegeliana esprime a pieno una mentalità di tipo fanciullesco.

Man mano che si cresce la sessualità prorompe nelle sue varie, più o meno esplicite, forme (sensualità, aggressività ecc.), ma nella prima e primissima fanciullezza essa si esprime nell’aspetto depotenziato della calorosità, dell’affetto, del sentimento (oltrepassato il quale vi è la freddezza d’animo, altra cosa che il bambino non riesce a contenere, ad accogliere, però, in tal caso, ‘per difetto’, e non in quanto costituisce un eccesso).

La prima società con cui il bambino entra in contatto è rappresentata dai propri genitori. Si affeziona ad entrambi e con entrambi stabilisce un saldissimo legame sociale. I genitori sono un po’ i suoi primi amici del cuore (e anche di più). Soffre per le loro eventuali liti, così come uno di tre amici fraterni soffrirebbe nel veder litigare i restanti due. Il divorzio dei suoi genitori è traumatico per un bambino.

Basta poco a spezzare l’armonia vigente in una triangolazione familiare. Per fare degli esempi, una donna avvenente può spingere il padre ad abbandonare la famiglia, o il prorompere dell’omosessualità in quest’ultimo può ugualmente disgregare l’armonia familiare.

In generale, ogni cosa che tende a turbare oppure (ancor peggio) a violare la fanciullezza, ha a che vedere, ha a che fare, con la sfera dell’individualismo e dell’individualità, dunque dell’eccezionalità, della marginalità, di contro alla medietà.

Il perché le classi subalterne di tutto il mondo abbiano sviluppato concezioni somiglianti, avendo escogitato l’Humanitas, non è facile stabilirlo. Ma ciò che importa comprendere di esse, sta primariamente nel fatto del loro utile carattere, produttivo di civiltà e di socievolezza. Ma certamente un contesto di persone non eccessivamente abbienti tenderà a produrre, fra le altre cose, una mentalità solidale. Mentre una condizione materiale d’esistenza più possidente produrrà maggiore egoismo. Se poi, ad esempio, i poveri in una società sono in gran numero, le loro idee tenderanno a contagiare anche altri ceti.

Chi esprime una qualsiasi cultura popolare (che si sia conservata grezza e naif) tende a mantenere un candore bambino anche in età adulta. Non è dunque che sia un moralista per mediocrità (non eccellendo in nulla), un invidioso, risentito e incapace livellatore sociale. La medietà, la comune comprensibilità (la semplicità di significato), non và a mio parere indicata con il termine dispregiativo di ‘mediocrità’. Il popolo minuto non vede di buon’occhio il borghese e l’aristocratico poiché esprimono sia dei difetti che degli eccessi che lo inquietano per via della sua tollerante e inclusiva socialità e per via della sua generosità. Perciò vuole uniformarli alla propria norma. E già l’erudizione insita in una poesia di gusto classico (cioè umanistico), piuttosto che una brava persona, ma dal temperamento sensualmente aggressivo, esuberante, suscitano in esso una certa antipatia.

Ma vediamo più precisamente quale sia la controparte metafisica ed estetica della mentalità popolare umanistica.

Abbiamo detto come il bambino creda in ogni positività (nella bontà, nel disinteresse, che la vita sia gioiosa ecc.). Altra cosa che piace, più generalmente, all’umanista è che al mondo possa ben orientarsi, eludendo al meglio ogni pericolo e ogni minaccia. Per cui detesta e teme tutto ciò che disorienta (è ad esempio turbato all’idea di un cosmo che non abbia limiti). Vuole che il mondo sia massimamente regolato e ordinato e, dunque, anche ben definito. La geenna dell’indifferenziato lo allarma: preferisce credere che il mondo sia composto da cose chiare e distinte, nonché reali e ben separate tra loro, o almeno che i loro elementi costitutivi lo siano (anche il pensiero di un etereo e impalpabile – dunque inafferrabile, incontrollabile – mondo rappresentativo lo infastidisce). Quegli interpreti che hanno fornito, per così dire, una ‘vulgata’ del marxismo, all’interno della quale vi rientra anche l’ortodossia marxista sovietica (l’interpretazione ufficiale di Marx che era vigente nell’Urss), hanno reso Marx un materialista di questo tipo: avrebbe coniugato i caratteri della concreta res extensa con la dialettica (la cui connessa animazione vitale rimpiazza l’esistenza della res cogitans).

