23/01/2011 – 23/01/2012: un anno di Critica Impura.

Sonia Caporossi, Risacca, 2009
Sonia Caporossi, Risacca, 2009

Di SONIA CAPOROSSI e ANTONELLA PIERANGELI

Come nacque l’impurezza nel multiverso del verbo: un resoconto a posteriori.

Scrivere Mainstream vuol dire arenarsi in un ampio, ramificato, delta di fango.
Solo la nicchia ha la foce a estuario.
Nel primo caso, dopo essere emerso, affondi in larga compagnia. Nel secondo, prendi il largo, ma da solo.

Più volte, nel mio campo precipuo di studio, mi sono dovuta porre domande personali rimaste senza risposta circa la natura intrinseca del linguaggio. E siccome l’unica conclusione provvisoria che io abbia mai raggiunto consiste nella convinzione che l’apoditticità sia il creazionismo del linguaggio mascherato di certezza, che coincide a sua volta con la sua stessa identica natura, mi è sempre parso fin troppo palese che chi cerca l’assoluto vada in afasia, ma chi cerca il radicale contingente, per dirla con Heisenberg, vada invece a deformare lo stesso sistema che osserva. Allora l’unica maniera per dipanare i propri sensi in direzione di un senso nel reale circostante mi sembra sia il farsi padroni, quantomeno, del linguaggio, piegandolo alle voglie di un satiresco affronto multidisciplinare. C’è almeno un campo d’applicazione, infatti, all’interno del quale il linguaggio come uso che se ne fa si piega legittimamente ai voleri del soggetto, detentore nomocratico della possibilità d’espressione creativa e poietica esercitante il controllo in potenza del proprio semiocosmo, dando origine alla phonè, al verbum, alla parola che accolga in grembo il concetto. E questo campo d’applicazione non è altri che l’arte, nella fattispecie, la poesia.

Per dare una direzione al lavoro critico del blog che un anno fa andava nascendo, occorreva, quindi, come ci è stato fin da subito ben chiaro, piegare la critica d’arte e letteraria ai sadiani voleri dell’oggetto stesso su cui si vanno di norma ad esercitare: e fare dell’arte, la propria critica, e della critica, arte. Allo stesso modo, andò da sé, occorreva fare della poesia, la propria critica, e della critica, poesia, e fare dell’estetica, la propria critica, e della critica, estetica. Ma il meccanismo s’inceppava, per via del diverso statuto, solo nel campo della scienza. E non sto qui ora a disquisire se la filosofia possa ancora, oggi, considerarsi tale. Al limite, per discuterne, vi rimando ad altri scritti – che ve lo dico a fare – decisamente impuri.

La natura intrinsecamente costruttivistica e poietica del linguaggio è ciò che ne struttura la dorsalità artistica. E’ qualcosa che si riconduce, inoltre, all’adorabile concetto di “essere nell’aria”: quando un pensiero, una tendenza, un’idea “sono nell’aria” con condivisione e rispetto non appartengono a nessuno in particolare ma a tutti. Allora noi, le personcine di Antonella Pierangeli e Sonia Caporossi – nomen non omen – il ventitré gennaio del 2011, nel nostro ufficio polveroso ricolmo di scartoffie, prendendo la decisione di metterci al servizio di noi stesse e del più sotterraneo ma proficuo dei lavori culturali, creammo il verbo – causa sui – e dal verbo in se fummo create: ed ecco, subito prese parvenza il plasma sanguigno ancora informe proprio perché multiplanare, come a dire l’usufrutto senza conto in banca dell’aggettivo impuro, e vi s’accompagnò, all’alba concettuale delle nostre menti ferventi, candidamente immonda, una gioviale neoformazione denominale: l’impurezza.

