Luca Bernardi: “Medusa” o i tentacoli urticanti dell’ineffabile

Luca Bernardi, "Medusa", Tunuè 2016
Luca Bernardi, “Medusa”, Tunuè 2016

Di SONIA CAPOROSSI

Luca Bernardi (Bolzano, 1991), una vecchia conoscenza del blog Collettivomensa, entra nella scuderia di Tunuè facendo emergere dal proprio labor limae e dall’attitudine empiristica di un narratore che non teme idiosincrasie, un romanzo nuovissimo nel suo  risultare incatalogabile dal punto di vista strutturale e narratologico proprio in virtù dell’uso non pedissequo di un linguaggio dal mimetismo tentacolare e polimorfo.

Se volessimo partire analizzando la struttura, dovremmo esordire dicendo che il romanzo si dipana attraverso due rette parallele rappresentate dai due mari in cui si sviluppa l’azione, il Tirreno e l’Adriatico, che simboleggiano quasi il rifugio amniotico del protagonista, un ragazzo spostato di cui all’inizio non si sa individuare nemmeno l’età: l’elemento disturbante consiste proprio nelle modalità narrative, soprattutto linguistiche, attraverso cui viene presentato l’io narrante.

Questa doppia partizione topologica del romanzo sembrerebbe, dapprincipio, dar luogo alla struttura tipicamente scansionata per sezioni di progressivo avanzamento propria del Bildungsroman più tradizionale, e tuttavia rivissuto alla luce di un tentativo di ambientazione e fluenza narrativa postmoderne e impeti di surrealismo puro, da cui deriva uno straniamento sklovskijano continuo, raggrumantesi soprattutto nell’usus e nell’habitus di linguaggio espressionistico sì, ma non barocco, se è vero, com’è vero, che fa della paratassi la propria struttura sintattica ossessiva. Questo espressionismo linguistico occorre al narratore per mettere sul tavolo dell’ermeneusi simbologie e figurazioni aliene, e infatti “alieno” è la parola tema di Medusa, giacché le entità extraterrestri che fungono da coprotagonisti ideali e contemporaneamente motori dell’intreccio, hanno la bizzarra occupazione di commerciare col protagonista in sensazioni ed emozioni, e rappresentano intromissioni disturbanti e surreali, vere e proprie epifanie dell’altrove, dotate della stessa funzione narrativa “alienante”, appunto, che in certi film di David Lynch assumono personaggi come l’uomo misterioso con la cinepresa di Lost Highways, l’uomo nero nel retrobottega di Mudholland Drive oppure Bob di Twin Peaks.

Il plot si sviluppa intorno al tentativo massimalistico del protagonista di catalogare le grammatiche esistenti e scrivere un Dizionario Semiologico Abissale che possa raccontare, spiegare, definire le parole che non possono essere dette, in un cortocircuito semiotico ed estetico di ineffabile bellezza metafisica e difficoltà, superando così la logica del nostro sistema di riferimento mentale passando-attraverso una logica altra: quella dell’Abisso.

La visione del mondo che ne deriva è una prospettiva grandangolare deformata come attraverso lo scafandro del palombaro: la percezione sensoriale e i processi di deduzione logica vengono esasperati, il reale è distorto e collide su se stesso attraverso l’intrecciarsi ineffabile di stringhe quantiche invisibili. Il tentativo del protagonista di patteggiare con gli alieni il commercio di sentimenti come l’amore, nel passaggio da un mare all’altro, consiste, a ben vedere, in un tentativo continuamente percorso per gradi di tornare nel passato e soprattutto sotto la soglia del rimosso e, forse, del rimorso e del senso di colpa. Lo stordimento del lettore che ne deriva emerge proprio dal modo di raccontare e di essere del protagonista, un protagonista non accattivante, né eroe né antieroe, bensì bizzarro e scostante ai limiti della crudeltà, in cui il lettore stenta a volersi identificare nonostante l’io narrante perché nella sua personalità disturbata egli oscilla in continuazione tra realtà e surrealtà, tra spiagge e creature aliene, nel reiterato dirigersi verso un quid che però a sua volta rimanda sempre a una circolarità cronotopica che semina le tracce della significazione univoca delle cose e fa smarrire chi legge nei sentieri dell’errore percettivo e interpretativo.

Uno degli errori e degli sviamenti coatti magistralmente condotti in porto dall’autore è quello relativo alla comprensione delle caratteristiche e della personalità del protagonista, che possiede un’età non immediatamente identificabile: si tratta di un dodicenne o di un venticinquenne? È un idiota o semplicemente una persona profonda, un genio, un intellettuale incompreso, uno scienziato pazzo? Che rapporti intrattiene coi cosiddetti amici, che sembrano a più riprese temerlo e contemporaneamente non riescono a esimersi dal deriderlo in quanto spostato? A un certo punto, si capisce finalmente che abbiamo a che fare con un venticinquenne disadattato con manie di grandezza, ma fino ad allora, lo smarrimento del lettore è sommo.

