“In territorio nemico” e la dissipatio Scriptoris Generis: una recensione

Scrittura Industriale Collettiva, "In territorio nemico", Minimum Fax 2013
Scrittura Industriale Collettiva, “In territorio nemico”, Minimum Fax 2013

Di SONIA CAPOROSSI

 

In territorio nemico (Minimum Fax, 2013), romanzo collettivo redatto col metodo SIC – Scrittura Industriale Collettiva e “scritto a 230 mani” l’ho ricevuto nella cassetta della posta a maggio, eppure, prima di poterne scrivere, ho dovuto un poco sedimentare le mie riflessioni critiche. Mi è stato necessario riflettere, soppesare, vagliare attentamente molteplici possibilità ermeneutiche, perché l’impianto narrativo, l’intenzione operativa e l’esito estetico mi hanno dato parecchio da pensare e il senso stesso del romanzo mi sembrava vivere come sul discrimine sottile di un’ambiguità, a rischio perenne di cadere nel malinteso. Ad occhi poco attenti sembrerebbe infatti appartenere, senz’ulteriore necessaria definizione, al filone resistenziale del neorealismo settant’anni dopo, e l’inganno sorge perché al suo interno si dipanano, ognuno collegato ad uno dei protagonisti, tre protoromanzi ispirati ad altrettanti modelli preesistenti; nella fattispecie, per quanto riguarda la sottotrama di Aldo, Cesare Pavese e La Casa in Collina; per la sottotrama di Adele, il filone operaistico di Carlo Bernari con Tre Operai e Ottiero Ottieri con Tempi Stretti; mentre invece, per la sottotrama di Matteo, si tratta del classico romanzo di anabasi, topos tradizionale e vecchio come il mondo. Eppure, ad un’analisi più approfondita, la presenza proprio di tali ragguardevoli elementi topici mi fa pensare che In territorio nemico sia stato concepito espressamente come una specie di falso classico fuori tempo massimo, costruito a tavolino perché almeno le operazioni di scrittura e di composizione non lo fossero. Mi spiego meglio.

Lo scoperto tentativo di narratologizzare l’argumentum adeguando una forma topica ad un contenuto normalizzato si intravede nella mimesi linguistica, che tuttavia consiste in una mimesi della mimesi (una sorta di mimesi in seconda), giacché si applica alla lingua degli autori classici del neorealismo (in particolare Cesare Pavese e il suo stile colloquiale ed espressionistico insieme). Non si tratta, insomma, di una mimesi di prima mano della lingua parlata, bensì di un linguaggio letterarizzato, ovvero quello che ci si aspetta di trovare in bocca agli italiani al tempo della Resistenza: stile paratattico, cadenze dialettali, lessemi poco meno che desueti, squarci espressionistici: per l’appunto, tutto ciò che un lettore, dato l’argumentum, vuole darsi da leggere.

Basti pensare anche agli inserti storici, accurati e scientifici, i quali richiamano certi aspetti del medesimo processo mimetico relativo ai fatti di cronaca che il New Italian Epic abitualmente mette in atto; salvo poi perdersi in imprecisioni che risultano sicuramente essere uno degli inconvenienti delle troppe mani messe all’opera attorno al testo, come quando a pag. 90 si parte da Gallicano con un camion e si arriva sulla Casilina a mezzogiorno, laddove invece, passando per la Gola dei Briganti, ben nota a chi bazzica la zona Palestrina – Gallicano – Zagarolo, con un mezzo motorizzato ad incrociare la Casilina non ci vogliono più di quindici minuti. Nutrivo qualche dubbio anche per l’episodio a pag. 141, in cui compare la bicicletta come mezzo di locomozione dei partigiani laddove invece, storicamente, i cicli erano stati vietati dalla polizia, tanto che, almeno a Roma, per aggirare il divieto si era soliti montare una terza rotella per dar loro la parvenza di tricicli ed aggirare così l’ordinanza. Sono andata a controllare sul testo di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci, La bicicletta nella Resistenza (Edizioni Arterigere) dove ho risolto la perplessità trovando scritto: “I nazifascisti proibiranno durante la loro dominazione sul territorio italiano, in funzione anti-partigiana, l’uso della bicicletta. Quel divieto, però, avrebbe significato in città come Milano o Torino, il blocco della produzione, giacché la maggior parte degli operai la usava per recarsi al lavoro e così, persino i nazisti, spietati nelle loro decisioni, dovettero fare marcia indietro”. I quattro consulenti storici hanno in definitiva svolto molto bene il loro lavoro.