Infantilmente paghe del risultato, ritenemmo fosse giunta così l’ora di partorire il più stereofonico dei manifesti. Andammo quindi a compilare, con viva prassi normotetica, una listicina edotta di definizioni, di similbiechi tì estìn patafisici atti a sublimare, nel multiverso dei sensi e dei significati, ciò che andavamo ad intendere con quella neonata anima vocis. Allora nacque l’impurezza come metodo di discrimine e prassi critica, non come annebbiamento orgiastico, applicato a mo’ di indagine innanzitutto su se stessa. E sorse l’eterogeneità fattasi carne da macello, vivisezione del categorema esplicitato nelle proprie multiformi sfaccettature prismatiche, come dispersioni del senso delle cose in entropia. Così, dalle nostre pen(n)e prese vita il Manifesto di Critica Impura, a cui per attenta lettura vi rimando.

All’interno di esso puntigliosamente esplicitammo tutte le varie occorrenze ed i significati dei quali intendevamo, di lì a un anno, permeare le nostre variopinte pubblicazioni, di filosofia, letteratura, arte, cinema, musica, società. Tutto all’insegna dell’impurezza; ché non si poteva dire in altro modo che così, a quanto si evinse delineando per filo e per segno, come poi feci personalmente, la figura del terzo tipo di critico globale cui andavamo poco a poco ad assomigliare, dopo quello accademico e quello militante: il critico impuro.

E allora sì, da quel giorno, 23 gennaio 2011, la critica impura s’è fatta in noi fenomenologia del senso delle cose, nell’esercizio diuturno di quelle ragioni teoretiche e pratiche che lasciano il luogo alle ragioni estetiche, quelle stesse che con foga e passione indefesse stiamo ogni giorno a testimoniare, nel nostro scandaloso, perché contraddittorio, di nicchia, impervio, purificante, incessante, benedetto e maledicente lavoro culturale.

SONIA CAPOROSSI

L’insurrezione della scrittura, l’inquietudine visionaria e l’urlo: un anno di Critica Impura.

Scrivere è una tremenda responsabilità.

La letteratura ci trattiene in quel moto che è di illusione e di appartenenza ed obbedisce alla necessità di distruggere per rinnovare. La parola, che della letteratura costituisce la granatura, è disagio, guerra, distruzione, rinnovamento. La critica è invece estrema attenzione, sensibilità aguzza, monologo ossessivo, dove parla la nudità del pensiero e non il soggetto; luogo d’elezione dove la fisicità del senso e il linguaggio non hanno più niente a che fare con ciò che nominano, dove il farsi letterario è corpo di parola, dove la scrittura non enuncia ma crea, e rigenera, il nascosto, perturbante, antipensiero che si annida tra gli interstizi della pagina, in quelle pieghe di senso e fonemi, i cui rilievi sono a loro volta pieni di corridoi, porte, camere, luoghi senza luogo, soglie che attirano.

Entrare nel vortice della creazione esige, però, una qualità che ho sempre immaginato essere una categoria fantasmatica dell’anima: quella che io chiamo l’umiltà della possessione. Lo spogliarsi di soggettività da parte del servitore della parola – e in senso più lato dell’oggetto di passione, tale ritengo infatti essere la letteratura e la poesia – liberando, nella coscienza, l’accesso alla furiosa molteplicità di tutti quei nuclei infernifici e quelle fantastiche macerie, su cui l’occhio arreso alla docilità del proprio ingombrante Ego, comunemente scivola via abbagliato. Creare una nuova maniera di conoscere, non concettuale e che costringa a osservare la realtà non più come un disordine passeggero dello spirito, implica però una liberazione.

Liberazione da ogni ruolo predefinito, liberazione salvifica come condanna all’Impurezza, questa straordinaria tonalità emotiva che, grazie alla multiforme forza espressiva del suo statuto semantico, viene così ad assumere, nella geografia del senso e dei sensi della nostra critica, una primigenia e straziante prerogativa di verginità lessicale. Non è infatti una categoria, non è un’idea. E’ un rogo, è il fuoco catartico di cui la poesia si nutre, la dimensione in cui, secreta dai canali dell’anima, l’impurezza, quasi allarme percettivo del contenuto pre-verbale, affiora alla superficie della lingua.

