Verità, scienza e potere: incursioni filosofiche fra vecchi e nuovi paradigmi nello stato d’emergenza del terzo millennio. Pars construens

Scienza e filosofia
Scienza e filosofia

Di LENI REMEDIOS

[continua dalla pars destruens:

https://criticaimpura.wordpress.com/2013/05/01/verita-scienza-e-potere-incursioni-filosofiche-fra-vecchi-e-nuovi-paradigmi-nello-stato-demergenza-del-terzo-millennio-pars-destruens/]

PARS CONSTRUENS: Il Tutto e le parti ovvero come superare le contraddizioni del nostro tempo attraverso un modo nuovo e antico di pensare ed agire?

Vero è che la filosofia, sin dai suoi albori, è sempre stata caratterizzata da una forte tendenza “olistica”, che mirava a fare una sintesi organica della realtà e, dall’altra parte, il mondo antico ci ha consegnato spesso figure di filosofi che nella loro persona incarnavano questo sforzo unitario, in un doppio movimento: occupandosi di quelle che noi oggi chiamiamo “le scienze esatte”, come la matematica, la geometria, la fisica, l’astronomia e sforzandosi di fare del proprio pensiero filosofico una pratica di vita.

Con il tempo la filosofia occidentale si è sempre più inevitabilmente specializzata ed ha sempre più accentuato la sua componente logico-concettuale – prendendo le strade preferenziali dell’epistemologia o di una teoretica spinta – o quella filologica di storia della filosofia, incarnata per lo più nella figura dell’insegnante, ma ha quasi messo da parte, clamorosamente direi, il suo aspetto più vitale: quello che la rende una pratica di vita. Potremmo dire, con una parola, che è stata messa in ombra la saggezza, la sophía.

Oggi come oggi, è possibile che un uomo o una donna possano essere intellettualmente molto preparati in termini di teorie filosofiche ma dal punto di vista personale molto lontani dall’essere ritenuti dei saggi.

Il problema non è da poco, dai più non è nemmeno sentito come problema, ma per fortuna qualcuno se l’è posto in termini molto seri [1].

Ora si dirà: cosa centra questo con tutto ciò che si è andati discorrendo sinora?

Illuminanti, da questo punto di vista, possono essere le riflessioni del fisico Emilio del Giudice e torniamo qui alla fusione fredda. Nello spiegare la differenza fra l’approccio tradizionale – ancorato alla fusione calda ed alle centrali nucleari – e le nuove procedure, la differenziante fondamentale è questa: nel primo approccio si cerca di far fondere i nuclei nel vuoto, ovvero li si strappano dal loro contesto, li si isolano; in questo modo i reagenti incontrano molte resistenze, per superare le quali occorre molta forza, quantità enormi di energia, impianti molto grandi e pericolosi, che producono tra l’altro scorie difficilmente smaltibili. Nel secondo caso, invece, vengono sfruttate le proprietà collettive della materia, nella fattispecie il reticolo metallico di palladio o altri materiali, proprietà che abbassano le resistenze di cui sopra, senza utilizzare elevate dosi di energia e senza produrre scorie. Insomma, lo stesso risultato viene ottenuto nel primo caso con la forza, nel secondo caso con la persuasione. 

Il primo approccio esemplifica perfettamente l’atteggiamento fondamentale non solo della fisica contemporanea, ma di tutta la scienza: estrapolare gli oggetti, gli elementi dal loro contesto e così analizzarli o cercare di metterli in relazione una volta isolati, secondo il principio che Del Giudice chiama “il pregiudizio ontologico” della scienza tradizionale, per cui  una cosa è quel che è in se stessa, separata dal contesto. Ricerche dimostrano invece che le particelle elementari isolate si comportano alquanto diversamente rispetto a quando sono connesse le une con le altre e ciò trova dei riscontri sorprendenti non solo in fisica, ma anche in biologia molecolare [2].

Ora, Del Giudice fa spesso presente come il modo scientifico tradizionale di accostarsi al reale rifletta il modo in cui la società borghese – ma noi potremmo usare la definizione allargata di società moderna – abbia inteso e definito i rapporti fra i suoi componenti, ovvero isolando sempre di più le persone fra loro ed intervenendo fra i soggetti tramite un utilizzo considerevole della forza, che non è da intendersi solamente dal punto di vista fisico, ma comprende tutto quell’insieme di pratiche – esplicite o subliminali – che mira a costringere un gruppo di umani più o meno vasto a seguire una determinata direzione prestabilita da altri gruppi di umani.

Vale la pena ricordare qui, nel fare il parallelo con la mentalità scientifica, una di quelle figure spesso evocate assieme alla compagine Galileo-Copernico-Bruno e che, come loro, viene evocata per poi essere in realtà consciamente o inconsciamente negata: il premio nobel per la fisica Richard Feynman: “Quelle che sono le caratteristiche della natura non devono essere determinate da pretenziose condizioni aprioristiche, ma dal materiale con cui lavoriamo, cioè dalla natura. Noi guardiamo, vediamo quello che troviamo, e non possiamo decidere in precedenza quello che deve essere. […] Per l’esistenza stessa della scienza è necessario che esistano delle menti che non ammettono che la natura debba soddisfare delle condizioni preconcette” [3].

È interessante qui tornare alle riflessioni di Emanuele Severino, per il quale la società attuale, nel suo assetto capitalistico e democratico, è il contesto ideale per il pieno svolgimento dell’Apparato tecnico-scientifico, in quanto quest’ultimo ha bisogno, come abbiamo visto, di scalzare via qualsiasi tipo di autorità che ponga dei limiti al suo svolgimento, cosa che non può avvenire in uno stato autoritario “[…] il criterio democratico della maggioranza è congruente al carattere statistico-probabilistico che le leggi scientifiche hanno ormai assunto” ed aggiunge, sottolineando la connessione fra filosofia ed esito socio-economico-politico contemporaneo: “Il pensiero filosofico del nostro tempo spinge la crisi della tradizione alla sua forma estrema e stabilisce e assicura lo spazio in cui la tecnica può muoversi liberamente” [4].

Tuttavia nello stesso tempo, come abbiamo ancora visto,  la società è andata verso un sempre maggiore individualismo, accompagnato in campo scientifico da una sempre maggiore specializzazione/frammentazione del sapere. E siamo arrivati qui al punto critico, sottolineato da Charlton: lo stato ottimale in cui la specializzazione ha avuto un senso e un ruolo fondamentale, si è risolto in una specializzazione sterile che ha perso di vista l’intero.

Così nella scienza come nella società, abbiamo perso il legame con il tutto, il senso delle interrelazioni. E non è solo una questione di opzione concettuale: è anche pericoloso, perché chi è ignaro delle interconnessioni e guarda solo al risultato particolare, non sa che può innescare pericolose conseguenze al di fuori dello stretto contesto in cui opera. Se io, per esempio, non so le conseguenze di un massiccio disboscamento, continuerò a tagliare alberi per soddisfare lo scopo particolare di fabbricare carta, case, mobili, etc.

Ma c’è di più: qui ancora può intervenire in dose massiccia il potere politico-economico perché, caro lettore, è da ingenui pensare che il potere ignori completamente l’evenienza di creare conseguenze pericolose attraverso i propri interventi particolari. Sono anzi dell’opinione che i più sappiano benissimo ciò di cui si macchiano, tuttavia, per riprendere parole citate più sopra, si vuole sfruttare lo sfruttabile fino all’ultima goccia, anche a costo di mettere a repentaglio la propria esistenza e in questo risiede una certa incoscienza del potere.

