In tagli ripidi: il corpo come estensione categoriale del possesso desiderante della realtà

Alessandro Brusa

Di SONIA CAPOROSSI

 

Nella nuova raccolta poetica di Alessandro Brusa In tagli ripidi (Giulio Perrone Editore 2017), attraverso l’illuminante sottotitolo (nel corpo che abitiamo in punta), diviene centrale il tema del corpo come estensione materica e grumo raddensato della parola poetica. Si tratta di una sorta di emersione umorale di ciò che, nella sensualità del versificare, viene spesso in poesia lirica rimosso freudianamente, ovvero troppo spesso trasferito in una sorta di angelicazione forzata: la sfera, estatica in quanto estetica, della fisicità, in Brusa al contrario resa centrale proprio dall’intenzione di denudare la poesia dalle velature diafane della rimozione psichica e stilistica. Il corpo si fa presenza della doppia elica ribonucleica del cronotopo, quasi appendice naturata della materia sostanziale del verso, immedesimato nelle dimensioni categoriali del tempo come presente, immediatezza, futuribilità del desiderio, e dello spazio, angusto se vissuto nella stretta estatica del contatto di corpi e sguardi, dilatato se immerso nella distanza siderale della memoria e dell’abbaglio, degli affetti e dello stato dell’essere.

Si tratta di una poesia quasi cristologica che evoca la corporeità pagana, ma mai eretica, di un cristo-tutto-sensi, perché nella transustanziazione del poeticum in carne e sangue rende ragione del trapasso modernistico del topos della physis di antica memoria saffica, alcaica, stratonica. Brusa trasfigura questa corporeità nell’ideale concreto della carnalità senza astrarla con forzature concettualizzanti e, in questo senso, In tagli ripidi quasi assume le insegne della precedente silloge, La raccolta del Sale. Il corpo, infatti, viene descritto attraverso una sorta di vivisezione non indolore, nei “tagli ripidi” cui accenna il poeta fin nel titolo, nell’elencatio delle sue parti dotate di valore autonomo ed autotelico, giacché le spalle, le braccia, gli occhi, le mani, il capo, la bocca, financo il sesso, compongono una crasi quasi mitologematica che suddivide in stazioni macchiate del rosso fiammante della passione il percorso agrodolce dell’amore e dell’affezione, non permanendo nell’egocentratura, bensì specchiandosi e ravvivandosi nell’altro-da-sé. Una passione che, tuttavia, non è mai smodata, non è mai barocca, bensì si rende quieta e conforme a un’attitudine meditativa e riflessiva tipica della piena maturità umana e poetica di un individuo senziente e pensante, che fa mostra di sé ostendendo al lettore nient’altro che i propri realia, financo le proprie idiosincrasie e contraddizioni.

Le figure maschili ricorrenti nella raccolta sono, del resto, ben più che semplicemente archetipiche: l’Amante, il Padre, l’Amico, rappresentano quasi jodorowskiamente figurazioni dei tarocchi che espandono il senso delle cose fino alle sensazioni connaturate alla natura umana nelle sue infinite declinazioni sentimentali e intellettuali, estetiche e teoretiche, e così, contribuiscono a rendere quest’esperienza poetica realmente esemplare e rappresentativa dell’humanum.

Poesia omoerotica, in parte: eppure non si tratta di inquadrare le più ampie sezioni della silloge in un genere letterario assiomaticamente chiuso o in un categorema stringente e limitante, avendo in dotazione, al contrario, un piglio espansivo ma non dispersivo, anzi, quasi entropico, che recalcitra dalle facili definizioni di tema e di stile per assurgere alla plastica e multiforme possibilità d’espressione tipica di quella poesia che vive sul discrimine invisibile che separa la poesia lirica da quella filosofica. Il corpo è correlativo oggettivo della sintassi franta e “ripida” della parola poetica, tagliata con la “punta” del coltello dello stile e dell’analogia, e attraverso questa figuralità congruente si ergono il modo e la misura di un pensierare mondano che però non disdegna la dimensione spirituale ed evocativa, sempre inscindibilmente connessa alla carne e al sangue come impronta omogenea del volto del poeta, sindone laica del suo universo esistenziale.

Nella seconda parte della silloge, intitolata Nel tempo che abitiamo in punta, la dimensione bergsoniana del tempo introiettato soggettivamente dalla percezione del singolo si fa comunicazione estetica con l’altro, proietta a specchio sul lettore immagini e visioni rinviate alla memoria attraverso il filtro metalogico del ricordo, che trasfigura e quasi transustanzia la fattualità delle cose vissute e rivissute nella forma della sensazione tattile e terracquea di un tempo talmente rarefatto da risultare eterno. Il tempo e lo spazio trapassano, insomma, dallo stato di categorie freddamente kantiane della possibilità della conoscenza in genere a scatole senza confini, a monadi aperte, spalancate su canali di comunicazione assoluti e scivolanti in un’osmosi continua di sensazioni, in un flusso ininterrotto di desiderazioni turgide e tumide, umorali, pregne di liquidi vivificanti.

La sezione dedicata al Taglio del legno, in cui ogni componimento è scandito dalle note di una composizione musicale del panorama classico più caro al poeta, è anch’essa, a ben vedere, intrisa di corporalità, a cominciare dalla materia lignea di cui son fatti gli archi, per approdare al ritmo cardiaco della musica che pulsa dallo strumento fin dentro il petto, nell’analogismo totalizzante che fa delle continue citazioni musicali una sorta di corpus meta-armonico scandito nei battiti del cuore. L’accostamento fra la poesia e la musica, arte pura ed estetica per eccellenza, giacché completamente priva di contenuto se non il puro suono, è l’elemento forse più sperimentale nel libro, laddove, a seguire, la sezione dedicata all’archetipo paterno, intitolata Nel nome del figlio, chiude il cerchio dei riferimenti familiari nella domus protettiva e atavica dell’affetto più intimo e caro, quello nei confronti dell’omaggio al Padre Poeta che il Figlio Poeta, figura archetipica anch’essa, rende per semplice filiazione d’amore, come grazie divelte dall’obbligo della comunanza coatta del sangue e della discendenza ideale.

L’ultima sezione, dedicata all’amore della vita, è quella che maggiormente può inquadrarsi nell’alveo della poesia omoerotica senz’ulteriore determinazione: E giriamo in cerchio di amanti è anche la sezione più nutrita del libro, quasi a suggellare promesse e fibrillazioni peritoneali, di un eros, insomma, acceso nel ventre, nel sesso, nel plesso solare e nel riverbero baluginante del pathos. L’amore e la condivisione di una vita insieme rimescolano qui le semiosfere della dimensione privata, come fossero interpretazioni mantiche che leggono il passato, il presente e il futuro di una compenetrazione arcana, quella di Amante ed Amato, come topos senza tempo. Nell’ideale della con-vivenza, nella Storia d’Amore originaria, nelle sue varie fasi e concrezioni sensibili, Alessandro Brusa tocca il vertice dell’ampiezza della poesia lirica in quanto tale, ottenuto, paradossalmente, proprio attraverso il proprio stile franto, esangue, ermetico e taciuto, nella convinzione che non si dia per forza, in poesia, la condizione necessaria della chiarezza, visto che è con Mallarmé che da due secoli accettiamo e salutiamo il lettore come supremo ermeneuta, come colui che del poema in quanto tale sa cercare, nella solitudine dell’Eremita e dell’ermeneusi suprema, la chiave di lettura, e solo per suo tramite accede, come un accolito privilegiato, al possesso desiderante della realtà.

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