Il tipo d’arte che esprime al meglio il tipo d’uomo che ho fino a questo momento descritto è il realismo socialista di età staliniana.

È innanzitutto un’arte antinichilistica, ovvero oggettiva, univoca (non relativistica), ossia universale (si è detto come per l’umanista esista ogni possibile valore e realtà).

Non è un’arte erudita poiché, da un lato deve venire compresa da tutti, dall’altro per via della negatività, di cui si è detto, dell’erudizione. I dipinti o i manifesti del realismo sovietico mostrano figure più vicine allo stile fumettistico che a uno stile più propriamente artistico, colto. Chi, infatti, ha scarsa cultura (ad esempio un bambino), contempla piacevolmente un’immagine da fumetto o un cartone animato, ma non apprezza (poiché non lo comprende), ad esempio, un dipinto rinascimentale.

Ciò che viene mostrato in un quadro realista russo è, a volerci esprimere con una formula assai sintetica e metaforica, ‘acciaio’ e ‘cuore’. Rudi e robuste figure di carne ed ossa (ma che trasudano anche bontà d’animo), sono per lo più i soggetti di tali quadri o manifesti. Il messaggio propagandistico che comunicano al popolo è il seguente: bisogna essere umani (umili, parchi ecc.) ma anche duri e severi contro le iniquità, le ingiustizie, le prepotenze, le prevaricazioni.

Fra l’altro il popolo riceve da tale arte anche una coscienza rivoluzionaria pericolosa per i potenti che li governano, qualora non facciano il loro dovere: rettamente informato su ciò che è buono e giusto, il popolo, ben compatto, saprà ben rispondere a ogni eventuale abuso di potere. Chi subisce l’influenza di un tale tipo d’arte è ben orientato circa ciò che si deve fare contro l’insorgenza di un eventuale malgoverno (altrimenti reagirebbe comunque con violenza, ma non saprebbe bene con chi prendersela, non sapendo chi sono i suoi veri nemici).

A mio parere l’arte deve dunque avere un’utilità sociale. E non è che intenda esaltare l’ignoranza (anche se ritengo che dovrebbero venire privilegiati gli studi tecnici, scientifici e professionali). Esprimendo un punto di vista estetico non troppo lontano da quello pasoliniano, apprezzo la gente semplice che ha esigenze esistenziali semplici, ma che trasuda arte, che è estetica (artisticamente espressiva) senza saperlo.

L’arte in voga in Russia prima del realismo, ovvero il costruttivismo, era invece adeguatamente funzionale alla diversa situazione caratterizzante l’Urss del periodo leninista.

Il fatto che in età leninista e poi stalinista le più grandi industrie e l’intera finanza fossero nelle mani dello stato, ha innanzitutto eliminato l’intralcio principale alla creazione di una società socialista.

Ma con Lenin, per via dell’ancora scarso livello di industrializzazione del paese (riguardante anche l’agricoltura), si è dovuto venire maggiormente a compromessi con i ceti intermedi (di indole borghese). In occidente la politica ha da sempre poggiato su una maggioranza fatta di piccoli e medi borghesi. Senza accontentarli (perlomeno in una certa misura) nessuna società occidentale potrebbe perpetuarsi (crollerebbe). La situazione di noi occidentali è tale che la politica deve sempre creare – perlomeno un po’ – di disparità sociale (venendo maggiormente incontro alle esigenze di alcuni a discapito di altri).

