Il Sé multiforme di Edgar Allan Poe e la discesa nell’abisso del disumano. Seconda parte

Edgar Allan Poe
Edgar Allan Poe

Di LENI REMEDIOS

Cos’è che spinge Arthur Gordon Pym, dopo una disastrosa disavventura in mare in cui ha rischiato la vita, ad imbarcarsi di nuovo in maniera precipitosa e in condizioni precarie, laddove qualsiasi soggetto razionale si sarebbe ben guardato dall’imbarcarsi di nuovo?

“Per la parte positiva della faccenda avevo una simpatia limitata. Le mie visioni erano di naufragio e di carestia; di morte o prigionia fra orde di barbari; di un periodo di vita trascorso fra il dolore e le lacrime, su qualche roccia grigia e desolata, in un oceano inavvicinabile e sconosciuto. Tali visioni o desideri – perché equivalgono a desideri – sono comuni, me ne sono assicurato sin da allora, alla numerosa razza degli uomini malinconici – al momento che qui narro li consideravo solo come sguardi profetici di un destino  che mi sentivo in qualche modo obbligato a realizzare” [1].

La perversione ha una compenente seduttiva inequivocabile.

Dietro il disgusto e l’avversione si celano in agguato altre presenze silenziose, che l’uomo razionale e conscio difficilmente riconosce a se stesso: irresistibile attrazione, curiosità, finanche piacere. Esiste una scala di gradazioni riguardante uno stesso sentimento o sensazione: i protagonisti di Poe vivono senz’altro delle situazioni estreme, all’apice della scala, in bilico su quell’ultimo gradino che porta dritto dritto alla follia oppure già irriparabilmente folli, ma parlano in maniera diretta alla molteplicità degli altri esseri umani che stanno nel mezzo della scala, che vivono gli stessi stati d’animo su un altro livello (“Chi non si è trovato, centinaia di volte, etc etc…?”).

Ed ancora. In racconti come Il demone della perversioneIl gatto nero e Il cuore rivelatore i protagonisti disvelano un’ulteriore sfumatura di questa ambivalenza, difficile da spiegare in termini razionali: l’eccitazione provocata dal rischio. Il terrore esasperato di essere scoperti nel proprio crimine va di pari passo con un’esibizione di spavalderia, quasi una volontà di farsi scoprire, portando ad emersione un’ambigua intenzione: il vanto di fronte all’umanità di essere riusciti a portare a termine un’operazione simile, il poter apertamente dire al mondo “Vedete? Ecco cosa sono stato capace di fare”. Ogni minima traccia di pentimento o di rimorso è stata obliterata, il processo di disumanizzazione si è brillantemente concluso. Non è un caso che il demone della perversione a cui allude il racconto non sia certo riferito al crimine perpetrato, l’omicidio, quanto alla tendenza alla confessione: questo è malsano per il protagonista, ormai precipitato pienamente nel vortice della follia, il rivelare i propri misfatti quando invece bisognerebbe far di tutto per celarli.

Non solo la perversione contempla una componente seduttiva, come si è detto, ma anche una costitutiva componente di disobbedienza, d’insofferenza, di opposizione, senza la quale non sarebbe quel che è: come già ripreso ne Il gatto nero, il tema ritorna anche qui “E poichè la nostra ragione ci distoglie violentemente dall’orlo dell’abisso, perciò noi ancora più impetuosamente ci avviciniamo ad esso”[2].

Anche qui il protagonista è evidentemente pazzo, ma parla in modo diretto al lettore, all’uomo che sta in mezzo alla scala, agganciandolo con esempi innocui, laddove Poe  utilizza genialmente la prima persona plurale: “Noi abbiamo un compito da fare che deve essere celermente esaudito. Sappiamo che sarebbe rovinoso ritardarlo. La crisi più importante della nostra vita ci richiama, a suon di tromba, ad energia ed azione immediate. Siamo incandescenti, consumati dall’ardore di iniziare il lavoro, la cui anticipazione del glorioso risultato le nostre intere anime sono infuocate. Dev’essere, dovrà essere intrapreso oggi e tuttavia lo rimandiamo a domani; e perché?” [3]Qualsiasi procrastinatore di ogni grado si sentirebbe toccato da queste parole.

Ma qual è, se non la morte, l’abisso più profondo sul quale l’uomo si affaccia? L’esperienza più estrema per definizione? Eppure anche sul ciglio della morte è probabile che uno strano, inedito rivolgimento accada nei meandri del nostro animo, un capovolgimento radicale ed imprevedibile. Il narratore de La discesa nel Maelstrom, a mio avviso uno dei migliori racconti di Poe, in seguito ad una funesta uscita in mare coi fratelli, trovatosi nel mezzo di un gigantesco vortice marino, riporta in tutta onestà ciò che accadde nel punto in cui si trovò fra le fauci della morte. Dallo stato di terrore puro, in cui tutto il corpo e la mente fremono di autentica paura, egli passa improvvisamente ad una sorta di catalessi estatica: “Avendo deciso di non sperare più, mi sbarazzai di una grande quantità di quel terrore che mi aveva assalito all’inizio. Suppongo che fosse la disperazione ad aver teso i miei nervi. Può sembrare vanesio – ma ciò che ti racconto è la verità – iniziai a riflettere su quanto fosse magnifico morire in un modo simile e quanto sciocco in me il pensare ad una cosa così irrisoria come la mia vita individuale, a confronto di una così meravigliosa manifestazione del potere divino”[4].