L’incoscienza si spinge anche oltre: secondo alcuni studiosi, le straordinarie scoperte sulla fusione fredda sarebbero state messe al servizio del potere militare, per perseguire scopi diametralmente opposti, ovvero scopi di morte. Aggiungiamo alla lista, così, un altro di quei paradossi che albergano all’apice della nostra civiltà: governi occidentali che con una mano – e davanti a tutto il mondo – invitano caldamente gli altri paesi a rispettare i trattati di non proliferazione, mentre con l’altra mano, nascostamente, mettono a disposizione dei propri apparati militari armi nucleari di finissima fattura, con l’aiuto e la complicità del mondo scientifico [5].

Estrapolare, frammentare, spezzettare la realtà ed utilizzare i frammenti per asservirli ai propri scopi. Qui si è andati anche oltre perché quello che si è estrapolato è stato “rubato” ad uno studio che poggia su una base concettuale opposta, che tiene conto delle interazioni armoniche della realtà ed ha in mente, in parallelo, una società che poggia su basi analoghe e che possa godere positivamente di queste straordinarie risorse. In questo senso forse è un primo interessante incontro-scontro fra due approcci diversi, che mostra in maniera evidente ed esemplare le reciproche caratteristiche fondamentali.

A questo punto appare chiaro quali siano i tratti fondamentali di queste due mentalità, e qui vorrei invitare a fare un salto col pensiero e ad estendere il ragionamento al nostro modo di intendere la realtà in generale, tenendo conto delle osservazioni di Del Giudice sulla società: la mentalità scientifica tradizionale, nonostante gli scenari aperti dalla fisica quantistica, rimane più o meno inconsciamente legata, ancorata, ad un modello meccanicistico, newtoniano della realtà, in cui ogni costituente – dagli atomi, agli esseri viventi, fino alle stelle – è un’individualità irriducibile, fatta di materia solida, separata da tutti gli altri ed interagisce con le altre parti tramite delle forze esterne [6].

Insomma, per rafforzare ulteriormente l’immagine: come se ogni pezzetto di realtà fosse avvolto  da un velo impermeabile che lo rende indipendente ed impenetrabile da tutto e da tutti. In questo estremo isolamento, ogni parte della realtà è sempre uguale a se stessa, immune alle interazioni che instaura (il pregiudizio ontologico di cui sopra); la mentalità soggiacente ai nuovi paradigmi poggia invece sulla consapevolezza che tutto sia in relazione contestuale con le altre parti, sulla base di riscontri scientifici precisi che elencheremo brevemente poi. Ecco perché parlo di consapevolezza, non di fede e nemmeno di convinzione: è importante ricordare qui che non si tratta di speculazione, ma di teorie scientifiche comprovate.

La tendenza allo spezzettamento ed all’isolamento delle parti in scienza è quindi speculare alla deriva individualistico-atomistica della società attuale che, come abbiamo visto, anche nella promozione sacrosanta dei diritti ha sempre avuto in mente l’individuo come un essere indipendente, slegato dagli altri esseri umani, dagli altri esseri viventi e dal mondo.

Per questo motivo l’individuo figlio di questa mentalità è un essere costantemente in lotta: in lotta per affermare i propri diritti, per conquistare la propria libertà che, lungi dall’essere intesa come una promozione delle proprie individualità in armonia col tutto, viene intesa meramente come una sfera d’azione che finisce laddove inizia la libertà degli altri; in lotta con parti di se stesso che trova disturbanti; in guerra con sintomi patologici che vorrebbe subito eliminare qui ed ora.

Insomma, parliamo di una società i cui elementi sono in perenne opposizione gli uni verso gli altri. Riecheggia nelle orecchie il motto hobbesiano homo homini lupus.

Per riassumere il tutto, ecco il quadro della cultura dominante, concetto da cui siamo partiti: in ambito scientifico abbiamo una frammentazione ed un isolamento estremi, in cui intervengono delle forze a far interagire le parti con la violenza, secondo delle previsioni prestabilite; a ciò corrisponde, in ambito socio-economico-politico, un assetto in cui delle forze centrali cercano di applicare con la violenza (da considerare, ricordiamolo, in tutti i suoi aspetti) i propri piani prestabiliti ad una società frammentata, intervenendo per “sedare” o “fare interagire” gli individui isolati con sovrastrutture calate dall’alto; queste forze hanno bisogno, per quanto riguarda l’ambito psichico, che i soggetti già isolati siano degli individui “infinitamente desideranti”, per applicare in pieno il programma capitalistico-consumistico, suggellato dall’apparato tecnico-scientifico: insieme essi tendono ad una “produzione infinita” dei beni di consumo, la quale, per poter automantenersi, ha bisogno di trovare sbocco in soggetti che desiderano all’infinito [7]. Quale lessema è mai stato più tristemente azzeccato per definire la razza umana degli ultimi cinquanta, sessant’anni se non quello di “consumatori”?

E in ambito filosofico? Come reagisce il pensiero filosofico di fronte ai sussulti dei nostri tempi? Qui abbiamo un panorama piuttosto confuso, in cui il processo di abbattimento degli assoluti e la conseguente frammentazione – che rispecchia quindi l’andamento generale del sapere e dei processi storici – ci lascia ancora tutti frastornati ed afasici. Insomma, ancora dobbiamo riprenderci dalla sbornia di nichilismo e relativismo che ha aperto la porta a miriadi di circonferenze ma ha tolto tutti i centri, sull’onda del mantra nicciano “tutto è interpretazione”.

Eppure è proprio qui che intravvedo la chiave del cambiamento: è proprio la consapevolezza di questo scentramento il refrain che comincia a farsi strada nelle comunità filosofico-intellettuali degli ultimi anni. “L’inghippo logico”, il “pasticcio del linguaggio”, così lo evidenzia Sonia Caporossi proprio da queste stesse colonne “[…] quanto può risultare stridente la frase attraverso il cui enunciato un nichilista relativista affermerebbe di essere assolutamente convinto che tutto è relativo?” [8] ed ancora, con una metafora efficace, sostiene, riguardo alla filosofica “morte dell’uomo”  “[..] per dar morto qualcuno occorre  uno che dal di fuori gli scriva il necrologio, uno che sia vivo vegeto e pulsante: io sono morto. Dunque, se lo dico, sono morto o son vivo?”.

Come dire: se tutto è interpretazione, anche la stessa frase “tutto è interpretazione” è un’interpretazione, e così via all’infinito, in un vertiginoso rimando senza fine che può portare alla follia (non sorprendentemente esito finale della vicenda umana di Nietzsche).

Eppure, alla “distruzione degli assoluti” soggiace una sana intuizione dell’azione critica: l’idea che una parte di umanità ritenga di detenere la verità, che è quindi universale, valida per tutti, è una contraddizione. “Questo ci rende guardinghi e accorti: sappiamo di aver immolato alla verità greco-romana, cristiana o del progresso, o comunista, o dell’umanità civile, o del capitalismo, ecatombi di popoli, di animali, di foreste, di mari. In una creazione alla rovescia abbiamo affermato un dominio per la morte, protetto dalla buona coscienza di una vita migliore” [9].

Certamente tutto questo deriva dal nostro modo di intendere la realtà come un insieme di unità indipendenti che sono l’una contro l’altra, esattamente come essa viene intesa nel paradigma newtoniano-meccanicista.