Ebbene, nella particolare situazione espressa dalla Russia ai tempi di Lenin, non era possibile non poggiare politicamente sul nepman e sul kulak. Il costruttivismo è un tipo d’arte che viene incontro alle esigenze libertarie del borghese. La Russia leninista era anche artisticamente più libera rispetto a quella stalinista, e dunque l’arte che ha espresso era più incomprensibile (soggettiva, se si vuole) rispetto a quella del periodo che l’ha succeduta.

Aprendo una postilla sul costruttivismo e, più estesamente, almeno su parte dell’arte d’avanguardia, la messa in crisi del classicismo non poteva non condurre i nuovi tipi di artisti ad attingere da ambiti quali la pubblicitaristica. Se nell’arte tradizionale ogni elemento che la compone sembra spontaneamente venire incontro ad ogni restante elemento, in modo tale che ognuno di essi si richiami a vicenda, tale eufonica armonia o consonanza viene messa in crisi dall’arte moderna. Essa, innanzitutto, privilegia – al contrario dunque dell’arte classica – la cacofonia, la dissonanza: è un’arte d’impatto, che deve creare stupore, deve colpire il suo fruitore. Da ciò deriva anche la sua vicinanza al motto, allo slogan, anche martellante. In un manifesto pubblicitario, solitamente, vi compaiono immagini forti e fulminee. L’effetto prodotto è spesso dato dalla contrapposizione degli elementi contrastanti che vi appaiono.

All’origine dell’arte moderna vi è, ad esempio e in primo luogo, la valutazione dell’estetica offerta da Kant. Se il sublime è un carattere imprescindibile dell’arte classica, esprimente infatti anche della grandezza morale, esso è macchiato dall’oscurità conoscitiva, dal carattere menzognero, che contraddistinguerebbe l’arte tradizionale. Nell’imperativo categorico il sublime si mostra invece separato dall’insincero pathos artistico. Per Kant l’etica sta più in alto dell’arte per ragioni conoscitive. Il puro sublime è il senso di stima e di rispetto che, quasi freddamente, senza commuoverci, ci investe quando si è di fronte ad una persona ligia al dovere.

Ma anche Hegel assesta un duro colpo all’arte classica. Benedetto Croce credo sia stato un suo fedele esegeta ed è stato un fedele hegeliano (anche se ha un po’ assottigliato il sistema dell’idealista tedesco). Per quanto Croce simpatizzi per l’arte e l’apprezzi, ne coglie tuttavia il carattere di ingenuità. Alla sua base vi è in realtà ciò che egli, impropriamente, menziona come ‘il bene’, ovvero l’utilitarismo etico. Quando invece il pensatore italiano parla di ‘utile’ si riferisce all’egoismo solipsistico.

Con la presa del potere da parte di Stalin prese avvio un’assai più decisa industrializzazione del paese. Non che questo, a parere di alcuni storici, non fosse stato anche l’obbiettivo di Lenin, che però non riuscì a realizzare per via della sua piuttosto precoce morte. Essi ritengono che Stalin, in generale, sia stato un fedele continuatore del leninismo.

Ma come è mutata la società sovietica con tale cambio di potere? Industrializzazione e collettivizzazione apportarono un maggiore benessere in Russia. Fu allora possibile ridistribuire più equamente gli accresciuti beni prodotti. Se il ceto medio venne un po’ depauperato, il ceto minuto venne invece economicamente innalzato. Ma tale nuova situazione richiese una propagandistica proletarizzazione, perlomeno di una grande fetta della società sovietica (il che comportò anche un mutamento della domanda di merci, resa uniforme e più contenuta). È stato un modo per tenere in piedi tale società. A tale scopo l’arte d’avanguardia venne sostituita con il realismo socialista. Faccio infine notare come in un simile contesto, anche l’attività condizionante del far fare autocritica abbia ottenuto buoni risultati ai fini del mantenimento della società da esso espressa.

Un’arte esotericamente rivelatrice da cui si possono trarre utili risvolti è, ad esempio e in primo luogo, il dadaismo. Svelando la disumanità nichilistica dell’essere umano, corrispondente tuttavia al suo autentico modo d’essere, consente di incidere in modo efficace e a tutti gli uomini confacente sulla realtà.