Forse è in William Wilson, capolavoro ineguagliabile sul doppio, sulla crisi d’identità e sulla volontà (notare il gioco di parole Will-I-am, Wil-son), che il tema dell’ambiguità interiore viene al meglio sviluppato. Anche qui viene immediatamente fatta presente al lettore una trasformazione radicale del protagonista: “Gli uomini usualmente diventano spregevoli per gradi. Da me, in un istante, tutta la virtù scivolò via materialmente come un mantello” [5].

Non è mai chiaramente avversione quella che Wilson prova verso il suo omonimo, un ragazzo che frequenta lo stesso collegio, è nato lo stesso giorno e si diverte a provocare sottilmente il protagonista “Può sembrare strano che nonostante il continuo stato di ansia occasionatomi dalla rivalità di Wilson ed il suo intollerabile spirito di contraddizione, non potessi arrivare ad odiarlo del tutto” [6].

Un sentimento che pare reciproco “ci fu qualche occasione in cui non potevo non osservare, in un misto di meraviglia, umiliazione e dispetto, che egli mescolava alle sue ingiurie, insulti o contraddizioni, una certa estrememamente inappropriata e certamente indesiderata affettuosità di modi” [7].

Il legame fra la buona e la cattiva coscienza è un legame di amore/odio, di irrinunciabile interdipendenza, dove nulla è ben delineato ed i chiaroscuri adombrano numerosi tutti gli interstizi: “È davvero difficile definire o persino descrivere, i miei veri sentimenti verso di lui. Essi formavano una miscela colorita ed eterogenea; – una certa stizzosa animosità, che tuttavia non era odio, un po’ di stima, un po’ più di rispetto, molta paura, con un mondo di inquietante curiosità. Al moralista non sarà necessario aggiungere che io e Wilson eravamo i più inseparabili dei compagni” [8].

Da ultimo: Poe non solo non teme di sondare le situazioni al limite, ma non si frena neppure dall’andare oltre i limiti: Le avvunture di Arthur Gordon Pym, lungi dall’essere una storia d’avventure per ragazzi a cui può essere erroneamente conformata, è una cruenta e macabra discesa nell’inferno della crudeltà e delle miserie umane, un romanzo di formazione dal segno negativo, dove solo l’enigmatico finale offre più una fuga a mo’ di sospensione magico-onirica che una risoluzione. Una delle scene più raccappriccianti e geniali è quella in cui i quattro naufraghi, afflitti da una fame atroce nel mezzo dell’oceano, decidono di ricorrere al gesto più estremo e disumano ai fini della sopravvivenza: il cannibalismo. Essi ricorrono ad uno stratagemma per sentenziare chi di loro sarà la vittima sacrificale, una sorta di roulette russa in cui chi pesca il pezzo di legno più corto sarà il designato.  Dove probabilmente qualsiasi altro scrittore avrebbe smussato gli angoli della psiche con pennellate di edificante moralità, Poe non ha paura di esaminare le meschinità più infime del protagonista, il quale pensa fino all’ultimo ad escogitare un metodo per imbrogliare i propri compagni, alla faccia di qualsiasi sentimento di compassione e complicità che si suppone tenga legati i membri di un gruppo coinvolti nella medesima tragedia. Eppure “Prima che qualcuno mi condanni per questa apparente mancanza di cuore, lasciatelo in una situazione precisamente simile alla mia” [9].

Rimasto da solo col compagno Parker nella delirante gara, Pym esperisce nei confronti dell’amico, sotto la pressione di una probabile morte imminente, uno spaventoso, orribile sentimento: “In questo momento, tutta la ferocia della tigre prese possesso di me ed avvertii verso la povera creatura,  il compagno Parker, il più intenso, il più diabolico odio” [10].

È la selezione naturale per la sopravvivenza? È la regola dell’homo homini lupus a dominare nelle situazioni al limite e a fare piazza pulita delle sovrastrutture morali, di qualsiasi etica? Poe non sembra con la storia di Pym dare una risposta definita, piuttosto invita a scendere dagli scranni intellettuali, dalla comodità del distacco razionale e ad immedesimarsi nel vissuto. Da notare che Poe sorvola però sull’orribile esito della vicenda, fermandosi stavolta ad un passo dal limite, all’uccisione del povero Parker, senza indugiare oltre. Forse era ancora troppo presto per varcare una soglia cosí estrema, che per la letteratura o la cinematografia attuale è ormai un’altra porta sfondata.

