Se il populismo vuole allungare le mani sulla cultura

Massimiliano Panarari

Di EZIO SAIA

Un titolo con almeno due termini, “populismo” e “cultura”, congiunti dal volgarissimo verbo “allungare le mani” che evoca nella sua vasta significazione anche l’azione del furto, e quello della palpazione sessuale.

Casuale? No, voluto.

Come sempre lo scritto di Massimiliano Robespierre, pardon Panarari, è di rara volgarità anche se il culmine lo ha raggiunto in passato quando espresse il suo entusiastico plauso all’abolizione dal palinsesto RAI dell’Isola dei famosi. Anche allora Robespierre Panarari plaudiva ad un’opera di censura in nome della cultura, della civiltà, della società civile.

Posizione non diversa da chi malignamente afferma che il 50 per cento degli elettori della lega ha appena la licenza elementare. Beh, siamo in tanti allora. Ma quali persone hanno solo la licenza elementare e non le succulente lauree d’elite, dopo l’appropriata base di un buon liceo classico, con tanto di greco? Probabilmente molti di questi rozzi, ignoranti, ha cinquanta e più anni e viene dalla notte dei tempi; da quella notte di quel povero dopoguerra, quando al lavoro si andava in bicicletta o su qualche vecchia Vespa e alla fine delle elementari per aiutare, per campare, per ricostruire, si faceva l’operaio in catena, il tubista, l’elettricista, il cameriere, il meccanico aggiustatore, il tornitore, il fresatore, il muratore, il piastrellista e, non raramente, quando ce n’era necessità, tutti questi mestieri.

“Perché queste scelte faticose e stupide” si chiederanno i polli d’elite “I licei classici ci sono sempre stati, la lingua greca pure e allora perché erano così sciocchi da fare mestieri così faticosi? Valli a capire questi ignoranti che oggi votano Salvini!”

 Molti si mettevano come si diceva allora “in proprio”, diventano impresari, in tutti i rami e per loro oltre le conoscenze del mestiere, dei mestieri – arabo per i polli d’elite – fu necessario imparare a districarsi tra permessi, tasse, cambiali, libri contabili, insoluti, estensione e calcolo di preventivi, programmazioni: un mare di conoscenze di cui dovettero appropriarsi senza ricorrere ai banche di scuola e non sostenute da una buona, sana, efficace, unificante conoscenza di quel greco classico, che solo il liceo poteva garantire. Ma anche chi non era in proprio era un’arnia di conoscenze. Dopo il lavoro in fabbrica, i nostri baldi, con solo le elementari, coltivavano i loro campi, si costruivano e ricostruivano la casa, acquisendo oltre alle altre già in loro possesso, queste nuove, svariate conoscenze e abilità.

Fecero l’Italia e il suo benessere. Impararono sul campo le conoscenze necessarie, pagarono con il loro lavoro i licei ai loro ricchi, colti, potenti, compatrioti.

Solo a questo punto si può aprire con una visuale non ampia come dovrebbe essere ma comunque più ampia di quella stitica e snobistica dell’elite, il discorso sulla cultura, attualmente recintata al teatro, alle mostre, al cibo, al vino, alle nocciole, al cioccolato, ai bachi da seta, alla fecondazione artificiale dei coleotteri, alla coltivazione dei bucaneve, ecc. Questi sì che sono campi abbracciati dalla galassia Gutenberg, soprattutto quella dei teatri.

Una cultura oltretutto coltivata non tanto nei teatri ma nei ridotti dei teatri, nei salotti alla moda, dove ancora elitariamente si discrimina, dove coltissime posizioni snobistiche entrano fra loro in competizione e costruiscono altre scale di snobismo come quelle di un Puccini troppo popolare, di Mascagni troppo sanguigno e volgare, quella di un Verdi fracassone e troppo popolaresco e poco spirituale, troppo sempliciotto e terragno a paragone del divino, spirituale Wagner. Elitarismo che non coinvolse Stravinskij, che, in una delle sue conferenze, dichiarò: So che vado contro l’opinione comune che vuole il miglior Verdi sia nell’alterazione del genio al quale dobbiamo Rigoletto, il Trovatore, l’Aida la Traviata. So di difendere precisamente quello che una elite recentissima disprezzava nell’opera di questo gran compositore. Ne sono spiacente; ma affermo che c’è più valore e più inventiva nell’aria de “La donna è mobile”, per esempio, in cui questa elite non vedeva che deplorevole facilità,di quanto non ce ne sia nella retorica e nelle vociferazioni della Tetralogia.

