
Di LENI REMEDIOS
“Non era una grande nave ben equipaggiata, né un maestoso piroscafo a procedere fermamente nella burrasca, sembrava bensì una di quelle superbe, piccole golette… Sfrecciava incontrollata con vele attorcigliate e alberi spezzati attraverso un turbolento nevischio e venti ed onde notturne. Sul ponte stava un’esile, smilza, bellissima figura, un uomo pallido, che apparentemente godeva di tutto il terrore, l’oscurità e lo scompiglio del quale egli era il centro e la vittima. Quella figura del mio sogno spettrale poteva stare per Edgar Poe, il suo spirito, la sua sorte e le sue poesie – esse stesse, tutte, sogni spettrali”[1].
È con il sogno del poeta americano Walt Whitman che mi piace aprire questa mia riflessione su una delle figure più controverse ed influenti del panorama letterario: Edgar Allan Poe.
Non potrebbe esserci un’immagine più esteticamente e psicologicamente adatta della visione onirica di Whitman per immortalare lo scrittore di Baltimora: un profilo esile e solitario, nel bel mezzo del suo elemento preferito, il mare, non a caso spesso presente nei suoi racconti e dominante uno dei suoi due romanzi, Le Avventure di Gordon Pym. Una figura che solca impavida le acque più tenebrose dell’animo umano e non solo non ne ha alcuna paura, bensí sembra trarne piacere. Prima di immergermi nell’oceano onirico ed emozionale di Edgar Allan Poe – perché è questo che vorrei fare qui – vorrei spendere due parole su quel che è stato detto e scritto su di lui, giusto per fornire una breve sintesi al lettore sprovvisto di tale conoscenza.
Abbiamo parlato inizialmente di Poe come figura controversa ed influente.
Influente, perché non solo la sua figura si è eretta a faro per i cultori del soprannaturale e dell’horror psicologico, alzando “il livello per tutto il lavoro successivo”[2] ma la sua versatilità gli ha affidato meritevolmente la paternità del genere poliziesco cosí com’è modernamente inteso (si vedano i cosiddetti racconti “del raziocinio”, come I delitti della Rue Morgue o Il mistero di Marie Rogêt), mentre è noto che il suo influsso presso i poeti francesi, grazie ad un tramite prezioso come Charles Baudelaire, suo primo traduttore in Francia, ha contribuito fortemente a nuovi movimenti letterari come quello simbolista ed in generale al suo apprezzamento in Europa. Il Gordon Pym sarà inoltre ispiratore non solo per altri geni del soprannaturale e del fantastico come H.P. Lovecraft, il cui Alle Montagne della Follia è un chiaro riferimento all’opera del maestro, bensí anche per Hermann Melville, autore del celebre Moby Dick, e per un inventore di grandi avventure come Jules Verne, il quale scrisse un’ideale continuazione del romanzo in La sfinge dei ghiacci.
Eppure su di lui han pesato fortemente le stroncature provenienti da molti critici letterari, soprattutto suoi compatrioti, ecco perché Poe è anche controverso: egli non ha mai messo d’accordo, forse fino ai nostri tempi, la critica letteraria e i colleghi di penna, fatto che da una parte va contestualizzato nell’ambiente letterario dell’epoca, dove era naturale che Mr. Poe, grazie alle sue corrosive recensioni, avesse una marea di nemici. Ma più di tutti ha pesato (pesa tuttora?) l’anatema di Henry James, connazionale autore della ghost story Giro di vite, il quale non andò certo per il sottile “un entusiasmo per Poe è il segno di uno stadio di riflessione decisamente primitivo. Ci sembra che considerarlo con più di un certo grado di serietà sia una mancanza di serietà in se stessi”[3].
In questa dura sentenza pregherei però il lettore di soppesare l’aggettivo primitivo che James usa. Ci torneremo. L’altro anatema pesante arriva non certo da un moralista fanatico allarmato dalle orribili verità di Poe, bensí da un pilastro della contro cultura, Aldous Huxley, il quale accusa Poe, in quanto poeta, di volgarità: la critica che l’autore de Le porte della percezione muove è una critica importante e, senza lasciarsi fuorviare dal termine, non centra nulla con questioni morali. L’obiezione di Huxley è schiettamente, squisitamente tecnico-poetica, laddove accusa Poe di sfruttare una certa musicalità facile intrinseca nella parola per creare sensazione, in particolare utilizzando in maniera esasperante la rima, talvolta anche in modo improprio[4]. Così facendo, il contenuto espresso dalle poesie non ha granché importanza per l’autore, poiché in realtà strumentale alla facile resa estetica.
Vero, ma fino ad un certo punto. Poe non è esente da difetti, ma Huxley dimentica un fatto: artifici e stratagemmi che appaiono inevitabilmente banali o pretestuosi in penne poco esperte, nelle mani di un genio danno la resa opposta, esattamente come osserva H.P. Lovecraft in merito alla prosa “Queste bizzarre concezioni, così goffe in mani inesperte, diventano sotto l’incantesimo di Poe terrori viventi e convincenti che infestano le nostre notti”[5].