Il processo di formazione di Pym non termina certo qui, e pare indugiare piuttosto sulla riproposizione di continui smacchi, di continue sfide all’eventualità di un accomodante esito positivo. Un altro colpo di scena geniale, che precede di poco l’episodio di cannibalismo, preannunciandolo in qualche modo, è nell’approcciarsi di un vascello che, agli occhi dei disperati naufraghi, sembra finalmente mettere la parola fine ai lunghi giorni di fame, sete e disagio. Ma proprio nell’apice dell’entusiasmo, nel delirio della gioia, si rivela la massima delusione, la più ingannevole delle visioni: il vascello – chiaro riferimento alla Ballata dell’antico marinaio di Coleridge, è un carico di morti, laddove il marinaio a loro apparentemente sorridente ed ammiccante (ennesima trovata geniale di un Poe incredibilmente ispirato), altro non è che un cadavere legato all’orlo dell’imbarcazione e consumato dalla voracità di un gabbiano appoggiato sulla sua schiena, lo strambo sorriso dovuto alle labbra divorate dall’animale, il gesticolare provocato dai suoi morsi sul dorso.

Qui, dicevamo, viene preannunciato il tema del cannibalismo, ma ancora sussiste un barlume di etica a frenare gli animi, quando il gabbiano, un possente volatile dalle piume insanguinate, abbandona la preda per librarsi sopra il relitto dei naufraghi e per lasciar cadere ai loro piedi un pezzo di interiora del povero marinaio: “Possa Dio perdonarmi, ma ora, per la prima volta, un pensiero mi attraversò la mente, un pensiero di cui non farò menzione e sentii me stesso fare un passo verso il punto insanguinato. Guardai in alto e gli occhi di Augustus incontrarono i miei con un carico di intensità e significato da riportarmi immediatamente in me. Balzai velocemente in avanti e, con un profondo brivido, gettai l’orribile cosa nel mare” [11].

E che dire dell’incontro con gli indigeni? I due naufraghi rimasti, Pym e Peters vengono salvati dalla nave Jane Guy ed insieme approdano a delle inospitali isole ai limiti dell’Antartide. Gli abitanti di Tsalal, primitivi nei loro costumi, si dimostrano tuttavia accoglienti dopo un’iniziale diffidenza. Qui il lettore è portato a pensare ad un esito ottimista, ad  un felice incontro fra culture, dove la modernità può incontrare serenamente e senza timori modi di vita tribali. E invece no. Dopo settimane di convivenza pacifica e di interconnessione, viene allo scoperto il vero piano della tribù selvaggia, la quale compie un’orribile mattanza di tutto l’equipaggio straniero, in cui Pym e Peters si salvano solo per una straordinaria coincidenza. Ai due non resta che la fuga, a bordo di una canoa sottratta ai selvaggi, che si conclude con l’approssimarsi sempre di più, risucchiati da una straordinaria corrente, al limite del mondo, che secondo alcune strampalate teorie dell’epoca doveva essere uno degli accessi al centro della terra. Acque bianche e clamorosamente calde solcano questa porzione di pianeta, avvolta da una pesante foschia, nel mezzo del quale si erge una misteriosa, gigantesca creatura bianca. Ho voluto riassumere questo frangente perché si tratta di una delle parti in assoluto più misteriose  e meno capite di Poe.

A mio avviso Poe non voleva dare nessuna idea o messaggio definito con questo finale. Semplicemente, dopo un dispiegamento così ferocemente onesto delle dissolutezze umane così come viene fatto in tutto il corso della storia, aveva bisogno di uno stratagemma per chiudere la narrazione in una sorta di sospensione, perché come altro avrebbe potuto concluderla? Qualsiasi altra chiosa esplicita e razionale, magari con un accenno di moralità per equilibrare le coscienze,  sarebbe apparsa o superficiale o al di sopra delle righe.

(continua da https://criticaimpura.wordpress.com/2012/10/31/il-se-multiforme-di-edgar-allan-poe-e-la-discesa-nellabisso-del-disumano-prima-parte/)


[1] Ibid., p. 596.
[2] E.A. Poe, op. cit., p. 264.
[3] Ibid. p. 263.
[4] Ibid, p. 113.
[5] E.A. Poe, William Wilson, in E.A. Poe, op. cit., p. 151.
[6] Ibid., p. 155.
[7] Ibid., p. 154.
[8] Ibid., p. 155.
[9] E.A. Poe, The Narrative of  A. Gordon Pym of Nantucket, in E.A. Poe, op. cit., p. 652.
[10] Ibid., p. 652.
[11] Ibid., p. 644.

4 pensieri riguardo “Il Sé multiforme di Edgar Allan Poe e la discesa nell’abisso del disumano. Seconda parte

  1. Il Pym dà un senso di incompiuto, a differenza di tutta la produzione di Poe, narrativa, poetica e ovviamente saggistica. È la corrente sotterranea, probabilmente, cui il genio di Boston allude nelle sue teorie della creazione artistica,il background, l’humus. Poe allora aveva un fondo polare, oltre che enigmatico, come le scritte misteriose incise sulla roccia? Un cuore gelido. Poi, verrà incasellato in vari generi, horror, psycho-horror, fantastico, maudit. A me è sempre parso, leggendolo e mettendolo in scena, un freddo signore. Anche Freud era un freddo. Ciò è perturbante? L’architettura turba più del sentimento nella narrazione. Mentre è complementare al teatro.

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