Tuttavia, se il rigore filologico è mantenuto, non accade sempre lo stesso dal punto di vista formale. Se volessimo essere non dico pedanti, ma quantomeno impuri, potremmo notare che tra i momenti poco controllati a tratti emerge qua e là una ridondanza inutile, come a pag. 112 dove si legge: “L’immagine ai suoi occhi iniziò a perdere consistenza. Immaginò che il baluginio che non smetteva di scendere e le luci alla distanza fossero i segni di una festa e il velivolo il suo progetto riuscito, il suo aereo rivoluzionario, come se fosse uscito dai suoi progetti, direttamente dalla sua testa.” (corsivi miei). Centoquindici autori, due coordinatori, tredici revisori per perdersi un passaggio come questo?

Epperò, al di là delle idiosincrasie scrittorie pur presenti, In territorio nemico raggiunge in alcuni punti vette narrative davvero degne di un (uno solo, un singolo, dico) autore degno di tale nome, e non solo per le tecniche narrative molteplici messe in atto nel testo (a pag. 197 persino l’erlebte rede!).  Le pagine migliori sembrano  quelle dedicate al personaggio di Aldo: un nevrastenico, un bastardo, il cui rapporto con la madre, per certi versi, ricorda quello che il personaggio di Gonzalo Pirobutirro d’Eltino intrattiene con la propria all’interno de La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda (e non escludo che ci sia davvero un riferimento voluto, una sorta di omaggio al Grande Barocco della letteratura italiana). Se il percorso formativo di Matteo è un’anabasi, quello di Aldo, all’interno del Bildungsroman parallelo che percorre il romanzo, è al contrario una catabasi, una caduta psichica a picco nelle proprie inferne de-formazioni fino alla conclamata follia dell’isolamento forzato. Al contrario sua moglie Adele, predestinata ad una vita di debolezze in assenza della figura maritale, scopre di avere “le palle”, imbraccia il fucile e diventa partigiana non esitando a sparare e a lanciare granate; laddove, un minuto prima, non aveva che da stare a letto a piangere. È proprio in questo contrasto insanabile che matura la sovrastruttura dell’inverosimiglianza, vero cappio pendente sul textus proprio laddove nessuno se lo sarebbe mai aspettato, ovvero nella descrizione del profilo psicologico dei personaggi. È infatti nel delinearne la psiche che sorgono le più evidenti lacune architettoniche.

A pag. 146 Adele dice: “voglio combattere. Per me e per quelli che ho perso”. Alla domanda successiva, posta da un compagno partigiano, sul perché vorrebbe combattere, ella risponde: “perché non voglio più subire, perché ho capito che voglio vivere e andare avanti e fare qualcosa, e…”. Ecco, quell’ “e” rimane fino alla fine un anacoluto narratologico, un punto sospeso fra l’aspirazione a realizzare il cronotopo di Bachtin e il suo compiuto fallimento, la crux desperationis di Todorov: il personaggio come “paradigma di tratti psicologici” (lo dice Chatman) è qui ben poco diairetico, la sua intrinseca debolezza è nell’eterno femminino del Faust di Goethe, su cui nel romanzo, giocoforza, s’è calcato davvero un po’ troppo la mano. Per questo Adele risulta essere il personaggio meno credibile dell’intera architettura; al contrario del fratello Matteo, costruito solidamente sui modelli vittoriniani, calviniani, pavesiani: un vero figlio del popolo che acquista coscienza interiore durante lo svolgersi delle vicende ed alla fine s’accresce fino a potersi definire “uomo”, epperò, di conseguenza, risulta essere il personaggio meno amabile proprio perché è il più ordinario.