Ecco perché questa riflessione tocca un tasto cruciale, ma a mio avviso non è sufficiente affrontarla in termini logico-razionali, poiché in questo caso sarebbe inevitabile un rimando all’infinito nel “gioco interpretativo” o il paradosso per cui il cadavere compiange se stesso. Alla domanda filosofica fondamentale: “Ma allora, su quali basi si fonda una qualsivoglia argomentazione che pretenda di rendere ragione?” mi piace porre l’accento non tanto sulla risposta che ci si aspetta – il fondamento – ma su quel pretendere di rendere ragione.

È proprio su questo che invito a spostare la riflessione, riprendendo la metafora panikkariana del fucile della ragione. In questo senso lungi da me pormi in contrapposizione, vorrei invece apportare un contributo, non certo mio originale, proveniente in gran parte dalle pratiche filosofiche: esse abbracciano una via – che si potrebbe definire una sorta di “spiritualità laica” – inglobante il portato delle idee psicoanalitiche, degli approcci mistico-spirituali di ogni tempo, nonché delle grandi scuole filosofiche antiche, rinnovate dallo spirito del tempo, in un tentativo di recuperare la sophía, la saggezza, innervante da sempre la filosofia nonostante i suoi tentativi di rimozione [10].

Lo faccio partendo innanzitutto dall’apporto fondamentale della psicoanalisi, ma ancor più della psicologia analitica junghiana, allo sviluppo culturale degli ultimi cent’anni circa, sull’onda del celebre motto freudiano per cui “l’Io non è padrone nemmeno in casa sua”. Ovvero la piena consapevolezza che esistono due forme del pensare: quello razionale (o dialettico, logico, concettuale) e quello simbolico-figurale [11].

Uno dei grossi contributi di queste discipline è stato nel dare pieno status scientifico al secondo linguaggio: “La razionalità, almeno nella vita vissuta, deve confrontarsi con un territorio di forze che le rimangono oscure perché si esprimono in un linguaggio differente, spesso alieno” [12]. Amo dire che la filosofia ha commesso sovente il grosso errore di rivolgersi ad un uomo monco, rimuovendo dall’umano una sua parte fondamentale, quella costituita dal coacervo passionale-emozionale, da sempre considerato inferiore rispetto alla razionalità; intuizione che già il grande Edgar Allan Poe aveva puntualizzato prima della psicoanalisi nelle sue brillanti pagine sulla perversione [13]. Una straordinaria e gigantesca operazione di rimozione culturale ci ha lasciati in preda ad una esasperante volontà raziocinante, che tenta disperatamente di ricomporre una realtà frantumata dai nostri stessi concetti, e ci ha peraltro destinati a ripetere il male lasciato in ombra, perché mai elaborato, mai compreso [14]. Ciò si lega alla riflessione critica sulla struttura logica del nostro pensare razionale che, come abbiamo spesso ripetuto, concepisce la realtà come costituita da termini in opposizione fra loro e che quindi si escludono reciprocamente. Si può uscire da questo corto circuito se si incomincia finalmente a pensare alla verità come a qualcosa di diverso dal “negativo del negativo” [15], alla libertà come a qualcosa di diverso dall’assenza di legami, alla giustizia come qualcosa di diverso dalla soppressione o isolamento degli individui che violano la legge, all’equilibrio psichico come diverso dalla rimozione o negazione dei contenuti disturbanti, al sintomo patologico come qualcosa di diverso da un elemento maligno da annientare immediatamente.

Con una precisazione importante: così come, in fisica, il paradigma meccanicistico-newtoniano non viene rigettato ma viene ritenuto semplicemente insufficiente per un’indagine completa della realtà, allo stesso modo qua non s’intende rigettare il grandioso contributo delle facoltà razionali. Si tratta di riflettere sul fatto che la realtà è troppo complessa per essere riconducibile ad una formula logico-razionale. Si tratta di operare un tentativo di ulteriorità e ri-comprensione del razionale in un movimento più ampio.

Questo è infatti uno dei grossi nodi che differenziano le due mentalità: un pensiero che vuole essere inclusivo cerca di comprendere “l’altro da sé”, evitando la contrapposizione pur riconoscendo le differenze.

La mentalità oppositiva, invece, per definizione ragiona secondo modalità escludenti, che fanno riferimento in primis al principio filosofico di non contraddizione, secondo cui due attributi diversi, sotto lo stesso aspetto e nel medesimo tempo, non possono essere riferiti ad uno stesso oggetto. Non si vuole qui certo sminuire l’asse portante della logica, ovvero il principio di non contraddizione ed il relativo, fondamentale, processo elenctico. Tuttavia, oltre a non essere l’unico metro della realtà come abbiamo visto dai due modi del pensare, esso stesso contiene le potenzialità per un suo autosuperamento in grado di “disinnescarne la carica negativa” [16]

Sono importanti queste distinzioni, al fine di evitare fraintendimenti ed in questo modo ci consentono di intravvedere, tra l’altro, il cammino ideale indicato dalle grandi tradizioni mistiche: lungi dal proporre un accoglimento del tutto in un generico buonismo o in un amore indifferenziato, totalizzazione che può avvicinarsi in certi casi alla psicosi,  esse riaffermano con forza il valore di ogni momento e di ogni componente dell’esistente, anche di quelli negativi, così come sono [17].

La fisica quantistica, dal canto suo,  già dai primi anni del secolo passato, aveva in qualche modo sconquassato i criteri concettuali comuni, osservando con sconcerto il comportamento ambivalente delle particelle: “Già, è la domanda di Planck, ma quando queste palline si muovono come fanno a simulare aspetti ondulatori, come la diffrazione e l’interferenza? Ecco una tremenda difficoltà concettuale con cui i fisici si dovranno misurare lungo tutto l’arco del ‘900” [18].

La dualità onda-particella, una contraddizione inesplicabile nei termini tradizionali, è una delle novità rivoluzionarie fondamentali introdotte dalla fisica quantistica.

Ma essa verrà accolta dalla maggioranza degli scienziati, Einstein incluso, in un modo quantomeno ambiguo, dando luogo ad uno strano ibrido “[…] il modo più naturale  di concepire il campo elettromagnetico quantistico era quello di  pensarlo costituito dai suoi fotoni-palline, moderna rivisitazione delle idee di Newton. Purtroppo questa visione della fisica dei quanti che ben presto divenne dominante, doveva dare la stura ad una serie di difficoltà e paradossi, che dopo circa un secolo non hanno una soluzione” [19].

Non a caso sarà la cosiddetta scuola di Copenaghen, facente capo a Niels Bohr, a prevalere: un approccio statistico che, lungi dal mettersi in stretta osservazione della natura, cerca di ricondurla a “procedure e artifici di calcolo (assecondati negli ultimi tempi da massicci investimenti nel calcolo elettronico) la cui validità va solo determinata sulla base del successo pratico” [20]. In perfetta consonanza con lo spirito filosofico dei tempi: calcolo, determinismo, volontà interpretativa che piega la realtà ai suoi criteri.

Ma tutti i nodi vengono al pettine, recita il detto popolare.

Ed un grosso nodo emergerà in un altro momento sconvolgente per la storia della scienza  e della cultura, ovvero nel cosiddetto paradosso di Einstein, Podolski, Rosen (EPR): se una particella viene disintegrata in due fotoni, questi prendono direzioni opposte. La cosa sorprendente è che, nell’osservazione del loro movimento rotatorio, lo spin, si noterà che “i due fotoni, visti come particelle, continuano ad essere correlati anche quando la loro distanza è tale da non permettere lo scambio di alcuna informazione” [21].

