“Un ronzio devastante e altre cose blu” di Gianluca Garrapa: la prefazione di Andrea Zandomeneghi

Di ANDREA ZANDOMENEGHI

Preambolo superfluo

In un’opera letteraria a parlare anzitutto è – e ha da essere – il testo: le parole ulteriori e successive dell’autore, del prefatore, della stessa quarta di copertina sono secondarie, distorsive, protopsicagogicamente interessate (quanto più qualcosa è interessato, tantomeno è interessante): parole profondamente non necessarie e talvolta mendaci (spesso mi chiedo se chi scrive la quarta di copertina di un libro abbia realmente letto il testo o si sia limitato a una qualche sottospecie di sinossi).

Proverò – destinato a fallire, ma non per questo sconfitto in partenza – a ribaltare la condizione de qua e quindi a non far scolare completamente nell’inutile e nel laido le parole di questa piccola prefazione, corroborato in ciò dal fatto che nella presente raccolta di racconti accade che “la parola vinca la sfida che si propone: rappresentare l’irrappresentabile e dire l’indicibile”[1].

Dialogo in cui ascolto

Anzitutto domando (senza incistarmi nevrotico e astratto in speculazioni teoriche masturbatorie mie proprie) direttamente a Gianluca Garrapa: quale è il tuo rapporto con il racconto, come lettore e come autore?

[G.G.]: “Diciamo che il racconto implica, secondo me, una predisposizione più fotografica e poetica rispetto al romanzo. La parola giusta nel racconto è anche una parola che riesca a sintetizzare lunghi periodi senza semplificare, cogliendo quel particolare ‘ologrammatico’ che contenga il tutto. Certo, alcuni racconti, sono dei romanzi brevi, ma i veri racconti, quelli che prediligo, sono davvero brevi. Come lettore le raccolte di racconti – che siano episodi (tecnicamente romanzi di racconti) o meno, come quelli che sto leggendo ora di Tondelli, o quelli di Dick o di Cechov o di Carver, ma anche Luca Ricci –  mi colpiscono per la capacità che l’autore ha di farti vedere le cose da più punti di vista. I racconti potrebbero essere un buon esercizio di empatia. A differenza del romanzo, che vedo più ‘egocentrico’ o ‘narcisistico’. In quanto che una serie fissa di personaggi trascina il lettore in un mondo parallelo. Certo, come nel caso di Pickwick, i personaggi sono sempre gli stessi, ma le narrazioni si diversificano.

Come autore seguo più un impulso ‘temporale’. Spesso il racconto, anche se poi è riscritto più volte, nasce con la stessa immediatezza di una poesia. Di getto. È un’impressione, non sviluppa tesi o punti di vista. Non vuole discorrere o dimostrare, ma solo mostrare un particolare, una parola a volte, una scenetta di vita reale, e meglio ancora le sue pieghe paradossali”

Cosa pensi della bipartizione narrativa: racconto romanzo?

[G.G.]: “Ecco, mi piace vedere il romanzo come un meccanismo che scava nel narcisismo del personaggio, nel bisogno di una egolatria positiva. Nei miei romanzi, tendo a usare la narrazione per riflettere il mondo, e per riflettere su di esso, non solo per mostrarlo, quasi in modo neutrale, come nel racconto. Non credo a una netta bipartizione, nel senso che un romanzo può pure essere una galleria di racconti, e un racconto può, pur nei limiti della lunghezza, essere un romanzo, magari breve.

La divisione semmai la vedo su un piano mentale: il racconto si presta a una sorta di ‘schizofrenia positiva’ dove l’autore e anche lo scrittore deve calarsi di volta in volta in menti e personaggi diversi, laddove il romanzo è una lunga ossessione ruminante, sempre positiva, in cui s’indossa, dall’inizio alla fine, una stessa maschera.”

In cosa concordi con e in cosa discordi da Ricardo Piglia e dal suo illuminante Tesi sul racconto[2]?

Mah, devo dire che concordo in toto con la visione di Piglia. Soprattutto con l’idea in virtù della quale il racconto è poetico – e nelle migliori poesie d’amore, non si pronuncia mai la parola ‘amore’.

Mi piace pensare che l’elemento ‘segreto’ compaia dopo, dopo il finale, al di là del lettore e dello scrittore. Per questo, la prima parte dei miei racconti si basa su questo principio: quel che accade nel racconto è la premessa al dopo, a  quello che di reale resta dopo il finale, e che non ha parola.

Quali sono i cinque racconti a cui sei più legato – tra quelli presenti in questa raccolta – nel senso che più ti realizzano, che più esprimono la tua poetica e stilistica, ma anche la tua concezione e la tua estetica?

[G.G.]: “Errore di calcolo, Albe, Il castello, Leopold, L’autore secondo Benito Zanni, La storia possibile ma non necessaria del sig. Squibb.”