Ecco perché In territorio nemico è un romanzo che non può definirsi di neorealismo post-moderno, bensì, al limite, post-modello: racimola le proprie suggestioni dal materiale letterario precedente ma non le ricompone in forma di un patchwork teratologico cambiato baroccamente di segno, come invece il post-moderno normalmente fa, bensì segue e persegue il ritorno alla posatezza di una scrittura facilmente riconoscibile perché classicheggiante, immediatamente identificabile tramite la propria ammiccante trasparenza, la propria araldica patente, non foss’altro che appartenendo inevitabilmente ad una scrittura non nobile di sangue, ma di toga e di foga, che si dipana per archetipi letterari; come quando, nel finale, gli Americani funzionano da deus ex-machina.

Ed ecco allora svelato l’inganno, ecco allora evitato il malinteso: In territorio nemico è un libro solo apparentemente resistenziale perché al di là della propria centratura ambientale e tematica i protagonisti manifestano lo stesso disagio ideologico ed esistenziale della gioventù attuale: in cerca di ideali a cui aggrapparsi, di speranze, di riempimenti necessari a dare senso al vissuto quotidiano, si abbattono, cadono, si rialzano, si sbracciano, si lasciano trasportare dagli imprevisti, si fanno cullare dai marosi ognuno della propria odissea personale fino al ricongiungimento e all’agnizione finale. I personaggi del romanzo, insomma, sono più attuali di quanto si sia voluto dare da pensare, e sono attuali proprio essendo antichi, archetipici, stereotipati.

E tuttavia non è neanche questo punto ciò che va messo criticamente in risalto, bensì l’aspetto formale, la metanarrazione (in senso lyotardiano) che appare sottesa all’intera operazione di realizzazione dell’opera. Ciò che mi sembra cogente rilevare è il fatto che l’operazione scrittoria del romanzo rivela la funzione ormai prevaricante del lavoro di editing su quello di scrittura vero e proprio. Quella che prima del metodo SIC veniva definita “la scrittura del testo” diviene materiale spurio di grezza schedatura, cosicché le composizioni e la revisione, in questo contesto, sono tutto. In territorio nemico è più che un romanzo, è un segno dei tempi vissuto in ritardo, un tentativo di organizzare una catena di produzione industriale a montaggio (di contro all’abituale metodo di scrittura a staffetta di cui s’è finora avvalso qualsiasi romanzo collettivo) in tempi in cui l’economia del testo (e in poesia, del verso) si regge sul settore terziario. È un tentativo di fare in modo che riemerga il verum factum in un sinolo di contenuto e forma laddove invece normalmente vige l’aspetto pubblicitario, esteriore, metascrittorio del nome. I nomi di coloro che hanno scritto, redatto e compilato il libro, infatti, proprio per evitare questa emergenza dell’ego sono rivelati tutti alla fine, in una lista che somiglia ai titoli di coda di un film; certo, spiccano quelli degli ideatori e coordinatori del progetto, Gregorio Magini e Vanni Santoni (coloro che nelle conferenze e nelle presentazioni ci mettono anche la faccia), eppure in fondo la notazione elencativa finale è un surplus insolvente nei confronti della richiesta identitaria da parte di quel lettore romanticamente nostalgico che non s’abitua e non s’abituerà mai alla barthesiana morte dell’autore.