In poche parole, ci troviamo di fronte ad una circostanza non più spiegabile in termini di causa ed effetto; i due fotoni sono intrecciati da una relazione non causale, stato che viene definito in fisica dal termine inglese entanglement (intreccio), che non è il prodotto delle due funzioni d’onda, come ci si aspetterebbe secondo il paradigma vigente: è palese che la fisica newtoniana non è più sufficiente per spiegare la realtà.

Quest’ultimo esempio fa riecheggiare un concetto familiare in altri ambiti: quello di sincronicità elaborato da Jung, ovvero una connessione significativa fra stati psichici ed eventi della realtà esterna,  non spiegabile in termini causali [22]. A questo proposito è bello notare come la storia, nonostante le resistenze nell’accogliere paradigmi nuovi, sia solcata da profondi intrecci umani, che dimostrano l’ottusità di alcune vedute ristrette: è il caso del proficuo rapporto amicale  e professionale fra lo psicologo Carl Gustav Jung ed il fisico Wolfang Pauli proprio sul concetto di sincronicità.

Ma la storia della scienza vedrà nel tempo l’inevitabile introduzione del superamento di un’altra dualità: quella fra materia e campo. Nonostante la forte tendenza improntata dalla scuola di Copenaghen ad occuparsi essenzialmente di particelle elementari, come si evince anche dalla quasi ossessione che pervade la ricerca in questo senso e l’ingente stanziamento di fondi relativo, la naturale progressione della fisica quantistica va verso tutt’altra direzione, che trova forse l’espressione più adeguata ed articolata  nella Teoria Quantistica dei Campi: mentre la tradizione vuole, come dire, ricercare disperatamente una “fissità” almeno nei punti-particelle, il nuovo corso mostra che la realtà  è un insieme (infinito) di campi caratterizzati da continue oscillazioni quantistiche, che in determinati ambiti e condizioni si conformano secondo una coerenza, non secondo disposizioni casuali da intercettare secondo calcoli probabilistici. Insomma, per riassumere e concludere “l’aspetto particellare della materia viene dissolto in quello ondulatorio, in una dinamica collettiva e coerente in cui i singoli atomi e molecole perdono la loro individualità per formare con il campo elettromagnetico, non più una somma di modi fotonici incoerenti […], ma un insieme armonico capace di organizzarsi in strutture meravigliose e sottili” [23].

Infine non si può non fare i conti con un attore straordinario, che fa la sua comparsa in nuova veste: il vuoto. E qui arriviamo a quella che io considero una vera e propria bomba filosofica. Il vuoto, sostrato fondamentale di tutti i processi fisici, arriva in nuova veste perché sinora era sempre stato considerato come una convenzione matematica priva di realtà, mentre negli ultimi anni la nuova fisica quantistica scopre che esso non solo è, come dire, lo “sfondo originario” di tutte le interrelazioni, ma è anche la matrice di ogni possibile produzione o privazione di energia, una sorta di contrabbandiere, per usare un’espressione cara a Del Giudice.

Bisogna fermarsi un attimo e riflettere sulla situazione paradossale del paradigma tradizionale: esso voleva far poggiare tutta la realtà esistente su un’ipotesi matematica non esistente. Sarebbe come dire che il tessuto connettivo, su cui si svolge tutta l’attività biologica del nostro organismo, non esiste. Del resto, per dirla alla Severino, nessuna sorpresa: a una cultura che accetta che le cose vengano dal nulla e ci ritornino, non risulta contraddittorio che il reale si svolga sullo sfondo di qualcosa che non esiste. Esaminiamo qui le parole di Preparata: “Il vuoto perde per sempre lo status classico di negazione dell’essere, per assumere quello di matrice dell’essere: lo stato da cui tutto il mondo sensibile si costruisce per successive transizioni (o eccitazioni) quantistiche” [24]

Si delinea quindi il profilo di una realtà compatta, si direbbe quasi parmenidea, e però sempre dinamica, caratterizzata da infinite oscillazioni che tengono collegate fra di loro i vari aspetti del reale. Non più corpi solidi distinti fra loro e interagenti grazie a forze esterne, non più palline fisse ed individuali, ma un’interazione continua di tutto con tutto.

È per me straordinaria la “risonanza” fra questi aspetti concettuali della fisica quantistica e i cammini filosofici che si richiamano alla saggezza.

Contestualizzando un po’ di più, si potrebbe dire che, in ambito scientifico, abbiamo un raggio di teorie e riflessioni come, per esempio, la teoria quantistica dei campi; le istanze olistiche portate avanti dai Club di Roma e Club di Budapest, che, proprio sulla base delle teorie quantistiche, puntano ad una presa di consapevolezza del nostro essere individui in relazione con l’intero pianeta; le considerazioni del fisico americano David Bohm, che tentano di ricomprendere anche il fenomeno della coscienza alla luce delle teorie quantistiche; fino ai fisici teorici che, anche qui in Italia, cercano di operare avendo in mente quella fondamentale connessione fra scienze diverse, puntando a quell’integrazione del sapere che era data per definitivamente perduta [25].

Odo già sollevarsi le obiezioni del tipo “questo non è nuovo”. Mi sento di fare un’osservazione in questo senso: sì, è vero, tentativi di integrazione del sapere sono già stati fatti nel passato ma, come osserva Severino, si è trattato di un’integrazione che comunque teneva conto della realtà come costituita da parti separate, isolate ed in questo senso si son risolte, nonostante l’intenzione, in una mera giustapposizione di elementi diversi fra loro. Mi par di capire che il derivato concettuale della fisica quantistica porti invece verso un’integrazione autentica della realtà, dove l’interdipendenza di tutto da tutto è un dato costitutivo del reale, non un auspicio, e nemmeno un ideale a cui tendere.

Ci siamo già. Si tratta di prenderne consapevolezza. E questo entra in singolare corrispondenza con le istanze fondamentali che emergono dalle pratiche filosofiche.

Il problema è che pensiamo e agiamo non solo facendo riferimento implicito ad una realtà meccanicistico-newtoniana, ma anche pensiamo ed agiamo come se facessimo riferimento al sistema tolemaico geo-centrico, in cui la Terra (e noi) è al centro dell’universo – l’ unico esistente – e noi ne siamo i padroni, i manipolatori, i dominatori.

Ecco che qui siamo tornati alle parole iniziali.

“La scienza moderna è la forma più potente di dominio, perché è la forma più potente di previsione. La potenza della previsione scientifica non è dovuta all’incontrovertibilità del prevedere. La previsione scientifica è ipotetica. […] La scienza domina il mondo non perché essa sia la forma più alta e indiscutibile del sapere” [26].

Ergo: la forma più alta e indiscutibile del sapere non è una forma di dominio. L’espressione “cultura dominante” è un ossimoro.

Rimane da intendersi sul significato de “la forma più alta e indiscutibile del sapere”.

Severino articola il suo ragionamento nell’ambito del terreno logico-metafisico e quindi, dal mio punto di vista, rimane nell’ombra la stessa dimensione che sottolineavo nel riferimento a Sonia Caporossi. E aggiungo: siamo sicuri che all’uomo basti la contemplazione di un ragionamento metafisico, per quanto rigoroso e tendente alla perfezione? Non rimane forse inevasa la richiesta del senso, la ricerca di un orientamento di vita che tenga conto anche delle interazioni profonde fra l’Io ed il mondo e delle dinamiche oltrepassanti la sfera razionale? [27].