Impura diviene allora anche la scrittura, assunta nella sua tensione demoniaca, nel tentativo di toccare le frontiere dello sguardo e del canone eretico della realtà.

Per pensare l’uomo in rivolta, per teorizzare la nostra rivolta, non abbiamo avuto allora ( quel 23 gennaio di un anno fa, in una stanza ingombra di carte e d’ombra ) altra possibilità che teorizzare l’oltraggio, l’urlo, il gesto antiborghese e arcaico dell’ostensione nominale dell’IMPUREZZA, spoglia, povera, sporca, disanimata ma che ci è sembrata l’unica, possibile, risposta al “potere” dell’annientamento, all’avanzare della distruzione.

Un lessema umile, si è pensato impuramente e impunemente, ma spesso sufficiente ad evocare la grazia. Impura è divenuta, dunque, anche la forma dello sguardo di chiunque voglia “restare dentro l’inferno con marmorea volontà di capirlo” e, come noi e con noi, rivendichi il diritto allo straordinario conio di questa ermeneusi dell’anima, forte fino all’ultimo dell’umiltà, qualità ultraterrena e rarissima, del pensare poeticamente e della capacità, tanto più grande quanto più inconsapevole, di apprestarsi a costruire urticanti fionde di un’antagonistica alterità.

Nel pensiero della critica, quella ontologicamente impura e per questo ancora più nostra, il soggetto è allora dissolto e il pensiero, libero, è divenuto decisione sempre più filtrata dalle maglie feroci e molteplici del fuori, della realtà, quindi la sua parola, oggi non ha più bisogno d’immagini o verità che la sorreggano e la identifichino.

Critica Impura, come il linguaggio, non è di nessuno ma si spalanca sempre in mezzo a tutto quel che è stato detto e tutto quello che bisogna ancora dirsi, nel momento stesso in cui si apre a qualcosa che la priva di ogni stabilità e certezza e la rende viva ed esposta alla conoscenza.

Se la purezza appartiene al silenzio – come dice Klossowski commentando Bataille – il linguaggio, affermiamo noi, non può che essere scoria e scorta dell’anima e, supremamente, al silenzio sottrarsi.

È necessario, infatti, che l’anima espella tutto ciò che immagina nella sua teca d’ombra e questo può avvenire solo a condizione di una parola realmente impura. Solo a partire da tali pensieri, perturbanti, che cancellano lo spazio e sbriciolano il tempo, è possibile capire quanto sereno e puro sia, nella sua essenza, quel sentire che presiede alla dialettica dell’Impurezza.

Se s’intende il rapporto con l’altro come un rapporto di dissimmetria, in cui l’altro sia l’irriducibilmente altro che si sottrae ad ogni tentativo di ridimensionamento, allora la cifra dell’impurezza assume la prossimità smisurata ed assoluta dell’irriconoscibilità, dell’inquietudine visionaria, dell’insurrezione della scrittura, dell’urlo contro ogni possibile catalogazione.
Diviene il rapporto incommensurabile tra realtà e parola, unito nella sua rottura e nella sua inaccessibilità: ascesa e declino, crescita e sparizione, ombra e luce, diadi secolari in cui portare cuore e parola, con coraggio e abnegazione,  mettendole al sicuro in uno spazio conoscitivo che rifiuta di articolarsi nella sintassi dell’omologazione. Assolutamente impopolari, fieramente soli.
In un mondo, dove tutto ciò che è difforme e non identificabile  costituisce una minaccia da estirpare e non una ricchezza inestimabile di cui avere cura, la nostra-vostra impurezza è l’ultimo, estremo, oltraggio.

ANTONELLA PIERANGELI

6 pensieri riguardo “23/01/2011 – 23/01/2012: un anno di Critica Impura.

Lascia un commento