Ecco perché, in un certo senso, ci sono centoquindici scrittori ma non ce n’è nessuno, in una sorta di dissipatio Scriptoris Generis mai raggiunta prima, nemmeno nella possibile elencatio di sette milioni di Wu Ming messi in fila coi numeri cardinali; e questa Dissipatio S.G., per parafrasare Morselli, può certo realizzare un buon romanzo prodotto industrialmente, come in una catena di montaggio; ma poi, come spesso avviene nelle fabbriche cinesi, dopo questa prima prova narrativa può rischiare a lungo andare di produrre un meccanismo che s’inceppa, un prodotto a basso costo produttivo ma volatile e facilmente obsolescente, che può rompersi come un “anello che non tiene” (lo diceva Montale con ben altre intenzioni) oppure passare in fretta, in una risoluzione di sostanza narrativa il cui esito, lo si prenda come un rischio concreto per il futuro, potrebbe risultare d’ora in avanti ingiustificabilmente stucchevole. 

  • Scrittura Industriale Collettiva, In territorio nemico
  • Miminum Fax, Aprile 2013
  • pp. 308, euro 15,00

10 pensieri riguardo ““In territorio nemico” e la dissipatio Scriptoris Generis: una recensione

  1. Ottima analisi, e condivisibile in molti punti, specie nel finale. Ci terrei a precisare tuttavia che la frase “Basti pensare anche agli inserti storici, accurati e scientifici, i quali richiamano certi aspetti del medesimo processo mimetico relativo ai fatti di cronaca che il New Italian Epic abitualmente mette in atto” contiene una pesante imprecisione, in quanto il NIE è stata una proposta critica e tassonomica di opere narrative uscite nel primo decennio del nuovo secolo, e con quelle si conclude. Ciò significa che il NIE non mette in atto abitualmente proprio nulla, visto che semplicemente non esiste. ITN non è un romanzo NIE e neppure Wu Ming scrive più romanzi NIE. Le uniche opere veramente NIE di Wu Ming sono 54 e Asce di Guerra, neppure Manituana è veramente NIE. Point Lenana è un oggetto narrativo, e della proposta critica del collettivo questo è l’unico aspetto che che viene portato avanti (anche Timira è lo è). ITN non è un oggetto narrativo, è un romanzo molto classico, come dici bene tu, per quanto contenga qualcosa di spiazzante, dovuto certo al suo essere opera collettiva. Inoltre, riguardo le due ridondanze che rilevi, essendo stata responsabile di parte del lavoro editoriale, devo dire che alcuni capitoli sono stati rimaneggiati nell’ultimissima lavorazione, e quindi non hanno comportato un lavoro e una responsabilità collettivi. Questo nel caso la tua osservazione avesse un intento polemico.

    1. Ma guarda, per quanto mi riguarda addirittura il NIE non è nemmeno mai esistito (se diciamo “esistere” nel senso di “reddere rationem”), quindi va bene così. Con la precisazione che il modo in cui io dico NIE è lo stesso modo in cui un sociologo della letteratura dice “barocco”: anche il barocco non esiste più, eppure cose ascrivibili al barocco esistono ancora e si manifestano di volta in volta, in quanto categorema. Dunque nessuna imprecisione, non vorrei ti fossi fatta sviare dall’uso del presente, che è legato alla persistenza, giocoforza, degli archetipi letterari; avrei potuto scrivere allo stesso modo usando il tempo passato, “abitualmente ha messo in atto”. Se avessi detto “il neorealismo abitualmente mette in atto x” eccetera, sarebbe stata la stessa cosa, va da sé che il neorealismo non esiste più. Tutto qui.
      Quanto al resto, nessuna mia affermazione mai ha intento polemico, solo e sempre ermeneutico ed epistemologico.
      Grazie dell’occasione di chiarimento.
      Sonia Caporossi

      P.S. Per capire in che senso dico che per me “il NIE non è nemmeno mai esistito”, dovresti seguire un po’ il mio percorso incentrato sulla critica al costruttivismo filosofico, che sto mettendo in atto da diversi anni a questa parte, che rintracci un po’ ovunque, come impostazione, negli articoli di critica filosofica che scrivo. Ho usato (“usato”, dico) il NIE come categorema creato a tavolino sulla cui definizione s’è d’accordo in quanto assiomaticamente postulata, non come entità letteraria dotata in sé di ragion d’essere. Per capire in che senso lo dico, di NIE abbiamo parlato alla Scuola Internazionale di Comics a gennaio, magari puoi guardare questo video in cui discuto proprio il NIE parlandone con Alda Teodorani.

