
Di SONIA CAPOROSSI *
Nel mancar del mondo (in-atto) la poesia è, ultima opera di quell’intellettuale leonardesco che risponde al nome di Paolo Ferrari, appare immediatamente come un libro agile nell’istanza definitoria e nella forma dell’elencatio, in cui l’autore offre, versificando e prosificando, la propria interpretazione personale della natura naturans del poetico. Il libro, nonostante la stringatezza quasi aforistica del testo, possiede un fondamento sostanziale di significanza di immane potenza concettuale e immaginifica. Per rendersene conto, occorre che il lettore deponga innanzitutto le lenti d’ingrandimento della filosofia analitica e comprenda, preliminarmente, che l’impulso primigenio da cui nasce questo libro non è di natura dimostrativa, assiomatica, categorematica. Non è infatti la matematica, bensì la mathesis attraverso l’aisthesis ciò che lo muove, ovvero la ricerca che trova il fine in sé stessa, protendendosi verso una conoscenza delle cose che sappia squarciare la cappa imenica della certezza, calandosi con fiducia nel locus mirabilis del nulla e del vuoto come steresis, privazione e sospensione dell’essere in absentia.
Paolo Ferrari è il teorico dell’assenza concepita non come pura e semplice negazione, bensì come momento epifanico dell’esserci che dipana dalla natura delle cose l’eventum concrezionale che le rende tali quali sono nel divenire. Già in Aristotele la στέρησις non era un’assenza vuota, ma un tendere verso l’autorealizzazione dell’oggetto, verso l’acquisizione della pienezza, di ciò di cui l’oggetto è privo. Tuttavia, per Aristotele «la negazione non è altro se non assenza […] invece nel caso della privazione vi è anche un sostrato naturale che fa da predicato alla privazione stessa» (Metafisica, IV, 1004 a 14-16). La sfumatura che Aristotele non è riuscito a cogliere, e che invece Paolo Ferrari pone incessantemente in rilievo all’interno della sua opera omnia, è come l’assenza non si contrapponga concettualmente alla privazione, perché non consiste in un mero vuoto in cui l’informe sia un semplice senza-forma, in un mero contrario giacente sul quadrato logico, in un nulla senz’ulteriore determinazione, bensì è sempre concepibile predicativamente, in un miracoloso riempimento di senso indecidibile, come un pienissimo essere vuoto.
La privazione, in questo senso, è un’anticipazione del disvelamento della natura fenomenica della fisica, ovvero del fatto che il reale è continuamente immerso nel legame atomico della sensatezza circolare dell’ermeneusi. L’assenza, allora, è il momento (in senso fisico) della sospensione immediatamente precedente il quid, è l’istante della negazione che non si ferma in sé, ma che rende nel processo percettivo individuale la pienezza della sensazione; è la manchevolezza, la possibilità che il reale possiede intrinsecamente in sé stesso di venire a mancare e, quindi, di mancare a venire.
L’absentia quindi, come la poesia, non è un concetto vuoto, di quelli che Kant avrebbe trovato non funzionali perché privi di intuizione; al contrario, racchiude in sé la dimensione impuramente esperienziale del sentire, che si dà esemplarmente nell’ἀσθένεια, nella mancanza di forza che contiene in sé la vera forza in quanto potere, possibilità e potenza.
In questo, la poesia è come l’absentia, un coacervo di possibilità espressive e comunicative di natura estetica che si danno all’attuazione, che ritrovano il fulcro della propria vitalità nella morte come oltrepassamento nell’altrove, rinnovando la propria istanza immaginifica nella pluristratificazione dell’informe che offre il fianco all’abbraccio sensuale e sensato delle infinite possibilità di lettura dell’esperienza.
Paolo Ferrari insiste nella propria ricerca personale che qui tocca vette di chiarezza e distinzione tali da rendere il presente libro quasi una compiuta e perfetta dichiarazione di poetica. La poesia, per Ferrari, è lo strumento privilegiato attraverso cui varchiamo la soglia della parola pur rimanendo al di sotto della soglia stessa, ovvero nel campo semantico che (anche nella personale teoria estetica di chi scrive) è quello dell’analogia, vero motore del poetico in quanto tale. La parola poetica, in questo senso, non vige e non vive confinata all’interno delle kantiane forme pure della sensibilità, non è cristallizzata e immobile nello spazio e nel tempo, bensì essa stessa determina lo spazio e il tempo, giacché l’esperienza privilegiata del reale che si coglie col fare poetico consiste in una indefessa scomposizione e ricomposizione delle parti in un tutto che da solo non solo non è nulla, ma non è nemmeno il nulla, perché è nel divenire dell’attuazione caleidoscopica delle parti che esso si dà.
Questo disvelamento processuale della natura retrostante del vuoto origina l’esigenza della negazione preliminare del fondamento, in direzione della messa in risalto dello sfondo, del corpo concrezionale che giace deposto e baluginante sul fondale sottomarino della realtà, illuminato dal suo stesso ineliminabile venire a mancare. E quando qualcosa viene a mancare, la si desidera: il fondamento è un’aspirazione struggente, un perpetuo tendere a.
La poesia, in questo senso, è desiderio, di conseguenza è anche dono, è amore (Ferrari lo scrive chiaramente). Per questo, la poesia è anche sottrazione, perché nell’atto del donare vige il momento sospensivo dell’attesa, dell’assenza del dono stesso che nell’essere-dato è inoltre, contemporaneamente, un essere-tolto.
Potremmo dire, con Heidegger, che «l’uomo è il luogo‐tenente del niente»: il nostro compito anche per Ferrari è quello di con-servare, serbare insieme in qualche modo la consapevolezza del fondamento identitario dell’essere che riposa sulla membrana porosa e delicata dell’ab-sentia.
C’è uno strumento privilegiato che consente di raggrumare il senso delle cose in questa caduta perpetuamente «in-atto» nel «mancar del mondo»: e questo medium aurorale che permette l’epifania delle cose non è altro che la poesia.
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* Prefazione a Paolo Ferrari, Nel mancar del mondo (in-atto) la poesia è…, ObarraO Edizioni 2020.
L’ha ripubblicato su disartrofonie.