Il mondo ha da sempre espresso tre tipologie di classi: aristocrazia, borghesia e popolo minuto (il ceto subalterno e oppresso). Nelle loro forme più pure hanno manifestato tre tipi di cultura: la nobiltà una cultura nichilistica, la borghesia una cultura egoistica, il volgo una cultura umanistica (motivo per cui, ad esempio, tra i culti popolari cristiano, confuciano, animistico dell’africa nera, sussisterebbero quantomeno molte affinità).

Vediamo ora quali tratti culturali abbiano influito nella formazione della vulgata marxista sovietica.

Credere nel moderno materialismo equivale innanzitutto a credere nell’esistenza di una morale universalmente vincolante, anche se ateistica. Ciò nonostante tale morale attinge in parte dal cristianesimo e in parte dall’ebraismo.

Del cristianesimo salvaguarda la sua Humanitas, lasciando da parte i suoi aspetti politicamente conservatori. Se i cristiani di ieri erano dalla parte di un oppressivo status quo, oggi sostengono un inerte pacifismo che non muta ugualmente nulla dello status quo. La formula del ‘porgere l’altra guancia’ non è condivisibile. Il motto biblico ‘occhio per occhio, dente per dente’ è invece ragionevole e sensato. Se, infatti, non ci adeguiamo tutti ai principi etici, di essi cosa ce ne facciamo? Se sorgono mediante un patto politico, chi trasgredisce tale patto come può restare impunito? Leggi dello stato non applicate, a cosa servirebbero?

Vi è da ritenere che l’antico popolo ebraico abbia espresso una cultura più borghese che umanistica. Ciò si evincerebbe in particolare dalla loro antica metafisica, dalla loro teologia, che non emerge tanto nella Genesi, quanto piuttosto nella Cabala. Alla base di tale dottrina vi è un panteismo per il quale Dio risulta essere l’unica realtà esistente: l’uomo deve rispettare, su basi quindi egoistiche, i suoi simili e il creato in genere, in quanto tutto è Dio. Non deve cioè contraddire se stesso. Un filosofo come Spinoza o, ancora di più, Spencer, credo abbiano molto attinto da essa.

Nella Cabala il mondo non viene propriamente creato: esso risulta essere piuttosto un’emanazione della piena luce divina. Dio, per venire incontro alle esigenze dell’uomo, limita la sua capacità di comprensione, rendendo la sua mente finita, in modo tale che possa scorgere dappertutto chiarezza, ordine e distinzione. Pone, ad esempio, dei sigilli, delle chiusure, in ogni possibile direzione, limitando l’ampiezza infinita del cosmo. Non saprei tuttavia rispondere alla domanda del perché Dio, essere perfetto, decida di finitizzarsi.

Un principio dell’ebraismo che il comunismo sovietico ha fatto proprio consiste dunque nella severità giudaica sul piano etico. Il ‘peccatore’ (lo è anche, ad esempio, un politico che ruba) va prontamente punito. Nell’Islam, fra l’altro, fondato dal mercante Maometto, l’ ‘infedele’ equivale perfettamente al ‘peccatore’ di cui si parla nella Bibbia. Ma anche per il resto, il profeta arabo ha probabilmente molto attinto dall’antico credo ebraico.

Cercherò ora assai sinteticamente di individuare alcuni fenomeni costanti riguardanti la storia dell’Occidente servendomi degli strumenti concettuali con cui ho sia potuto criticare che affinare le posizioni del marxismo ortodosso.

L’incremento dell’equa distribuzione di beni in una società capitalistica è stata sempre preceduta da ampie concentrazioni di capitale nelle mani di pochi con il conseguente impoverimento dei soggetti rimanenti di essa. Le soluzioni a tale ricorrente problema storico sono sempre state di due tipi: incremento del welfare oppure una maggiore liberalizzazione dell’economia e della politica.