Non è un caso che le suggestioni e l’atmosfera evocativa de Il corvo, unanimamente non considerata dalla critica fra le poesie migliori di Poe, sia diventata in realtà un vessillo cross-generazionale, che continua tuttora ad emozionare migliaia di lettori. Non facciamo mancare all’appello poi un altro autorevole giudizio, quello di T.S. Eliot, il quale attribuisce a Poe “l’intelletto di una giovane persona altamente dotata prima della pubertà”[6]. Per spudoratezza e contenuto non è molto dissimile da quanto espresso da Henry James.
Chiudo questa parentesi apportando la seguente osservazione, che lancio momentaneamente come una provocazione fulminea, un sasso lanciato in mezzo allo stagno e che mi riprenderó alla fine: si può dire che mai come nel caso di Edgar Allan Poe l’attenzione morbosa del pubblico verso la dimensione privata di uno scrittore sia stata cosí alta? Ecco, ora chiederei al lettore di dimenticare per un attimo tutto questo. Di ripulirsi da tutti i concetti e preconcetti, da tutte le chiacchiere che sono state fatte su Mr. Poe e i suoi lavori. Di iniziare con me un viaggio nel sottosuolo, nelle profondità inconsce più oscure, privi di orpelli e ragionamenti preconfezionati.
La discesa nell’abisso.
È questo che interessa a Mr. Poe. Non c’è profondità più abissale dell’animo umano. Non c’è altra landa più vasta e destinata a rimanere inevitabilmente inesplorata. Cosa si agita e si nasconde in agguato nei meandri più reconditi di noi stessi? Quali sono le istanze che si insinuano nell’interiorità e di cui non riusciamo ad essere veramente padroni, come un anguilla viscida che tentiamo invano di afferrare ma che scivola perennemente dalle mani? C’è una condizione umana in particolare che è in grado di far emergere, anche solo per un attimo, i contenuti più nascosti della nostra, possiamo dire, psiche: la paura. Poe apre la ferita e non si limita a girare il coltello nella piaga per vedere quel che succede: egli analizza minuziosamente, afferra il bisturi e sonda uno ad uno tutti i gangli nervosi. È una vivisezione talmente radicale da ottenere una molteplicità del soggetto che sta sotto i ferri: chi è il protagonista del Il gatto nero? È il giovane “noto per la docilità e l’umanità di disposizione (…) amante degli animali”[7] cosí come si auto descrive inizialmente? O è l’esecrabile uomo che si rivela alla fine dei suoi giorni, omicida e con un odio atavico verso i felini? Eppure non è la stessa persona? Cos’è successo nel frattempo, qual è il meccanismo che ha installato il germe della perversione?
Il cambiamento è un processo naturale ed auspicabile nello sviluppo individuale della coscienza, laddove le riflessioni e le esperienze esteriori apportano degli imput nuovi all’individualità. Ma cosa succede quando avviene un rovesciamento radicale dei sentimenti, una rivoluzione totale della personalità, provocata e supportata da agenti esteriori estremi, come la fame più assoluta o una dipendenza cronica dagli alcoolici, o da fattori più intimi, come un’ipersensibilità personale o una certa inclinazione alla follia? C’è la possibilità, sembra chiedersi Poe, di diventare addirittura inumani?
“La furia di un demone mi possedette istantaneamente. Non mi riconoscevo più. La mia anima originale sembrava, all’improvviso, aver preso il volo dal mio corpo; ed una malevolenza più che diabolica, alimentata dal gin, faceva vibrare ogni fibra di me stesso[8]. Qui il chirurgo dell’animo Poe pone la nostra attenzione su un altro, ambiguo sentimento che inizia ad albeggiare. La furia ha trovato espressione, ed il gatto nero, vittima dell’atrocità del suo padrone, è ora privo di un occhio. Spenti i fumi dell’ira e dell’alcool il protagonista inizia a riflettere e qualcosa di inedito emerge:
“Esperii un sentimento che era per metà orrore, per metà rimorso, per il crimine di cui mi ero incolpato; ma era, alla meglio, un sentimento debole ed equivoco e l’anima ne rimaneva intoccata”[9]. I sentimenti sono raramente puri, univoci. In particolare quelli negativi contengono spesso una componente di duplicità:
“(il gatto) girava per la casa come sempre, ma, come ci si potrebbe aspettare, scappava via non appena mi avvicinassi. Mi era rimasto tanto del vecchio cuore da essere all’inizio addolorato da questa evidente avversione da parte della creatura che una volta mi aveva tanto amato. Ma questo sentimento presto lasciò il posto ad irritazione. Ed allora venne, come se al mio finale ed irrevocabile rovesciamento, lo spirito della PERVERSIONE. Di questo spirito la filosofia non prende considerazione alcuna. Eppure non sono più sicuro che la mia anima viva di quanto invece sia sicuro che la perversione sia uno degli impulsi primitivi del cuore umano – una delle primarie facoltà, o sentimenti, indivisibili, che dà la direzione al carattere dell’uomo. Chi non si è trovato, centinaia di volte, a commettere un’azione vile o sciocca, per nessun altra ragione del fatto di sapere di non doverla fare?”[10].
Domanda che si pone anche il protagonista de Il demone della perversione, come vedremo.
[1] Robert Regan, Poe. A Collection of Critical Essays, Prentice-Hall, Inc, Englewood Cliffs, New Jersey, 1967, p.147. n.d.a.: tutte le traduzioni presenti nel saggio qui sopra sono a cura di me medesima.
3 pensieri su “Il Sé multiforme di Edgar Allan Poe e la discesa nell’abisso del disumano. Prima parte”