Di VLADIMIR D’AMORA
in principio erìtt lagérrr
Il dasein, Leggesi: dasáin. È l’esserci. L’uomo, anche. Cioè: l’uomo deve diventare sempre ciò che già è… E cosa è, uomo? È sempre un essere situato in un ci… In un tempo. In uno spazio. In una storia. In una tradizione In un contesto In una famiglia, anche… In una città: in una casa: in una vita… Ma, questa cosa non è data a noi: staticamente: irrevocabilmente: indefinitamente: ma indefinita irrevocabile è che ci sia dato: ciò… Cosa? Come? Questa cosa ovvia: cioè: Il fatto che viviamo come animalità istintualità impulsività come animali di corpo e di sesso: di fame e di sonno: di abitudini e dei soliti emozionali psichici immaginativi culturali e sociali: comunitari: di contatto: di tatto immediato: di specchi che ci riflettono solo l’altro di noi e non anche, per ora…, l’altro-da-noi… – il fatto che viviamo nascendo e gettandoci alla nascita: al nascere: alla situazione e ai limiti, alle soglie che gli altri ci sono: e in questo – corpo: in questo – ambiente: in questo – tempo: in questa – genialità, cioè anche: genericità: con questemaniprendentilascianti… a noi – ciò è un compito. È una cosa inquietante cioè non ovvia, proprio l’ovvio che subiamo senza poterlo decidere… La filosofia. La poesia. Certe immagini. Certe arti. Certe esperienze. Certe partizioni di comune. Certe responsabilità… E certe lotte: certe corrispondenze screziatissime e omeostaticamente riconosciute anche… – possono essere per noi il proprio: proprio il Proprio possono solo esserlo… Cioè? Questo: solo è una carenza? E’ una povertà? E, ammesso che si sia indigenti, e sempre, come detta Lucrezio, l’egestas, Not (tedesco: povertà: penìa la madre platonica di eros: di desiderio e di fatica…; inglese: non…) è patriai sermonis, cioè della lingua propria, che quindi è cerca/caccia di immagini risonanti in una scandella: in un quadrato di verso: di phoné… – ci-sono-come-teatro: una scena anche… E sulla scena – facciamo l’esperienza: produciamo porte e testimonianza e pericoli di un nulla di un significante che resiste a cedersi al significato: a soddisfarsi di Senso… Che nulla di più inquietante e prezioso abbiamo, se non proprio l’abituale il proprio il domestico l’ovvio. Noi per il fondo che siamo, possiamo solo la possibilità della nostra morte. Dei nostri-altri… Che non possiamo decidere e che ci è naturale, la morte: noi siamo sì progetti: ma di nulla: di un altro nulla: del nulla troppo troppo umano dell’altro: che l’altro ci è. Di Eraclito, un antico amante enigmista, corre ancora voce che, quando l’andarono a visitare dei forestieri e lo trovarono stupiti presso il proprio-suo cioè presso il focolare domestico, egli parabolò: anche qui: nel-banale-e-nel-male, vive il dio: tu mi vivi. E Hoelderlin in una sua lettera agostana scrive: L’uso libero del Proprio è il compito più difficile. (Il nostro agio è il giudicare: la situazione: la crisi: il laceratore appollaiato sul taschino sul cuore…) Questo è Dasein. Anzi, Sic est: è il suo così Dasein. Ma, poi, prendemmo a radicalizzare Lager… Ce ne facemmo abito: ci schermammo di paradigmi: di anomalie vestite di qualunquità: fummo bloom oltre ogni dublino… E come musulmani, incredibile a dirsi…: ma lo diciamo e ce lo vendiamo: fummo i musulmani di ogni Lager: l’isis comminate in ogni diaspora: in ogni centro di accoglienza e provvisoriamente utile alla bisogna psico-politica. Fummo degli usi coatti della nostra, e vostra…, memoria… Un verso di contagio.