Monologo in cui mi espongo

Il racconto – come è noto – versa oggi in uno stato di grave crisi e si vergogna addirittura della propria natura nella nostra Italia: gli editori pur di non pronunciare la parola (“poesia e racconto = poche vendite”) mascherano le raccolte di racconti scrivendo sulla copertina: “raccolta di romanzi brevi”. È per questo che gli addetti ai lavori hanno iniziato a parlare del racconto come specie protetta, a rischio estinzione, da salvaguardare[3]. Andare a indagare le ragioni storiche e di mercato alla base dello stato attuale del racconto esula dal mio compito, mi limito fotografarlo e poi aggiungo: tutto ciò è parziale e miope perché schiacciato dalla visione economicistica, casaeditricistica, cartaceocentrica. Questa non è la prospettiva di Madre Letteratura: sul web il racconto è vivissimo e vivacissimo: a essere in putrefazione non è il racconto, ma come    questo viene pensato, confezionato, diffuso e venduto: la vile merce racconto non la forma letteraria racconto.

Ma quale è la forma letteraria racconto? Per me racconto è una delle due species – l’altra è romanzo – del genus narrativa: nel modo più minimalista e fenomenologico e meno essenzialista e idealista applico al genus la definizione che Guido Mazzoni conia per la sola species romanzo: narrativa è “raccontare qualsiasi storia in qualsiasi modo”[4].

La prima obiezione metaforica – divertente e sensata, perché non contraddice quanto da me affermato, ma introduce una distinzione essenzialistica – mi viene da Ernesto San Epifanio secondo cui “il romanzo è eterosessuale, il racconto è bisessuale”[5].

Una seconda obiezione mi viene dall’esperienza storica degli autori: taluni son grandi romanzieri, ma non sanno scrivere racconti: questo non dovrebbe accadere se esistesse – proprio ontologicamente – il genus narrazione? Esempi: B. E. Ellis ha scritto una sola raccolta di racconti, Acqua dal sole, penosa; incomparabili – perché mediocri al confronto – i racconti di Dostoevskij con i suoi romanzi; idem per ciò che inerisce Bolaño medesimo; al contrario Tondelli: esprime veramente se stesso solo nei racconti, basti pensare a Altri libertini (contrapposto a Rimini o Camere separate).

Una terza obiezione mi viene mossa da G. Garrapa supra: “il romanzo è come un meccanismo che scava nel narcisismo del personaggio, nel bisogno di una egolatria positiva” e invece “il racconto si presta a una sorta di ‘schizofrenia positiva’ dove l’autore e anche lo scrittore deve calarsi di volta in volta in menti e personaggi diversi, laddove il romanzo è una lunga ossessione ruminante, sempre positiva, in cui s’indossa, dall’inizio alla fine, una stessa maschera.”

In sostanza le obiezioni alla mia tesi (racconto e romanzo sono entrambi narrativa; cambia il puro dato quantitativo della lunghezza; la narrativa è “raccontare qualsiasi storia in qualsiasi modo”) son infinite: non sta a me confutarle, ognuno è libero di formarsi un’opinione in proposito. Per onestà intellettuale preciso che per me nel mondo delle idee c’è narratività, con cavallinità e compagnia bella: non ci sono romanzità e raccontità.

In ordine alla scrittura della presente opera

La scrittura di Gianluca Garrapa ha una caratteristica peculiare proveniente dalla sua formazione e dai suoi interessi lacaniani: la consapevolezza della supremazia del linguaggio nell’interpretazione del reale (e del trauma fondamentale della discrasia significante/significato). Si tratta di una posizione epistemologia ed ermeneutica che trascende ampiamente il fatto letterario, ma che ha su questo inevitabili ripercussioni. Va precisato che nella presente raccolta Lacan non è tematizzato, ma solo metabolizzato: l’esatto contrario di ciò che accade ne La casa del sonno di Coe.

In questa prospettiva la parola è la potenza che permette a ciò che è di perseverare nell’essere (Spinoza e Nietzsche sul conatus); la potenza che va a creare l’opera e il mondo e lo fa con le caratteristiche sue proprie: abnorme energia plastica, poderosa fantasia, libera – financo arbitraria – costruzione di interazioni, situazioni, contesti, vicende. Ecco da dove viene la polimorfa molteplicità di questa raccolta, con le sue accelerazioni improvvise e folgoranti, il suo squarciare veli e teatri e andare a frugare dietro le quinte, il suo rappresentare ciò che non è abitualmente rappresentato e si atteggia a irrappresentabile e indicibile.

In questa raccolta la parola vince la sfida che si propone: rappresentare l’irrappresentabile e dire l’indicibile.

Andrea Zandomeneghi

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 [1]     Infra

[2]     http://www.crapula.it/tesi-sul-racconto/ –  TESI SUL RACCONTO, Ricardo Piglia

[3]     Rossella Milone in http://www.crapula.it/intervista-rossella-milone/

[4]     G. Mazzoni, Teoria del romanzo, il Mulino, 2011, pag. 29

[5]

[5] R. Bolaño, I detective selvaggi, Adelphi, 2014, pagg. 95 e 96

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“Un ronzio devastante e altre cose blu” è anche qui:

https://slowforward.me/2017/01/15/gianluca-garrapa-un-ronzio-devastante-e-altre-cose-blu/

http://www.zestletteraturasostenibile.com/un-ronzio-devastante-e-altre-cose-blu-gianluca-garrapa/

https://www.nazioneindiana.com/2017/03/06/gianluca-garrapa/

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