Per questa predilezione per il popolare, per la sua concezione artigianale dell’arte, per l’umiltà e l’indifferenza verso l’elite culturale con la quale percorre il suo itinerario artistico e culturale fino alle splendide ultime opere influenzate dalla dodecafonia, Stravinskij è il nostro artista.

Sulla cultura dei nostri pomposi addetti, Mattioli è addirittura sarcastico quando scrive “Centenario della morte di Paisiello. Quasi nessuno dei grandi teatri se l’è ricordato (ammesso che lì qualcuno sappia chi era Paisiello)”.

Intervistata dal Giornale Cecilia Bartoli dichiara  “Nei teatri italiani troppi privilegi: vanno licenziati tutti”, “Se accetterei la direzione di un teatro italiano? «A patto di poter licenziare tutti e ripartire da zero. Probabilmente la strada è proprio questa: fare un po’ di pulizia generale”.

Forse ha ragione con l’esigenza di ripartire da zero. Forse sul suo giudizio influiscono l’enorme considerazione di cui gode all’estero e la disattenzione di cui è oggetto in Italia.

Certamente la visuale da cui Cecilia Bartoli guarda ai problemi della lirica italiana è di parte. Lei fa parte di quelle persone che dalla lirica trae fama, ricchezza e vita brillante.

Fama e ricchezza e vita brillante che sono pagate a caro prezzo anche da coloro ai quali il teatro di prosa, come l’opera e, più in generale, la cosiddetta musica classica, non piace, o comunque, anche se piace non frequenta, a favore di coloro che nella lirica lavorano e dalla lirica ricavano emolumenti generosi. L’opera come disse un ministro italiano dà da mangiare ma non certo a tutti. A me come a molti altri, che amano la lirica ma non lavorano nel campo e non frequentano i teatri, la lirica non solo non dà da mangiare ma esige voracemente e incessantemente danaro che pesca nelle nostre tasche. Io e quelli come me devono dirlo chiaro: coloro che frequentano i teatri lirici e di prosa sono parassiti: metà, più di meta del loro biglietto lo paghiamo noi. Perché dovremmo continuare a farlo? Se lo paghino loro. Come si pagano i pomodori, gli aperitivi, i taxi e via dicendo, si paghino anche gli spettacoli senza chiedere i nostri soldi. Anche i tifosi preferiscono andare allo stadio per assistere alle partite dal vivo ma si pagano il biglietto oppure si abbonano e le guardano in televisione. In ogni caso con soldi loro, non con i soldi nostri.

Cultura

Il nostro Panarari parla di cultura. Immagino che sappia cos’è. In questo caso questo esperto in insulti, ci illustri, ci guidi, ci dica:

è cultura il resto di Peano? E cultura un verso della Secchia rapita di Tassoni? E’ cultura il teorema di De l’Hopital? Sono cultura una ottava del Pulci, il concetto di infinitesimo, l’anno di Marenco, il senso di termini come polo, polare, ellisse centrale d’inerzia? E’ cultura la logica deontica del “Non poteva non sapere”? La capacità di un tornitore di leggere un disegno meccanico e ricavarne un prodotto?

Insomma dove abita la cultura? Quali sono i suoi confini, dove stanno il cancello d’ingresso, la scala per accedervi? Cos’è la galassia Gutenberg?

Esiste una Galassia non Gutenberg? Che vuol dire “non passa attraverso la galassia Gutenberg”? Vuol dire che passa di meno attraverso i libri di carta stampata, che passa di più attraverso gli scritti in forma e-book, o comunque pubblicati sul web?

L’articolo di Panarari attinge abbondantemente al comico, come comiche furono le parole di Bobbio sull’editore Einaudi che, a suo parere, avrebbe portato “la cultura agli Italiani”. Forse Bobbio prima avrebbe dovuto leggere il saggio sulla denotazione di Russell, ma a parte ciò sono stati altri gli editori che hanno portato la cultura non agli italiani, ma a tanti italiani e per noi, che diventavamo adulti, non furono certo le dispendiose, inaccessibili, edizioni Einaudi.

Una vera manna fu, invece, l’orgia di dispense culturali a basso prezzo che cominciò a uscire nelle edicole. Parlo di Capolavori nei Secoli, de I maestri del Colore, editi dai Fratelli Fabbri, di quelle geografiche de Il Milione da cui io, che non avevo mai sentito altro che le nenie dei papaveri, delle papere, dei balli del mattone, delle mamme amatissime, degli alberi infiniti in una stanza, e che pensavo che la musica fosse tutta lì, appresi giovanissimo l’esistenza di una storia della musica. Dal Milione appresi che esisteva in ogni paese una storia della musica che unificava i secoli, che erano esistiti Monteverdi, Palestrina, Mozart, Paisiello, ecc. Più tardi, negli anni, uscirono nelle edicole i fascicoli di Storia della musica.