      1. Ciao Sonia, sì il video lo avevo visto, ricordo la nostra discussione su Lavoro culturale e conosco il tuo punto di vista sulla questione. Mi interessava precisare per i lettori di Critica impura, che magari non hanno seguito la discussione. Una curiosità mi rimane: come mai hai ascritto quasi in automatico ITN nell’orbita del NIE? Credo che questa tua recensione sia l’unica che lo fa, e mi chiedevo se c’è una ragione per cui ti è parso che il romanzo si ponga a quelle latitudini, perché avendo assistito alla sua genesi, conoscendo le basi teoriche su cui è nato il laboratorio SIC, e seguendo ora la fortuna editoriale del romanzo, penso di poter dire serenamente che il progetto nasce da presupposti che si discostano notevolmente sia dalla prassi di scrittura collettiva di Wu Ming – per quanto essendo quello il collettivo per antonomasia è naturale che ogni sperimentazione ci si debba misurare – sia da quello che tu definisci categorema, in maniera secondo me un po’ forzata. Peraltro la componente metastorica è predominate nella “nebulosa”, mentre ITN come dice Ray qui sotto, è un tentativo collettivo di rinfrescare la memoria sui valori della Resistenza, con impatto metastorico molto attenuato. In breve è un romanzo storico nel senso pieno del termine, quindi molto lontano dalla problematizzazione del presente attraverso le crepe della storia istituzionale che hanno attuato gli oggetti narrativi, vedi il già citato Asce di guerra. Grazie comunque per la risposta articolata, Claudia

  2. Gentile Sonia, sono uno degli autori del testo da lei così severamente criticato, e devo dirle che essendo io un non scrittore vile meccanico, in quanto in realtà fotografo, e nemmeno un reporter alla Capa o almeno alla Secchiaroli ma proprio un fotografo proletario e greve, posso confessare di non aver capito tutto il suo discorso, ma in particolare non ho capito se lei veramente pensa che noi abbiamo scritto questa storia per creare un romanzo solo apparentemente resistenziale basato su personaggi attuali ma antichi, archetipici e stereotipati o abbiamo almeno fatto un tentativo, sincero, di proporre i valori della Resistenza al lettore di oggi, che tra un Fabiovolo, un Renzimatteo e mille sfumature di grigio, legge per dimenticare che minuto dopo minuto in nome della concorrenza e dell’euro glielo stanno mettendo sempre più profondamente di dietro, con una pressione talmente costante che fa male solo se cerchi di far resistenza. Tanto per ridondare un pochino. E resistere invece serve, nonostante il premio a walterSiti.

    1. Ecco bravo, nonostante Siti. Ad ogni modo, perché dice che l’ho criticato “severamente”? A me non sembra proprio, ho ravvisato pecche e bellezza. Ho solo cercato, in una parola, di “renderne ragione”. Per quanto mi riguarda no, non credo che abbiate scritto per trasmettere i valori della Resistenza, sarebbe una forzatura troppo grande, un ideologismo di cui non vedo nessun bene narrativo, soprattutto di questi tempi; del resto, lei saprà che il neorealismo letterario originario, al contrario del cinema neorealista che è stato di importanza epocale, non è riuscito a raggiungere alte vette espressive, oppresso com’era dall’ideologismo forzato, lasciando il tempo che ha trovato. Inoltre, il mio personaggio preferito, Aldo, di resistente non ha proprio un bel niente. Per me i momenti più importanti del romanzo sono quelli esistenziali, resistenziali senza la R. Grazie del commento e dell’attenzione.
      Sonia Caporossi

