“Ottava Stazione”, poesia inedita di Sonia Caporossi dalla silloge in fieri “Stazioni della Croce”

Sonia Caporossi

Di SONIA CAPOROSSI

OTTAVA STAZIONE

Li mettiamo a parte?
Li mettiamo a parte
I nostri pigri contemporanei
Sotto le convergenze livide del cielo
Di cosa è evanescente e cosa invece rimane
Nell’indolenza politica di un magro versificare
Oggi, così, di sottecchi, d’inenarrabile noia
Che sgorga avvilente e svilita
Nell’amarezza di ogni vana ipocrisia?

Li rendiamo a parte
I contemporanei (non dico i lettori, ma i monstra
Che s’arrabattano per fame nell’infamia del cercar fama)
Di quanto ridicola è la posa
Di quanto prosaica la spesa
Di quanto ignobile la poesia?

E li vogliamo mettere a parte
Di tutto questo, ed anche di più
I pescivendoli della maniera?
I cerchiobottisti del verso
I barbitonsori del circolo estetico inverso
La solitaria sincope di ogni sterile anacrusi
Che s’accatasta acclamata con palco, leggio e videotape?

Che cosa resta alla poesia
Alla diversità di un percorso personale
Al sentiero che cambi ogni giorno
Al sassolino nella scarpa che infastidisce il cammino
Alla telefonata di auguri, di scuse,
“Che gran libro!” e a mezzabocca
“l’ultima silloge non m’è piaciuta”
Alla pertinenza impertinente
Con cui inciampi nella realtà
Con cui cadi, ti rialzi, t’arrendi alla resa che dice
Che tu poeta non sarai mai
Proprio perché lo sei troppo, troppo te stesso
Troppo di te adesso?

Quel percorso che ti fa dire “qualcosa rimane”
“bisogna mettersi a parte”
“bisogna tornare a parlare
“la poesia, vedete, si deve…”
“la poesia, sappiatelo, è fame…”
al cupo iconoclasta battagliero
Rivelatore, mergiforme, ossesso
Che ribadisce la propria inquisizione
Come un Occam che rade se stesso
E nella barba ritrova l’arkè
il natale inconfessato di ogni sperimentalismo ignavo
Il turgido muschio che solo pasce il gregge
Dei poeti laureati con la stoppia del presepe
Di cui – bada bene – egli è l’unico vicario in Terra?

Li vogliamo mettere a parte
O metteranno da parte noi?
O metteranno in porta noi
A prendere goal a vagoni
Rimbrotti di tacco e di punta, ché tanto
“chi mai vi credete di essere”
Ché tanto si è critici impuri, e forse
Nell’immaginario, al dettaglio
Impuri vuol dire coglioni?
E chi vuoi che io metta da parte
Chi vuoi mai che io salvi dal novero
Dall’arca di Noè cannoneggiata?
“Colpito!” “Affondato!” “bomba a vuoto!”

Perché i poeti son microcitemici
col gene malnato, col verso talassemico
E a riprodursi, guai! Si rischia l’anemia
Il vuoto coronarico, il verso smunto, esangue
L’allegra baldanza del niente
Cascame d’ovatta a mascherare l’impotenza
Nel glabro cotone macchiato
di certe slabbrate mutande
dalla cui vista io vorrei solamente
col sapone e l’antimacchia
che voi vi metteste in salvo
per la cui svista io vorrei solamente
con acribica antispocchia
nell’impurezza in cui indugio malamente
che voi vi metteste
da parte.

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