Molti pezzi classici come le sinfonie di Beethoven, la Sesta di Ciaikovskij, la Sinfonia del nuovo mondo, ecc. o opere come Otello, ecc. erano in vendita alla Standa per la modica e popolare cifra di mille lire a disco. Rizzoli e pubblicava i capolavori nella Bur: tutti i capolavori più o meno grandi del passato anche recente, in edizione economicissima e povera. Mondadori pubblicava accanto all’aristocratica e cara Medusa di scrittori moderni e contemporanei, collane di libri economici (bmm e Pavone ad esempio), che abbracciavano romanzi moderni, classici, pittura, architettura saggistica, filosofia.

L’offerta di cultura a costi popolari era ampia e non veniva da Einaudi. L’Italia posava mattoni per le abitazioni popolari e meno popolari ma anche mattoni culturali per le tasche proletarie. L’unico problema era l’abbondanza e la necessità per i giovani di quei tempi, non finanziati dalle ricche famiglie elitarie, era l’impossibilità di comprare tutto e di dover fare scelte ogni settimana. Ma furono comunque tempi culturalmente folli. La lotta politica fra due grandi partiti effettivamente popolari andava a braccetto con l’abbondante offerta di cultura a prezzi popolari.

Accanto ai grandi editori interclassisti in grado di accontentare tutti i gusti e tutte le tasche, c’era l’Editore Einaudi, uomo ed editore di sinistra, impegnato nel costruire una supremazia culturale con edizioni ricche, belle e care non certo per le tasche proletarie. I suoi erano tutti cuciti eleganti, veri arredi per librerie di gente snob, ignorante e non ignorante. Era ovviamente l’editore osannato dalla società civile, dall’elite nobile e radical chic, che disprezzava i grandi editori e ancor più li disprezzò fino all’odio allorché a rilevare una Mondadori in fallimento per le perdite T.V., arrivò l’arcinemico Berlusconi che poi salvò dal fallimento anche Einaudi. Non un merito per la società civile ma un’altra offesa da lavare a tutti i costi.

L’Einaudi rappresentava la negatività della democrazia italiana, l’immagine della repubblica platonica dell’Espresso e dell’egemonia culturale radical chic. Il PCI s’era sposato con L’Espresso e s’era convertito alla repubblica aristocratica di Platone ed era stato un matrimonio fra asini e muli, grandi bestie ma che generano solo improduttivi muli.
Dice Robespierre Panarari: Qui siamo andati ben al di là del dibattito sui caratteri della cultura di destra, perché per ideologia “neopopulista”molto semplicemente “la cultura non dà pane” e soprattutto, non procura voti.

Non c’era bisogno di Panarari perché ci accorgessimo che accanto alla cultura targata Einaudi è nata da tempo quella targata Adelphi. Nata in ritardo e subito assimilata: stessa puzza sotto il naso, stessa discriminazione culturale, golem costruito con lo stesso fango.

Una cultura che avrebbe potuto essere un passo avanti rispetto al polpottino primo gradino di Einaudi ma che frequentava gli stessi ovattati salotti, gli stessi club esclusivi, che brindava con la stessa mafia di giornalisti venduti. Gli editori che vorremmo sono quelli coi quali siamo cresciuti, in un’Italia dove erano forti due grandi partiti popolari, veramente popolari come D.C. e P:C.I.

Se Panarari queste parole le avesse dette molti anni fa, quando l’Espresso e la Famigerata Cederna, anticipando Bossi, diedero vita il colpo di stato che portò alle di missioni del presidente Leone, colpevole di appartenere una cultura popolare napoletana, quella del sangue di San Gennaro e delle corna, quando il vecchio PCI consumato dalla storia, non sapendo che pesci prendere, dopo aver rifiutato le spregevoli ed elitarie guide spirituali e culturali del Partito d’Azione e del Manifesto, visto l’enorme successo dell’operazione contro Leone, scelsero l’Elite e si rifugiarono sotto la protettiva, borghese, elitaria coperta dell’Espresso, scegliendolo come Chaperon per entrare nel palazzo della repubblica dei saggi di Platone.

Molti di noi forti di quelle letture, di quella musica poterono tranquillamente affrontare istituti tecnici come scuole secondarie o università come fisica, politecnico, matematica, potendo infine guardare a voi umanisti con un giusto senso di superiorità, rifiutando anche il termine di intellettuali che appartiene ad avvocati, a letterati, a laureati di filosofia, del tutto privi di cultura scientifica e tecnologica. Gente, immagino, simile a lei. Gente così disabituati a pensare che oltre al NO BERLUSCONI, NO SALVINI, LA CULTURA CI FA MANGIARE proprio non riescono ad andare.