  3. Claudia, posto qui la definizione di categorema che mi fornisce l’enciclopedia on line Treccani, sempre per coadiuvare la comprensione ai lettori di Critica Impura: “categorèma s. m. [dal gr. κατηγόρημα «imputazione, predicato», der. di κατηγορέω; v. categoria] (pl. -i). – Termine filosofico, equivalente a categorumeno e a predicabile.” Per Porfirio, i cinque predicabili erano: il genere, la specie, l’accidente, il differente, il proprio. Lungi dall’essere una forzatura, è un termine che permette di ricomprendere (“sussumere”, direbbe Kant) un concetto sotto concetti più grandi. Una forzatura, in genere, è un restringimento coercitivo, proprio il genere di cose che a me non piacciono. 🙂
    Per quanto riguarda ciò che mi chiedi, vorrei risolvere il malinteso: non c’è nessuna ascrizione di ITN al NIE (però se andiamo avanti così fra un po’ passiamo al codice fiscale); non ho scritto “ITN è un romanzo che rientra nell’orbita NIE”, in quanto anche a me si rendono evidenti molte differenze, a cominciare proprio dall’impianto e dal metodo compositivo (nella recensione faccio la differenza fra il metodo “a montaggio” e il metodo “a staffetta” di redazione di un romanzo collettivo). Ho solo detto che per certi versi mi ha ricordato l’attenzione che il NIE pone all’aspetto scientifico dei fatti e dei dettagli. Certo, inoltre, nella sua struttura si tratta di un “romanzo storico” di impianto classico, come ho scritto nel testo, e tuttavia ho posto la questione del superamento delle istanze resistenziali in esso contenute attraverso la prevalenza di un tema sottotraccia di natura eminentemente esistenzialista; anche perché, se le intenzioni erano davvero quelle di andare a recuperare lo spirito e i valori della Resistenza, magari andando a saldarsi ad un tentativo di rigenerare il filone tematico resistenziale in modi nuovi (mi viene adesso in mente anche il precedente “Voi, onesti farabutti” dell’amico Simone Ghelli), ITN non mi sembra che ci sia riuscito, giacché, come ho cercato di analizzare all’interno dell’articolo, i tre personaggi presentano idiosincrasie nella definizione precipua del proprio profilo psicologico: Aldo è “in fuga” dalla Resistenza verso la follia; Matteo è al contrario il personaggio più resistenziale, eppure, a ben vedere, sembra una specie di novello Ulisse sbattuto dagli eventi, che tarda a prendere decisioni autonome e si lascia assorbire da ciò che il caso gli offre sul suo cammino, con l’unico, esclusivo obiettivo esistenziale, personale, di rintracciare la sorella Adele; e quest’ultima, il personaggio all’apparenza più forte, in realtà è quello narratologicamente più debole proprio perché in esso si rendono maggiormente evidenti le lacune intercorrenti fra ciò che è, ciò che vorrebbe essere, ciò che dovrebbe essere e ciò che i centoquindici più due hanno voluto far credere che sia.
    No, per tutte queste ragioni, ITN mi sembra resistenziale solo nella cornice; i suoi personaggi rispecchiano dolori ansie ed incertezze fin troppo attuali, e proprio per questo risultano interessanti. Tutto il resto è ideologia questa sì, un poco forzata, proprio perché riduttiva non tanto dell’alone terribile e doloroso che aleggia su un mondo distrutto da ogni guerra metaforica che si possa immaginare quanto sul modo in cui i singoli cercano, dentro a questa sofferenza, di sopravvivere.
    Fammi sapere se c’è qualcuno che ha scritto la stessa cosa, perché io, per buona regola, non leggo mai le recensioni precedenti quando mi approccio ad un testo.
    Saluti calorosi
    Sonia Caporossi