Nel primo caso le riforme sono state talvolta concesse dall’alto: la tassazione, in tale circostanza, colpirà il ceto medio di risparmiatori per estendere il ceto medio stesso (all’interno del quale subentreranno ad esempio alcuni operai). Oppure un sindacato (più che un partito), più o meno politicamente radicale, colpirà (in base al suo essere massimalista o riformista) più o meno duramente il grande capitale, estendendo socialmente, nel caso che ad aver operato sia stato un sindacato massimalista, il più possibile il welfare state.

Ora, dato che tali tipi di azioni politicamente sociali potranno tutt’al più scalfire chi detiene ingenti capitali (anche se in misura diversa e nonostante talvolta lo possano anche piuttosto sensibilmente), tali detentori costituiranno un problema o un impedimento costante alla realizzazione del più pieno socialismo che sia possibile raggiungere.

Anche un’economia più liberale ha quindi storicamente consentito il raggiungimento di un maggiore equilibrio economico-sociale. Ma, per regola, i colossi industriali hanno troppo capitale per poter venire percettibilmente intaccati dalla concorrenza, qualora essa sia consentita. Inoltre il liberoscambismo è pericoloso in quanto incontrollato, potendo produrre da un momento all’altro, se applicato, gravi crisi.

Per quanto, il puro liberismo avulso da ogni corporativo, burocratico, privilegio di alcuni membri di una società a discapito di altri, costituirebbe il più imparziale criterio di guadagno. È lo stesso Marx ad affermarlo palesemente nella sua Critica al programma di Gotha. Il libero mercato, non privilegiando nessuna peculiarità psichica, fisica e attitudinale nel retribuire, costituisce un criterio di profitto indiscutibile che, se applicato, rende legittimo il fatto eventuale che in una società vi siano persone più e meno abbienti. Tale criterio è il seguente: il valore di una merce è dato dal mio desiderio di averla. Più esso è grande, più alto sarà il valore (monetario o di scambio) di ciò che desidero acquistare. Certamente Marx, nelle sue opere economiche, parla di retribuire in base alla ‘quantità di lavoro’ fornita. Ma ciò è un criterio di parte: perché, infatti, dovrei acquistare qualcosa che non desidero avere, posto che quel qualcosa abbia richiesto molto lavoro per venire prodotta? Nel libero mercato non è inoltre il parametro dell’intelligenza a premiare chi guadagna. Chi infatti ha un gusto mediocre, poco raffinato o poco erudito, oppure banale, essendo a conoscenza di ciò che piace ai più (che hanno i suoi stessi gusti), riuscirà a vendere molta mercanzia.

Concludendo tale digressione sul liberismo, Marx è ben cosciente del carattere autoritario e partigiano del socialismo: tant’è vero che preferisce menzionarlo (sempre nella Critica al programma di Gotha) come dittatura (dispotismo) rivoluzionaria (violenta o comunque autoritaria) del proletariato, che è dunque l’oppressore, nel socialismo, della borghesia.

Tornando a quanto tralasciato, il socialismo vero e proprio (instaurato sulla base di una rivoluzione) lo si è invece avuto unicamente in contesti sia economicamente che politicamente molto arretrati. Se Lenin sostenne teoricamente la possibilità della rivoluzione comunista anche in un contesto politicamente assolutistico ed economicamente a prevalenza agricola, in seguito, forse, si disilluse del tutto circa la possibilità dello scoppio di rivoluzioni comuniste in paesi molto industrializzati e dalle istituzioni costituzionali (sia monarchiche che repubblicane).

I vari fenomeni che ho appena concluso di descrivere costituiscono a mio parere delle leggi storiche invalicabili, destinate dunque a ripetersi laddove se ne ripresentino le condizioni determinanti. La possibilità di future rivoluzioni credo sia, quantomeno possibile, unicamente nei paesi del terzo mondo: più esso si emanciperà, minore diverrà la ricchezza degli intoccabili (o quasi) grandi detentori di capitale.

 

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