La Cultura ci fa mangiare? Polemica vecchia e risposta semplice: sicuramente la cultura – e con questo termine abusato, intendo i teatri di prosa e lirici, gli attori, i registar, i conductstar, i dipendenti di stabili, di regi – da mangiare ne dà in abbondanza. Peccato che questo benessere venga prelevato dalle tasche di tutti i contribuenti. I contributi statali, regionali delle fondazioni sono enormi e vanno oltre il 50% dei costi. Quando i difensori dei teatri, delle fondazioni, dell’intrico di consigli di amministrazione mi spiegheranno perché io devo pagare per il loro sollazzo che forse neppure esiste, mentre esiste tanta ostentazione di abiti e di presenze, allora si potrà cominciare a discutere.

Inutili i richiami alla cultura e all’arte diffusa dai teatri quando neppure il teatro crede più in se stesso. Oggi gli Dei del teatro di prosa e lirico non sono più i Verdi, i Puccini, i Mascagni, i Pirandello ma i regi-star Mazinga e i conduct-star Goldrake. La civiltà culturale delle società civili e imperiali sono sterili come i muli. Producono burocrati e copie ma non arte. Torino, la tanto esaltata Torino, paragonata da molti alla Firenze rinascimentale, non produce nulla né prosa né lirica ma si limita a replicare impavida le solite Traviate, i soliti Rigoletti, diretti dal Conduc-star di turno, vero mago Zurlì, e dal Regi-star di turno che trasforma il Mar Rosso in un panzer israeliano. Nulla che fare con le città rinascimentali come Firenze e Venezia coi loro affreschi, le loro pale, i loro palazzi, l’invenzione dell’Opera, la grande fecondità di filosofi, scrittori, poeti, pensatori che parlavano e scrivevano in volgare, lontani dallo stantio aulico latino della società civile papale e imperiale, neppure laureati, producevano opere, spremevano le loro cervici, creavano capolavori e non repliche di capolavori. Non erano studiosi Leonardo, di Monteverdi, di Machiavelli ma erano Leonardo, Monteverdi, Machiavelli. Non avevano frequentato le università, non avevano sentito i professoroni, disquisire sul sesso degli angeli, sull’anima, sulla natura di Maria, ma avevano lavorato in bottega e letto libri. Quelle erano le loro università. Del resto nessuno fra i grandissimi operisti dell’Ottocento, Verdi, Wagner, Musosky, aveva frequentato il conservatorio. Se lo avessero fatto, i severi e colti professoroni sarebbero riusciti a nebulizzare la loro grande arte.

Certamente l’Opera, invenzione italiana, è un fiore da ostentare. Certamente è un ottimo biglietto da visita per tutto il Made in Italy ma quanti teatri d’opera? Quanti ne servono per conservare il prestigio dell’Italia operistica, inventrice dell’opera? Che scala di importanza va attribuita ai vari centri di quella che viene chiamata produzione musicale ma che in realtà non produce nessuna nuova composizione ma solo repliche, sperpero e parassitismo? I grandi centri storici sono Venezia (dove lavorarono Monteverdi, Cavalli e Vivaldi e dove nacque l’imprenditoria teatrale), Roma (dove produssero Carissimi, Scarlatti, Rossini, dove ai primordi venne messa in scena la rappresentazione di Anima e corpo di Emilio del Cavaliere, Milano (la Scala è il teatro d’eccellenza del romanticismo), Napoli (patria o patria d’elezione musicale di compositori come Paisiello, Cimarosa, Piccinni, A. Scarlatti, ecc. dove produssero anche Rossini e Donizetti). Ma quattro sono troppi, oltre l’importanza storica bisogna attenzione al bacino di utenza. Se i bacini di utenza di Milano e Roma sono appena discreti quelli di Napoli e Venezia non lo sono. Due grandi teatri d’opera con funzioni di produzioni di alta qualità sono sufficienti, quattro sono tollerabili.

Questo per teatro d’opera ma il discorso del teatro di prosa è tutt’altro. Non siamo noi a condannarlo ma lo stesso teatro a sussurrare, sotto lo strepito dei registi e degli attori: “Sono morto”. Dopo i grandi dei primi decenni del secolo scorso, solo Godot è stato vanamente atteso. Al suo capezzale furono invocati, decine di anni fa, anche gli scrittori più in voga come Moravia, che s’impegnò ma con risultati scadenti.