Riusciamo nel frattempo ad intravvedere, nel panorama caotico e drammatico della nostra epoca, qualche barlume indicato dalla saggezza? A soppesare forme di relazione che non siano riconducibili al dominio?

Nelle lacerazioni che attraversano il pianeta all’inizio di questo millennio, possiamo perlomeno incominciare a riflettere sulla nostra profonda interrelazione con il mondo: anima e mondo sono indisgiungibili, insegna la filosofia antica. Il contributo del mondo moderno è stato/è quello di evidenziare l’importanza dell’individuo (che nel mondo antico trovava il suo riconoscimento “solo” nel suo essere inscritto in e nell’aderire a un sistema di riferimenti collettivo, segnato fortemente dal mito).

L’errore della nostra civiltà è stato, come abbiamo visto, nello spogliare l’individuo di tutti i suoi contenuti effettivi, inserendo così l’individuo-atomo nel meccano del sistema capitalistico-consumistico, regolamentato dalla mediazione spersonalizzante del denaro e dai suoi contro-valori globalizzanti e  uniformanti [28].

Il vissuto biografico – insegnano la psicologia del profondo e le pratiche filosofiche – è qualcosa di irriducibile a qualsiasi verità preconfezionata ed imposta.  Ecco perché “Il discernimento del nostro tempo invita pressante ogni fede a ricercare la sua affermazione di verità nella considerazione delle altrui verità” [29].

E andiamo qui al punto fondamentale: “Perchè la verità non può essere accogliente anziché escludente?” [30].

Evitare di farci la guerra l’un l’altro all’infinito a colpi di verità indica l’atteggiamento (credo l’unico) alternativo, che si pone evidentemente come modello cui tendere, ovvero: fare riferimento ad una verità che comprenda tutti i punti di vista, nel pieno riconoscimento e ri-comprensione di ogni aspetto, anche e soprattutto quelli negativi, senza per questo ricadere in un’altra forma di relativismo o di assemblaggio indistinto: “[…] l’esclusività della verità può essere ripensata come libertà e diventare così universalmente includente, capace di accettare come diverse anche le formulazioni che la negano. L’armonia è relazione anche con la disarmonia, la disarmonia non riesce invece a stabilire relazione neppure con se stessa. Scegliere il bene non significa distruggere il male, scegliere il male porta con sé anche l’autodistruzione” [31].

In molti leggeranno fra le righe l’aspetto femminile della saggezza, che trova il suo potente correlato biologico-mistico-culturale nella simbolica dell’accoglimento, della ricezione, della comprensione. Non abbiamo lo spazio per sviluppare ulteriormente questo enorme aspetto: basti qui l’accenno, sufficiente per un invito alla riflessione ed all’approfondimento, fondamentale e necessario da fare, in tempi come questi di salutare crisi dei valori facenti riferimento al patriarcato [32].

Il cambiamento culturale che scorgo in atto nel frangente di storia umana corrente, è quello del prendersi cura delle crepe, interiori ed esteriori, che si sovrappongono  le une alle altre in questo squarcio di millennio, il più onestamente possibile, in uno straordinario movimento di trascendimento delle proprie pretese egotiche e nella consapevolezza della profonda connessione, tanto antica e tanto attuale, fra anima e mondo.

La “schizofrenia distruttiva della nostra cultura prevalentemente tecnocratica” [33] e i molteplici problemi ad essa connessi ci chiamano necessariamente verso una transizione, verso nuovi paradigmi scientifici, politici, comportamentali che esulino il più possibile dalla volontà di dominio e prevaricazione [34].


[1] Mi riferisco all’insieme di esperienze che possiamo inglobare nella definizione di pratiche filosofiche avviate in Italia da Romano Màdera e Luigi Vero Tarca e che hanno dato l’esempio per l’avviarsi di molte esperienze analoghe in tutta la penisola. Si vedano, in relazione a filosofia e ai limiti del “ruolo professorale”, le seguenti pagine da R.Màdera e L.V. Tarca, La filosofia come stile di vita, op. cit. , pp. IX-XII e pp.  1-2. 

[2] Dove si è dimostrato, per esempio, che l’acqua contenuta nelle nostre cellule assume comportamenti diversi a seconda che sia studiata isolatamente dai tessuti con cui è connessa oppure che sia analizzata nella sua sfera di interazioni. Si veda l’intervento di E. Del Giudice Dinamica collettiva della materia vivente, tratto dal convegno “Interazione dei campi elettromagnetici ultradeboli con la materia vivente” del 19 Settembre 2009 (Abano Terme) – ideato da Quec-Phisis – Prometeo srl – consultabile qui: http://www.youtube.com/watch?v=GtrktTgyeQg .

[3] Citazione contenuta in R. Germano, op. cit., pp. 33-34, corsivo mio.

[4] E. Severino, Il destino della tecnica, op. cit., p. 47.

[5] Cosa succede se io al posto del palladio uso l’uranio, il metallo più pesante presente in natura? Ecco che posso ottenere armi altamente innovative, dove si condensano le capacità distruttive di una bomba atomica in un semplice proiettile o in bombe di piccolo calibro. È il delitto perfetto, in cui causa ed effetto sono slegate, perché gli effetti si fanno vedere nel tempo, perciò sarà altamente difficile risalire al responsabile.  Se si ha in mente che una delle caratteristiche fondamentali della verità è l’universalità, vien naturale chiedersi cosa sia questa verità riportata dai media, una verità in cui vien chiesto al responsabile del reparto oncologico di Bassora, Iraq, di tacere di fronte a centinaia di morti sospette e mi chiedo anche quale sia la verità dei genitori iracheni che si son visti morire una figlia di cinque anni di tumore alle ovaie o un figlio piccolo di tumore al sistema linfatico, malattie che si riscontrano generalmente in individui adulti. Si veda il capitolo Le verifiche al racconto del veterano e la dottrina dell’ambiguità calcolata, in  Il segreto delle tre pallottole, a cura di M. Torrealta, E. Del Giudice, op. cit.

[6] Riguardo alle particelle atomiche e subatomiche trovo particolarmente azzeccata la definizione che Giuliano Preparata dà della visione tradizionale, ovvero un «immane meccano di palline atomico-molecolari» si veda Prefazione a R. Germano, op. cit., p. 17.

[7] Si veda a questo proposito il capitolo La normalità nevrotica del nostro tempo e le patologie del desiderio, in R. Màdera, La carta del senso, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012.  È sempre utile ricordare, inoltre, il gigantesco apporto del buddhismo nel disinnescare i meccanismi degenerativi del desiderio, inteso come attaccamento.

[8] Sonia Caporossi, Nichilismo, tautologia, poietica e travaglio dell’aletheia: una riflessione sull’impostura filosofica, per tornare al punto, in https://criticaimpura.wordpress.com/2012/10/15/nichilismo-tautologia-poietica-e-travaglio-dellaletheia-una-riflessione-sullimpostura-filosofica-per-tornare-al-punto/.

[9] R. Màdera, Filosofia come esercizio e come conversione, op. cit., p. 104.

[10]Rimando alla nota 33, precisando ulteriormente che il termine spiritualità laica non è coniato da me, bensì da Romano Màdera nei testi che cito nel presente saggio. È bene anche ricordare, in particolare riferimento alla filosofia antica, il piacevole debito che le pratiche filosofiche hanno con lo studioso Pierre Hadot.