Nel neomassimalismo di Luca Bernardi, in cui vigono concrezioni di forma e contenuto che si compenetrano alla perfezione, la figura archetipica del Matto dei tarocchi prende calore, colore e impianto attraverso gli occhi, gli orecchi e la parola di un disadattato che apre ininterrottamente la realtà a squarci di misticismo dell’indicibile e di visioni metafisiche in cui l’alfa e l’omega del cosmo si rincorrono in una ricerca esoterica infinita.

Per ottenere questo risultato espressivo, lo stile viene scandito in modalità scrittorie distinte, la sintassi è franta, quasi da prose-poem, il periodare è schizoide e continuamente interrotto. Le continue digressioni, le follie e le folgorazioni di cui è cosparso il testo lo rendono godibile anche ad una ipotetica lettura al contrario: si tratta di una letteratura di ricerca che non necessariamente coincide con uno sperimentalismo amorfo e anaffettivo, anzi, al contrario costringe il fruitore a calarsi nel vortice emotivo dei personaggi.

Il vero nucleo tematico del romanzo, a ben vedere, è quest’interesse ossessivo e morboso che il protagonista prova nei confronti del linguaggio: il Dizionario Semiologico Abissale che egli scrive come propria “Opera Infaticabile”, per usare un’espressione del compianto Emilio Garroni, in realtà nasconde un acronimo epifanico, come rivela lo stesso autore in un’intervista: DSA, Disturbo Specifico dell’Apprendimento. Come dire che la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia sono metodi ermeneutici di filtrazione della realtà agli occhi degli animali planctonici che vivono negli abissi della significazione come le meduse, nella dicotomia tra Sinn e Bedeutung, aberrante, mistificatoria e continuamente a rischio di fallimento nella sua missione primigenia inarrivabile: quella di definire esteticamente, via via che siamo nell’esperienza e ne percorriamo i tratti, il senso concreto e concrezionale delle cose.

In un tale superamento dei limiti del linguaggio, nel cammino a ritroso dalla linguistica alla filosofia del linguaggio e poi sempre più indietro verso il nucleo primigenio dell’estetica, si rintraccia pura e semplice paranoia o una scienza segreta delle supreme leggi del cosmo?

All’interno del Dizionario Semiologico Abissale, si può ravvisare chiaramente una tale tematizzazione nel tentativo di rintracciare le articolazioni e le modalità espressive dei mammiferi, dei pesci, dei celenterati e delle meduse, fino alla totale Dissipatio Linguae. Tra la Versilia e l’alterità del mare Adriatico, il rapporto con l’acqua marina è di tipo amniotico, richiama quasi alla memoria certe pagine surrealiste “abissali” di Alberto Savinio dedicate alla “Tragedia dell’infanzia”, laddove, freudianamente, il tema dell’inorganico, la liquefazione della psiche fino alla calma piatta del mare scivolano e si convertono impercettibilmente nella tematica della follia.

Il Folle, in fondo, non è altri che un saggio il quale vive sotto la soglia della realtà e sopra le righe della metafisica, un po’ come accadeva già in alcuni personaggi di Paolo Volponi, fra i più incisivi spartiacque della letteratura del Novecento: Albino Saluggia in Memoriale, Anteo Crocioni in La Macchina Mondiale. Tutti hanno in comune con il protagonista di Medusa l’elemento della follia e dell’asocialità che permette loro di vedere più chiaramente attraverso un grandangolo deformante i dettagli apparentemente più insignificanti della verità insita nel reale. Ecco che il dialogo continuo del protagonista di Medusa con la voce in corsivo che parla con lui per tutto il libro e ne rappresenta quasi l’alter ego schizomorfico non è altro che il monologo della sua coscienza malvagia, e l’attitudine ad autointervistarsi non è a sua volta altro che il tentativo patetico che il protagonista mette in campo per sentirsi grande e importante, nonostante la titubanza dell’Editore del Dizionario.

Come dire che la stortura schizofrenica di un Doppelganger che scava nel doppio fondo delle cose è il tracciato di significanza che dobbiamo percorrere per penetrare a fondo non solo questo libro, ma il senso stesso del nostro essere-nel-mondo, a rischio altrimenti di perderci per le autostrade ben più circoscritte e rassicuranti di una dimensione noiosa e avvilente perché pacifica, pacifica perché già data anapoditticamente per buona.

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