Questa è la nostra sfida a voi elitari: non era difficile prevedere che questa aristocratica elite avrebbe ridotto l’Italia e l’Europa al disastro, all’umiliazione delle classi medie, alla rabbia sociale, alla povertà di tutti e alla ricchezza di pochi. Il pensiero unico di sinistra trionfava, il nuovo elitarismo di sinistra trionfava, alimentato da una moltitudine di giornalisti, attori, registi, che vivevano la loro brillante vita a spese dei contribuenti. Ripetiamo: perché io dovrei pagare il biglietto d’ingresso a chi va all’opera o a teatro? Perché? Per consentire a pochi privilegiati di pasteggiare ad aragoste e Champagne? Per consentire ad attori, cantanti, saltimbanchi di riscuotere uno stipendio che non guadagnano? Per aggiungere ai parassiti sempre nuovi parassiti? No, non allunghiamo le mani su ciò che lei chiama cultura, senza sapere cosa sia questa benedetta cultura. Non ci interessano le vostre intricate foreste di fondazioni, presidenti, consigli d’amministrazione. Vi vediamo come vuoti, ciechi, ignoranti relitti, come gli artisti e gli studiosi rinascimentali vedevano, i professoroni delle università clericali, muli, inutilmente dotti in agiologia che discutevano sul sesso degli angeli in latino, in una lingua morta il Latino, ormai linguaggio privato coltivato solo nelle loro serre per discutere sul sesso degli angeli?

Non occuperemo le vostre sedie che guidano i vostri allevamenti di polli d’elite, di parassiti che vivono, mangiano e banchettano: parlo di tutta la gente dei teatri di prosa e lirici, di tutti i finanziamenti ai quotidiani che producono tante inutili pagine, pagano inutili stipendi coi nostri soldi, consumano pioppi, sprecano energia per trasformarli in carta li riempiono di inutili articoli, che ripetono sempre le vostre manfrine.
La parola d’ordine deve essere abbattere le elite, cacciare i parassiti, chiudere gran parte dei teatri lirici, chiudere tutti i teatri di prosa che non siano in attivo, eliminare i contributi ai giornali ed agire con decisione: con grande decisione. I giornali sono appestati da giornalisti ed opinionisti in lotta a fianco dell’elite e i conduttori televisivi non sono da meno.

Sì, certo, Professor Panarari, vogliamo mettere le mani non sulla cultura ma su ciò che l’elite considera cultura: non sopra ma dentro, nella vostra melma, che ruba i nostri faticosi denari per ripetere quotidianamente.

“Noi siamo belli, colti, fraterni, accoglienti, intelligenti, voi siete brutti, barbari, ignoranti, qualunquisti” mentre in realtà siete ignoranti come una professoressa in lettere italiane, che da noi irrisa perché, da intellettuale quale voleva apparire, non aveva letto neppure Guerra e Pace, neppure Il Rosso e il Nero, reagì gridando che la cultura era partecipare ai cortei del primo maggio e rinnovare quello spirito ogni giorno.

E’ questa la vostra cultura professoron Panarari? E questa la sua cultura Professoron Panarari? Approva, professoron Panarari questi teatri d’opera ignoranti che rappresentano in permanenza Traviate e Rigoletti? Pensa anche lei, come molti suoi elitari, che esiste solo il Rock, che la musica sia nata con Papaveri e papere, sia proseguita con gli Alberi infiniti in una stanza, con i “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” e poi finalente le canzoncine filastrocche dei Beatles, non migliori delle canzoni tipo Furia cavallo del West o della romantica Haidy?

Non sono diversi dagli snob dell’opera che pensano che la musica sia iniziata con Mozart.

Nulla da dire su chi privilegia il rock e i canzonettari. E’ una questione di gusti e sui gusti non si discute. E poi loro campano coi soldi che raccolgono con la vendita dei brani e con i grandi concerti dove gli ascoltatori saltano e cantano con loro, senza chiedere i nostri soldi. Un entusiasmo stridente con le mummie che seggono nei teatri d’opera.
No, non ci interessa allungare le mani sui vostri salotti ovattati anzi: fine dei finanziamenti statali a teatri di prosa. Altra cosa l’opera che, nata in Italia, contribuisce a creare il fascino dell’italian style e della nostra moda, unica arte creativa, viva e produttiva. Ma in ogni caso finanziamenti moderati e solo a Napoli, a Roma, a Milano, a Venezia. Quattro teatri al massimo anche se nostro gruppo alcuni porrebbero ridurli a due Milano e Napoli. Basta riedizioni, basta copie ma preparazione di un terreno che favorisca nuove creazioni. All’inizio del secolo scorso un editore musicale (non era Ricordi) bandì un concorso annuale per un’opera lirica NUOVA, la stessa iniziativa prese un altro editore in Germania. Ma ancor oggi professoroni e direttoroni dicono che giustamente le due iniziative si estinsero perché ne uscirono solo Cavalleria in Italia e Palestrina in Germania. Solo Cavalleria e Palestrina? Solo Cavalleria e Palestrina (un’opera amatissima da Mann)? Solo Cavalleria? Cavalleria creò un genere che sfornò tra l’altro Pagliacci e influì anche su Puccini: e loro dicono solo Cavalleria!