[11] Con una differenza di fondo fra psicanalisi e psicologia analitica di derivazione junghiana: la prima ancora considera il pensiero figurale come “primitivo”, quindi come uno stato “inferiore” e da superare per ripristinare l’equilibrio psichico; la seconda invece attibuisce al pensiero figurale uno status equivalente a quello logico-razonale. Si veda C. G. Jung, Le due forme del pensare, capitolo incluso in C.G.Jung, Opere. Simboli della trasformazione (1912-1952), vol. 5, Boringhieri, Torino, 1970 ed il capitolo Un libro lungo quarant’anni, in R. Màdera, Carl Gustav Jung. Biografia e teoria, Bruno Mondadori Editore, Milano, 1998.

[12] R. Màdera, Filosofia come esercizio e come conversione, op. cit., p. 22.

[14]Un grande insegnamento arriva qui dall’archetipo junghiano dell’Ombra, la cui proiezione può coinvolgere non solo i singoli individui, ma intere civiltà, innescando il meccanismo del capro espiatorio.

[15] Per un approfondimento di questo aspetto logico si vedano i testi di Luigi Vero Tarca; in particolare, sul rapporto fra questa riflessione e la pratica filosofica, si veda il saggio Filosofia ed esistenza oggi. La pratica filosofica tra epistéme e sophía, in R. Màdera, L.V. Tarca, op. cit.

[16] L.V. Tarca, op. cit., p. 174. La mia dimestichezza con la logica non va molto oltre: per approfondimenti e chiarimenti rimando al suddetto saggio di L.V. Tarca, in particolare i paragrafi Verità e negazione e L’autolimitazione del discorso filosofico.

[17]Ecco perché i veri mistici sono anche persone molto pratiche. Bisogna saper distinguere «(…) l’esperienza mistica, sempre attenta alle realtà quotidiane fino a nutrire un “realismo” empirista marcato, dalla psicologia psicotica, preda di “assolutizzazioni” e di sacralizzazioni indebite»R. Màdera, Filosofia come esercizio e come conversione, op. cit., p. 57.

[18] G. Preparata, L’architettura dell’universo, op. cit., p. 45. Nella stessa pagina viene illustrato il famoso esperimento chiamato “delle due fenditure”, in cui si verificava il comportamento duale dei fotoni che, nel passare attraverso due fenditure, vanno a proiettarsi su uno schermo secondo il fenomeno della diffrazione, in cui si evince che questi stessi fotoni non sono solo delle unità localizzate, ma anche delle onde che si dispongono tra l’altro in maniera coerente, non casuale.

[19] Ibid., p. 46.

[20] Ibid., p. 48.

[21] Ibid., p. 50.

[22] Per un primo avvicinamento alla teoria della sincronicità, connessa con la fisica, si veda M. Teodorani, Sincronicità. Il legame tra Fisica e Psiche da Pauli e Jung a Chopra, Macro Edizioni, Cesena, 2006. Per un approfondimento della teoria in Jung si veda C.G. Jung, La sincronicità come principio di nessi acausali, (1952), in Opere, Bollati Boringhieri, Torino, 1969-1995, vol. 8.

[23] G. Preparata, L’architettura dell’universo, op. cit., p. 67.

[24] Ibid., p. 59, corsivi dell’autore.

[25] Mi riferisco in particolare ai fisici  Emilio del Giudice,  Francesco Celani, Roberto Germano ed alle iniziative che ruotano attorno al progetto napoletano “Connessioni inattese”, ma l’elenco di studiosi che perseguono gli stessi obiettivi in tal senso non si ferma certo qui.

[26] E. Severino, La filosofia futura, op . cit., Kindle Edition, location 929.

[27] Eppure, oso dire, anche nel pensiero di Severino intravvedo, alla fine del suo tragitto, un curioso movimento enantiodromico,  come se il suo ragionamento si rovesciasse (o rispecchiasse) in una prospettiva sapienziale, per quanto sui generis. Del resto, i punti di risonanza che riscontro non sono per nulla secondari: prima di tutto risiedono nel profondo legame che tiene insieme tutte le cose, e che risplende nella luce del Destino, nonché nella coscienza umana in quanto occhio in cui lo stesso Destino risplende.  D’altra parte è curioso come Severino stesso, incalzato in un’occasione dal pragmatismo inquisitivo del giornalismo, abbia utilizzato il termine “sapienza” per indicare ciò che, sola, può regolamentare l’onnipotenza della tecnica. Rimane da verificare bene cosa egli intenda per sapienza (n.d.r. purtroppo non sono in grado di ritrovare l’intervista di Lilli Gruber a Severino in cui si esplicitava questo pensiero).

[28] Su questi due ultimi punti si vedano i testi citati di R. Màdera, nei quali vengono più volte ripresi.

[29] R. Màdera, Filosofia come esercizio e come conversione, op. cit., p. 17.

[30] Ibid., p. 104.

[31] Ibid., p. 71.

[32] “Salutare” non equivale certo ad “esente da drammi”. Rimando per questo al paragrafo La civiltà dell’accumulazione economica, la fine del patriarcato e la cultura licitazionista, in R. Màdera, La carta del senso, op. cit.

[33] R. Panikkar, Saggezza stile di vita (1978/90), San Domenico di Fiesole, Cultura della Pace, 1993, p. 99.

[34] Ultimissima considerazione, per fugare ogni dubbio su un presunto mio invito ad uscire dal capitalismo, sia nella forma di una ideologia avversa sia in quella di un nostalgico ripiegamento verso forme bucolico-idilliache richiamanti imprecisate società pre-capitalistiche: si tratta, dal mio punto di vista, di opzioni ingenue ed anacronistiche. 

4 pensieri riguardo “Verità, scienza e potere: incursioni filosofiche fra vecchi e nuovi paradigmi nello stato d’emergenza del terzo millennio. Pars construens

  1. La questione Emanuele Severino

    Prestare soccorso ad Emanuele Severino, al forse più grande pensatore che l’uomo abbia mai sfornato, è come tentare di arrestare la pioggia raccogliendo qualche goccia che scende dal cielo, e tuttavia deve avere luogo e per evitare chi in tal senso predisposto di perdersi nell’immensa distesa su cui il filosofo italiano estende il suo pensiero e quello che si sa poggiante sul suo simile ugualmente costituito.

    E che va raccolto come l’espressione che deve, per esserla, avvalersi della medesima premessa e circostanza, e la prima l’ossigeno e la seconda il cibo, e quindi quella necessità che Emanuele Severino deve indicare con cautela e per evitare quella reazione del suo simile che sa ferma difesa della madre come radice della violenza a cui spesso si è riferito e attraverso le sue variegate espressioni sulla Terra.

    E in primo luogo le lingue variegate con cui l’uomo si distingue dal suo simile, e quindi come la diversa costituzione benché, dicevamo, debba pertanto avvalersi della medesima premessa e circostanza, come allora la fede che verte su di sé e indicando in uguale maniera l’altra la sua imitazione e appunto con sue parole intonate altrimenti e che celano l’aspetto inaudito della violenza e il riparo dalla morte.

    E la grandiosità di Emanuele Severino risiede proprio nel fare intravedere uno solo il modello relazionale al quale l’uomo si è sottoposto e come suo fermo rifiuto della morte anche se tuttora, e cioè come prima del subentro delle sue parole nell’allora sua quotidianità, costretto ad applicarsi come fermo destino e nel senso che rimane costretto a corrispondere la realtà come l’animale nella procura del cibo.

    Sicché, per abbreviare il discorso di Emanuele Severino, la madre è Dio al cospetto dell’uomo e come da egli appresa sua ferma sensazione di tutela e quella come dimostrata dallo scienziato Pavlov mediante il cane a cui pertanto aveva annunciato il cibo con il suono di un campanello affinché con suo udirlo lo confermava presente anche quando assente e oggi onnipresente sulla Terra come la scienza in sua vece.