  4. Ho vissuto la genesi di questa recensione: dall’arrivo in redazione del libro in un bel plico, da parte dell’amico Vanni Santoni, alle laboriose e scrupolose (per niente criptiche) riflessioni cartacee e verbali di Sonia Caporossi, sedimentate, digerite e poi divenute finalmente testo. Un testo tra l’altro molto chiaro, a mio parere, che dell’opera in questione pone in risalto bellezze e, per rimanere in tema, “impurezze”. La questione di cui sopra, ovvero la presunta ascrizione di INT al NIE, mi sembra assolutamente il risultato di una lettura poco attenta della recensione. In essa si parla infatti di “certi aspetti del medesimo processo mimetico relativo ai fatti di cronaca che il New Italian Epic abitualmente mette in atto” soltanto in riferimento all’attenzione che alla verosimiglianza dei dettagli viene posta dal NIE, usando infatti un presente storico “mette” in un contesto in cui si storicizza, appunto, un fenomeno letterario già concluso. Per quanto riguarda il piano strettamente ermeneutico, l’analisi mi trova perfettamente d’accordo con Sonia; l’operazione ITN s’incarna infatti nella forma di “un falso classico fuori tempo massimo” seppur scritto con le migliori intenzioni: metodo rigorosissimo, disciplina da decatleta, eccellente lavoro maieutico collettivo, in sincrono con il battito d’ali di ogni singolo dei centoquindici autori, ma purtroppo con il malinconico aspetto di un referto da curatore fallimentare di una grande industria messa all’asta per morosità. Un buon romanzo, con molti spunti suggestivi di grande impatto, ma che linguisticamente e stilisticamente non convince perché finisce per inciampare ossimoricamente nello stereotipo: l’operazione metanarrativa s’incaglia in personaggi i cui drammi privati, con le loro azioni e sentimenti e ricerca di ideali cui disperatamente aggrapparsi, finiscono per attraversare lo spazio storico resistenziale in cui sono incastrati dalle abili mani dei cesellatori per proiettarsi in un ambito assolutamente attuale, esistenziale, contemporaneo e angosciante che li rende una sorta di modelli impolverati, sì di storia ma non abbastanza da esserne totalmente imbevuti. Il montaggio testuale compiuto dagli autori è poi, senza dubbio, interessante e ben orchestrato da abilissime mani ma mostra una crepa sottile, difficile da ignorare, nel momento in cui si tratta di far sentire al lettore la dimensione più emozionale, lancinante, vivificante di un’opera: la levità di tocco di una scrittura unica nella sua genesi (e parlo da filologa) che si configuri come Primo Motore non Immobile del testo. Una scrittura che possa ritrovarsi unitaria anche nel suo dissonante processo creativo. Il tempo buio in cui viviamo, in questo libro, trascende il tempo buio in cui abbiamo vissuto, si arma dunque di pensieri che fanno rumore e che ci parlano di una Dissipatio Scriptoris Generis mai raggiunta prima. Pensieri che avrebbero potuto rimanere in superficie, ma che invece sono il segno di qualcosa che è mutato per sempre.
    Saluti
    Antonella Pierangeli

  5. A me, Antonella, linguisticamente e stilisticamente ITN ha anche convinto, perché i revisori sono davvero bravi, a parte qualche défaillance che ho già ravvisato. Mi pare tuttavia molto importante questo tuo passaggio, che traduce ottimamente alcuni miei pensieri (criptici?) sull’esito della resa narrativa dei personaggi: “l’operazione metanarrativa s’incaglia in personaggi i cui drammi privati, con le loro azioni e sentimenti e ricerca di ideali cui disperatamente aggrapparsi, finiscono per attraversare lo spazio storico resistenziale in cui sono incastrati dalle abili mani dei cesellatori per proiettarsi in un ambito assolutamente attuale, esistenziale, contemporaneo e angosciante che li rende una sorta di modelli impolverati, sì di storia ma non abbastanza da esserne totalmente imbevuti.”
    Sonia

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