Pensa, professorone, che i suoi correligionari conoscano i nomi dei compositori che lavorarono nei teatri d’opera e abbiano sentito per sbaglio la loro musica? E lei li conosce?

Lei è uno dei tanti professoroni, germogliato in quelle corti papaline che sono le nostre università, soprattutto in quelle umanistiche. Le università italiche, fogne ignoranti e generatrici di parolai professoroni.

“Qui siamo tutti parenti e gli altri li schiacciamo” intitola la Stampa del 29 giugno, aggiungendo “Così i baroni universitari truccavano i concorsi.

Non solo parenti ma tutta l’elite è impegnata per se stessa e per i suoi lupetti, sui quali sarebbe veramente ora di fare un’inchiesta seria. Oppure vogliamo arrivare a un punto che qualche pazzo, esasperato, prenda il fucile e spari a un convegno per azzerare lupi e lupetti?

“Ecco i sovranisti che vogliono azzerare democrazia e giornali” sento urlare nelle vostre teste. “I giornali e i giornalisti sono il pilastro della democrazia” Anche l’infame Cederna e i giornalisti del gruppo Repubblica e l’Espresso che la sostennero nell’insana accusa al commissario Calabresi e al presidente Leone? Anche quelli che si lanciarono in una vera gara, un coro di accuse, disprezzo e odio verso Berlusconi e i suoi elettori? E oggi si ripetono con Salvini? Anche quelli che sostenevano la necessità di un esame d’ammissione al voto per quei rozzi cittadini che votavano Berlusconi? Non lo scrisse anche Gramellini in un suo Buongiorno? Abbattere Berlusconi a tutti i costi?

Sulla cultura l’avvento di Berlusconi fu rivelatore. Le accuse di ignoranza, di fascismo, di barbarie al potere furono ossessive. Nulla da dire sulle accuse di conflitto di interessi. Molti di noi le condividevamo allora e le condividono oggi. Ma l’esplosione di rabbia fu tutta contro cultura che rappresentava. Noi che da piccoli allievi dalle elementari avevamo sentito le nostre maestre ingiungere “Studia! Mica vuoi restare asino come un Bantù!” Noi a cui successivamente avevano con pazienza spiegato, che tutti i popoli, anche i Bantù, avevano la loro cultura che andava rispettata, ecco che, con l’arrivo del popolo sostenitore di Berlusconi, venivamo tacciati di bieca incultura. L’esaltata e fanatica opposizione alla cultura berlusconiana portò, ad esempio, la rivista Kainos n. 11 a una raccolta di scritti dal titolo Ignoranza e cultura in Italia, il tutto all’insegna del detto dell’eccelso, sapiente, sotutto e professorone Stefano Bartezzaghi che recita “Il berlusconismo è elaborato in modo da essere pienamente compreso e accettato soprattutto da chi più è privo di strumenti culturali.” Il che significa, tra l’altro, che chi votava contro Berlusconi prima e per Berlusconi poi, aveva perso dalla sua tasca i fatidici “strumenti culturali”?

Cultura? Parliamo del cinquantennio di pesante giogo di egemonia della sinistra, della cultura antiamericana, della criminale cultura comunista di Lenìn e Stalin? Parliamo del nuovo razzismo antiebraico, della sinistra filo palestinese fino all’assurdità?

L’archiviazione dell’egemonia culturale delle sinistra è lungi da venire. La sinistra, intendo quella del PCI si è rifugiata sotto l’’ombrello snob, radical chic, antipopolare del gruppo Repubblica e, in generale, nel comodo fortino dei giornali e dei giornalisti, pilastri della democrazia.

Il patto infame prevede l’intoccabilità degli stratosferici denari di giuda ai giornali che permette a giornalisti e opinionisti come lei di banchettare ad aragoste e champagne.

Del resto, a conferma di quanto detto finora, sempre su La Stampa, in un’intervista, Sabina Guzzanti auspica che la RAI non venga governata dai partiti ma da un gruppo d’intellettuali, il che è perfettamente in armonia con una democrazia alla repubblica di Platone, dove i saggi, i sapienti governano decidono per il bene di tutti, anche dei più rozzi e quindi come gentile concessione non imporrebbero solo ciò che piace a loro ma per benigna concessione anche spettacoli leggeri per far contenti questi benedetti ragazzi, che si divertono solo con baggianate, spesso repellenti, ma tant’è, bisogna aver pazienza ci sono anche loro, senza superare certi limiti intollerabili, però, come il Bagaglino e l’Isola dei famosi, che ai nostri saggi intellettuali e pomposi professoroni o donnoni proveniente da quel vero covo d’elite che è la banca d’Italia.