    E cioè appresa materna conferma che l’uomo fornisce al di là della sua espressione e quella che la filosofia ha tentato di arrestare ma ampliandola a dismisura dal momento che al suo cospetto come la ferma radice della violenza e la medesima somministrandogli il cibo in assenza del padre che intanto lo procurava e così di suo nutrendo il suo avversario perché privo dell’esperienza per ravvisarla suo pericolo.

    E quando Emanuele Severino faceva sapere Lucifero bello, indicava la strada per scoprirlo, e quella che ogni suo destinatario potrà edificare e ponendo il suo sguardo nel vuoto e l’assenza della madre come femmina negli stessi ripari e rimedi di cui si avvale, e la procura del cibo e la costruzione dell’abitazione, e che ogni uomo necessita per difendersi dalla morte che ignora ampliata per sua stessa cecità.

  2. Cara Leni,
    sono uno studente di Filosofia alla Ca’ Foscari di Venezia, lo sei stata anche tu?
    In ogni caso, ho una sostanziale obiezione da fare a questa tua pars costruens – ho preso visione anche della pars destruens. Credo che il punto problematico stia nel fatto che proporre una congiunzione dei saperi e intendere questa congiunzione in vista della pratica sia nuovamente un modo tecnico – al senso heideggeriano – di intendere la Filosofia, perché ancora va in cerca dell’immediatamente spendibile, del “questo” per “altro”. Addirittura, non costituendo questa nemmeno una vera epistemologia, finisce per far rifiutare ogni forma di sapere che non abbia per noi un riscontro immediatamente pratico, il ché mi sembra piuttosto dannoso alla ricerca di ciò che è vero. Direi che da questo punto di vista, l’unico modo di salvaguardare il sapere e la scienza dalla tecnica è quello di permettere loro di non avere una ricaduta pratica, ma di essere almeno anche puramente teoretiche. Con questo non voglio dire che non debbano esserci saperi finalizzati alla pratica, ma che dovremmo essere disposti ad avere dei saperi che sono invece puramente teoretici – al senso aristotelico. Conoscenze che giacciono nella memoria apparentemente inerti, forse, ma che se sono conoscenze di ciò che è reale troveranno da sé la loro rivitalizzazione man mano che si conoscerà di più la realtà, e che quindi nel potercene far altro che ricordarle, in realtà mantengono un loro valore potenziale e futuro, che c’è, ma che pur sfugge dalla pretesa tecnica dell’uso. In questo senso, saperi meramente teoretici e pur anche specializzati sfuggono al dominio tecnico nella misura in cui li manteniamo, seppur inutilizzati, senza considerarli inutili, perché se vi è un aspetto essenziale della tecnica credo sia proprio questo: che ciò che non può essere usato è inutile.Così, io sarei, eventualmente anche per la ricerca di una concezione unitaria dei saperi, ma in un modo in cui questo non debba finire per escludere che vi siano anche e ancora ricerche specialistiche e di settori specifici, perché sono proprio questi a salvaguardarci dalla catena di montaggio, mentre ridurre tutto il sapere alla pratica non ci fa mai uscire dal processo industriale, perché richiede, di nuovo, che tutto ciò che si mantenga sia utilizzabile, considerando implicitamente inutile l’inutilizzato.

  3. Ciao Mauro,
    grazie per il tuo intervento. Si’, mi sono laureata in Filosofia a Ca’ Foscari. Leni remedios e’ uno pseudonimo, se mi contatti su facebook ti daro’ altri dati piu’ precisi e magari facciamo due chiacchiere, con molto piacere. Prima di tutto mi scuso per rispondere cosi’ tardi, non ho potuto farlo prima per motivi di forza maggiore. Andiamo al sodo.
    Il tuo intervento mi da’ l’occasione per ribadire ed approfondire un punto fondamentale (forse IL punto) del saggio. Esordisco autocitandomi:
    ‘“Perchè la verità non può essere accogliente anziché escludente?” [R.Madera, vedi nota 30].
    Evitare di farci la guerra l’un l’altro all’infinito a colpi di verità indica l’atteggiamento (credo l’unico) alternativo, che si pone evidentemente come modello cui tendere, ovvero: fare riferimento ad una verità che comprenda tutti i punti di vista, nel pieno riconoscimento e ri-comprensione di ogni aspetto, anche e soprattutto quelli negativi, senza per questo ricadere in un’altra forma di relativismo o di assemblaggio indistinto’
    Ricordo inoltre un passaggio precedente, in cui rammento l’enorme contributo della psicologia del profondo nel riconoscimento delle due forme del pensare: quello razionale-logico-concettuale e quello simbolico-figurale ‘Con una precisazione importante: così come, in fisica, il paradigma meccanicistico-newtoniano non viene rigettato ma viene ritenuto semplicemente insufficiente per un’indagine completa della realtà, allo stesso modo qua non s’intende rigettare il grandioso contributo delle facoltà razionali. Si tratta di riflettere sul fatto che la realtà è troppo complessa per essere riconducibile ad una formula logico-razionale. Si tratta di operare un tentativo di ulteriorità e ri-comprensione del razionale in un movimento più ampio’.
    Quindi capisco la tua perplessita’ quando asserisci (ti cito) che tale ‘congiunzione dei saperi e intendere questa congiunzione in vista della pratica (…) finisce per far rifiutare ogni forma di sapere che non abbia per noi un riscontro imemdiatamente pratico, il che’ mi sembra piuttosto dannoso alla ricerca di cio’ che e’ vero’. Ti darei completamente ragione, se non fosse che tutto cio’ e’ molto lontano da quanto proposto. E ti ringrazio di nuovo per darmi l’opportunita’ di chiarire ulteriormente questo prezioso aspetto. Se la mia proposta andasse in questa direzione, andrebbe in diretta autocontraddizione con tutto quanto affermato nel corso dell’articolo. Semplicemente per il fatto che si mette in contrapposizione con il pensiero teoretico. Ma non e’ cosi’. Ti diro’ di piu’: sono completamente d’accordo, anzi, in risonanza, con le tue parole seguenti: ‘Direi che da questo punto di vista, l’unico modo di salvaguardare il sapere e la scienza dalla tecnica è quello di permettere loro di non avere una ricaduta pratica, ma di essere almeno ANCHE puramente teoretiche. Con questo non voglio dire che non debbano esserci saperi finalizzati alla pratica, ma che dovremmo essere disposti ad avere dei saperi che sono invece puramente teoretici’ (ho sottolineato apposta quell’ANCHE).
    E sono completamente d’accordo, a questo punto penso sia abbastanza evidente, sul mantenimento dei saperi considerati ‘inutili’ dalla tecnica, aspetto che tu evidenzi alla fine del tuo intervento.
    Il tipo di congiunzione dei saperi a cui faccio riferimento e’ comprensivo, includente, si sforza di non ricadere, per quanto e’ umanemente possibile, nel meccanismo oppositivo, della contrapposizione e tende invece all’ulteriorita’ che contenga gli opposti, che li accolga nella loro diversita’. Percio’, per sua stessa natura, come potrebbe escludere il pensiero puramente teoretico? La miscomprensione sta nell’isolare, nel pretendere di essere autosufficienti, e da una parte e dall’altra, cioe’ sia da parte del pensiero teoretico, sia da parte della pratica filosofica, poiche’ questo porta inevitabilmente ad un’altra volonta’ di dominio, l’una sull’altra.
    Al proposito trovo calzanti le seguenti parole di Luigi vero Tarca: ‘(…) la societa’ filosofica resta tale solo nella misura in cui si mostra capace di distinguersi persino da se stessa in quanto polo conflittuale, realizzando in tal modo un’innovazione capace di costituire un’esperienza “terza” rispetto ad ogni conflitto; dove terza significa diversa sia rispetto a ciascuno dei due poli conflittuali (uno dei quali e’ essa stessa) sia rispetto a qualsiasi nuova posizione che costituisse a sua volta un ulteriore polo conflittuale” (Filosofia ed esistenza oggi. La pratica filosofica tra epistéme e sophía, in R. Màdera, L.V. Tarca, op.cit., p. 210, nota 70). Ti rimando all’intero saggio per un’ulteriore approfondiemnto dei termini, ma comunque quella e’ l’idea.
    Poi bisogna capirsi su cosa s’intenda per ‘pratica’.
    Qui la precisazione che mi dai modo di fare dimostra in maniera evidente il valore fondamentale, essenziale, dell’interdisciplinarieta’.
    Quando tu dici che (ti cito) ‘questa congiunzione in vista della pratica sia nuovamente un modo tecnico – al senso heideggeriano – di intendere la Filosofia, perché ancora va in cerca dell’immediatamente spendibile, del “questo” per “altro”.’ Di nuovo: ti darei ragione se quel ‘pratico’ rientrasse proprio in quell’ottica li’, che e’ anche l’ottica materialistica e pragmatistica del vivere contemporaneo o, riprendendo di nuovo Severino, quell’agire che rientra nella fede nel divenire di tutte le cose, nel loro continuo, quasi forsennato venire dal nulla e nel nulla tornare. Qui – ecco come l’interdisciplinarieta’ sia preziosa – a chi non ha familiarita’ con le antichissime e sempre nuove dottrine mistico-sapienziali sfugge un elemento fondamentale che, attenzione pero’, e’ presente ANCHE nel cuore pulsante della filosofia occidentale stessa, come ci dimostra attentamente lo storico della filosofia Pierre Hadot. Nel suo splendido saggio ‘Esercizi spirituali’ (uno studio affascinante e meticoloso che attraversa i testi dei filosofi antichi), Hadot porta in evidenza ‘l’idea di un valore cosmico dell’istante’. L’attenzione al momento presente, lungi dall’essere un precario attaccamento all’ente che nasce e che muore e che poi si perde indistintamente nel tritacarne materialistico del divenire, ‘apre la nostra coscienza cosmica rendendoci attenti al valore infinito di ogni istante’ (esercizi Spirituali, op. cit., p. 35). Quindi non e’ restringere il campo alla pratica di un singolo momento,al qui ed ora che poi non sara’ piu’, bensi’ proprio il contrario: espandere, non restringere, la coscienza da quel momento singolo all’universalita’ del tutto, alla prospettiva universale, in cui ogni singolo punto e’ in relazione con tutti gli altri. Mi piacerebbe al proposito che tu rivedessi la mia nota 27, dove sottolineo degli aspetti interessanti, per il tema in discussione, nel pensiero di Severino.
    Insomma, credo che non abbiamo poi detto cose molto diverse.
    Da ultimo, riconosco un nodo problematico: mentre un approccio filosofico comprensivo e includente riconosce, per definizione, altre forme di linguaggio, l’approccio puramente teoretico tende (dico tende, non escludo eccezioni) a non riconoscere forme di linguaggio non riconducibili al proprio. Mi piacerebbe sapere che ne pensi a riguardo.
    Credo anche che questa discussione segua in maniera piacevole lo spirito del dialogo platonico: le obiezioni intelligenti danno sempre l’occasione per mettersi in discussione in maniera dialettica e costruttiva.