Ho detto “Donnoni”? che vergogna ma insulti di questo tipo non sono stati definivamente sdoganati dalla nostra Sabina nonchè Guzzanti il giorno fatidico e storico in cui apostrofò Ferrara con il termine “CICCIONE”?

Il Professorone Panarari parla poi dell’Esecutivo a “trazione leghista che sferra il primo cazzotto (progetto di riorganizzazione dei musei) e il secondo l’ostentata simpatia per il programma “Il grande fratello” che secondo il comico Panarari fa da filo conduttore lungo tutta l’epopea berlusconismo, renzismo, grillismo, salvinismo. Grande epopea dove e’ onnipresente oltre che il Grande fratello, la Nutella, portafortuna tanto di un noto regista che preconizzò un mai avvenuto assalto alla procura di Milano. Insomma siamo con Berlusconi sarebbe dovuta avvenire la fine della civiltà, la fine del mondo, altrettanto con Renzi, altrettanto coi grillini, altrettanto con Salvini. Fine del mondo ed inizio di un nuovo medioevo barbarico se la provvidenziale donnona (Termine sdoganato dall’eccelsa Sabina) non avesse abolito “L’isola dei famosi”, tre professoroni radical chic “Il Bagaglino” e, se il “popolo” italiano non avesse iniziato a far la danza della pioggia attorno alle procure.
Ma il Grande fratello e la Nutella ancora incombono, e la lotta contro coloro che intendono “Massimizzare” in maniera ossessiva e inesorabile, per vincere quelle abominevoli elezioni democratiche dove non vincono i saggi sapienti ma i sozzi ingozza tori di Nutella e di Grandi fratelli. Ma quando la finiremo con questa democrazia da accattoni e insegneremo, magari con la frusta agli elettori come si deve votare?

“Ferrea legge dei consensi”? la politica In politica si chiama democrazia. Vogliamo che metà Italia faccia teatro, televisione, filmografia, cultura e giornalismo pagato dall’altra mezza Italia, professor Panarari? E’ già così.

Quello che i nutellari propongono è “un modello (apparentemente paradossale) di following leadership identitaria” scatenato dalla nutella? Identitaria questo è un altro termine che lei, come del resto tutto il giornalismo al servizio del padrone, non approfondisce. Identitaria con cosa? Con la nazione, con la lingua, con la civiltà, con la cultura? Forse sarebbe meglio che i giornalisti approfondissero la complessità delle ramificazioni concettuali. A me come, a molti miei conoscenti (tutti populisti e incivili naturalmente) l’identità nazionale interessa nulla. Il Trentino alto Adige austriaco? Non vediamo l’ora che se ne vada dall’Italia con tutti i denari che ci succhia. L’indipendenza della Sardegna? Perché no? L’indipendenza della Catalogna? Certo. Della Corsica? Certo, la divisione del Belgio certo? L’indipendenza dei paesi Baschi dalla Spagna e dalla Francia? Certo. L’autonomia di Firenze? Certo.

La civiltà è nata nella Grecia delle città divise ed è rinata nei comuni, delle città rinascimentali come Firenze, Siena, Milano, Genova, Mantova, Venezia. A che serve l’autodeterminazione dei popoli, se poi non viene applicata. Che importanza ha l’autonomia della Catalogna in un ambito dove vige un leggero velo di unità europea e non l’impero? Le città greche nemiche fra loro seppero allearsi contro l’esercito imperiale persiano, le città italiane, che rinnovarono il miracolo culturale greco, seppero allearsi e bloccare l’impero, il Barbarossa. E con l’impero e il Barbarossa giungiamo a un altro punto dolente per gli “Identitari”: l’Europa è per noi l’impero e il Barbarossa, da demolire a favore di una coperta più leggera, per voi, invece, da ispessire nella sua corazza, nelle sue armi.

Non parliamo poi del demenziale sistema dei soldi dati dagli stati all’Europa e restituiti dalla Europa agli Stati. Giustissima la ripartizione verso zone e comunità più povere, ma non il metodo: branchi di professoroni che negli stati, nelle regioni, studiano, elaborano progetti e branchi di professoroni che nei salotti europei, li esaminano, li approvano, li bocciano, li modificano. Due passaggi professorali di “Esperti” costosissimi e inutili, forse dannosi. Due barriere elitarie cui si danno soldi e potere. Potere per cosa Per valutare? Chi sono queste congreghe di professoroni? Quanto sono attendibili? A questo punto dovrebbe risvegliarsi quella mentalità scientifica, che sarà pur squadrata ma sarebbe salutare in tutta la società? Inorridiamo di fronte a certi dati spacciati per scientifici che violano le regole elementari, quelle che se non osservate, ridicolizzano ogni laboratorio di misure scientifiche. L’esito di un calcolo di una misura non è un numero ma un intervallo di valori con allegata l’indicazione del metodo utilizzato, degli strumenti utilizzati per arrivare a quell’intervallo. Numeri comunque aleatori perché quel + e quel – certificano gli errori che possiamo valutare.

Prima dell’ultima recente valutazione sulla convenienza della linea di alta velocità con esito ampiamente negativo, nonostante le spese già sostenute, altre tre o quattro erano state fatte con esiti positivi. Possibili che nessuno si chieda: erano incapaci e ignoranti quelli di prima o quelli di oggi? In ogni caso il tempo, i soldi, il potere se li sono presi il primo e il secondo branco. Evviva! Un evviva alla oggettività e alla correttezza.

Un po’ più di oggettività scientifica, un po’ più di cultura scientifica, un po’meno di sociologia, di psicologia, di politologia: danno il premi nobel della biologia, della fisica, della chimica e che fanno i giornalisti? Approfondiscono dedicano qualche dibattito ai vincitori e alla scienza? No continuano con le loro cretinate sull’Europa, su Prodi, su Salvini e via dicendo: le stesse di ieri con altri attori o con gli stessi, le stesse del mese prima, dell’anno prima. Perché? Perché sono asini.

Chiediamo un sistema policentrico, un sistema molteplice di proibizioni, divieti, politiche, inventività, convenzioni, dove l’unità della lingua non si uniformi all’unità dei sistemi culturali e imprenditoriali. Molti sistemi di organizzazioni e di libertà vivificante, contro un unico centro che, benché democratico, non mantiene la ricchezza dei molti rispetto all’uno che forzatamente deve avvicinarsi all’impero repressivo di un Politburo. Un sistema che permetta ai singoli di spostarsi, di scegliere Atene rispetto a Sparta, Firenze, Venezia, Genova, Amalfi, Milano rispetto alla Roma papalina. Un sistema già glorificato, approfondito dall’ostracizzato illuminista Cattaneo rispetto alla boria rissosa, repressiva delle nazioni romantiche.

Un promemoria per il Massimiliano alla moda: no, non è affatto abbattuta l’egemonia kolkosiana della sinistra. Le case editrici, tutte, oppongono la diga delle Agenzie letterarie dove domina il radical chic, dove in fondo all’anima resiste la melma del disgusto se un romanzo mette alla berlina Einaudi, la società Snob, l’elite, il perenne festival della resistenza, le foibe e diventano culto i romanzi che preconizzano piangendo la fine degli intellettuali nelle gabbie dello zoo. In alternativa, vengono promossi romanzi, corti, banali: uno o due persone, un’indagine su un delitto, un commissario, un amore. Autori che si guardano l’ombelico, evocano l’infinita gerarchia degli inconsci, dei sottoinconsci dei sovrainconsci, la torbida palude di Freud, scritti coi piedi: anzi con un piede solo.

Ne approfitto per un appello per la nascita di una cultura popolare di destra e, finalmente di nuova nostra casa editrice, non cupa serva dell’elite, del pollaio del liceo classico e del greco.

Io non sono orgoglioso di essere o non essere più colto di lei (sicuramente più colto di lei lo sono) ma lo sono per non essermi arreso alla trasformazione della democrazia dei cittadini in repubblica platonica dei filosofi, al contrario di lei che ha contribuito e contribuisce sguaiatamente a consolidarla. Tutte le nostre democrazie si stanno trasformando in repubbliche di Platone. Se ce la faremo a fermare questo movimento sarà come ha predetto. Insomma, la chiuderemo nello zoo professorone Panarari, magari in coabitazione con una tigre. E’ contento?

Ancora una considerazione. L’elite si siede sul divano e il populismo si “stravacca”? Ci fu un tempo in cui l’atto sessuale, se fatto a sinistra era “fare l’amore”, se fatto a destra era solo “squallida chiavata”. Non cambierete mai.

Un pensiero riguardo “Se il populismo vuole allungare le mani sulla cultura

  1. Un articolo di questo calibro lo affronti trattenendo il fiato e se arrivi fino alla fine devi ringraziare di essere ancora vivo. Maledettamente vero…vero a tal punto, da far male. Chapeau.

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