    1. Cara Leni,
      finalmente riesco a trovare del tempo e qualche parola per rispondere. Innanzitutto ti ringrazio per le tue precisazioni! Allora, penso in realtà che se le discipline teoretiche apriranno a un dialogo in molte lingue dipenderà soprattutto dalla buona volontà delle persone concretamente in gioco. Ancor di più, da un reale interesse alla cooperazione. In questo senso, direi che è quindi essenziale che in questo processo di inclusione di tutte le forme di sapere siano rispettati gli statuti epistemologici di ciascuna, che sono poi l’espressione più scientifica degli intenti esistenziali che le persone coinvolte nutrono e perseguono nelle discipline di cui si occupano. Tendo fin d’ora a escludere che una simile inclusione possa infatti mirare a una conclusione univoca – giacché questa sarebbe anche unilaterale, quindi sotto il segno di una scienza in modo preminente e quindi deludente nei rispetti delle altre. Per questa ragione, il nucleo di inclusione starà, a mio parere, in una traducibilità dei saperi, affinché questi possano essere realmente condivisi. Perché questo possa avvenire, però, occorreranno alcuni accorgimenti epistemologici: primo tra questi credo sia elaborare una comune epistemologia tra scienza e scienza, in cui non si limiti ciascuna scienza a prender per sé i risultati di un’altra e a usarli nel modo che più le è utile o conforme, ma si elabori tra due scienze un’epistemologia di scambio, in cui è chiarita la forma e la misura in cui un sapere – che sia proprio o dell’una o dell’altra – possa farsi valido per entrambe. Propongo già, anche senza poterlo fondare ancora molto, che ciò che è preliminarmente necessario per l’operazione di cui ho detto sia una reale dottrina dell’oggettività e cerco ora di esprimere qualcosa di più in merito: evidentemente, spesso nelle relazioni tra le scienze si è guardato all’oggetto di ciascuna e questo non è del tutto scorretto, se non per il fatto che di medesimi oggetti scienze diverse hanno diverse oggettività laddove l’oggettività di ciascuna corrisponde poi a quanto è spiegabile o prevedibile alla luce del sistema epistemologico di quella specifica scienza. Per esempio di certo la Fisica ha per oggetto la materia, ma quello che la caratterizza in modo specifico è piuttosto di aver come oggetto la materia nella misura in cui questa è matematicamente misurabile. In questo senso, per esempio, se una Teologia vorrà rifarsi ai risultati della Fisica non dovrà rifarsi tanto a quello che la Fisica può dire circa la materia in generale, ma dovrà assumere in sé i risultati su una materia matematicamente misurabile e quindi elaborare entro se stessa innanzitutto una posizione del numero e della matematica che sia poi riconducibile all’oggettività specifica della Teologia (Già qui vediamo che anche questi dialoghi tra le discipline risultano particolarmente difficili, perché già l’inverso di quello descritto è difficilmente pensabile, ma forse comunque non impossibile – ci si deve lavorare!). È quindi forse a questo punto che il problema del linguaggio risulta, nel senso in cui è il linguaggio di una scienza a marcarne anche in modo operativo lo statuto epistemologico – e quindi l’oggettività dell’oggetto – della stessa nell’applicazione attuale di essa da parte degli studiosi. Si tratta quindi di un’integrazione di linguaggi scientifici – di per sé un problema – secondo cui ciascuna scienza dovrebbe trovare il modo di parlare la lingua altrui, cioè di assumere per sé i risultati delle altre – in modo da poterli prendere in considerazione, più che altro – ma in modo che il senso epistemologico originale non risulti variato, cioè in modo che la scienza originale non debba rifiutare i propri risultati una volta che questi sono stati raccolti dalle altre.

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