Il corpo ferito come rigenerazione e arte

Il taglio-ferita secondo Ron Athey

Di VITALDO CONTE*

 

La dimensione sciamanica è presente nelle ultime espressioni d’arte del corpo estremo, vissute come un teatro di Live Art. Questo vuole evocare pratiche di colloquio con il mondo “altro” per trovare espressioni nella realtà. La stessa nudità, esibita negli eventi senza riserve, aspira a divenire uno stato rituale, in quanto questo esporsi vuole vincere il pudore e i tabù: il corpo è considerato un contenitore di pura materialità, avulso da ogni proiezione morale. Questa mistica d’arte esige, talvolta, la visibilità di un “di-segno” di sangue sull’epidermide-anima. Riappropriarsi del proprio corpo è anche un possibile ricongiungersi a una interna spiritualità, presente pure nei suoi aspetti di trascendenza più cruenta. Anche “il taglio” di una ferita, divenuta poi “cicatrice”, è un possibile tatuaggio di rigenerazione e difesa.

La ferita, come “segnatura” d’arte, è difficilmente separabile, per la propria intrinseca espressione, dalle motivazioni oscure dell’autore e dalle conseguenti sue vicende umane. Il segno-ferita s’insinua nelle pieghe dell’anima per liberare le piaghe rinchiuse nei sotterranei del sottopelle. “Entra” nei tortuosi labirinti della psiche e delle pulsioni d’amore: «Quando perdiamo l’amore, però, ci viene inflitta una ferita veramente troppo grande per cicatrizzarsi del tutto» (A. Carotenuto).

“Far emergere” con il sangue (sinonimo, in questa pratica, di arte-vita e rigenerazione) il segreto della propria interna “crepa”, dall’intonaco delle protezioni e censure, può essere l’indicazione di segnaletiche che ricorrono al taglio-ferita come lingua di molteplici significazioni. La sua emozionale ripetizione segnica diviene, nei territori dell’arte, una possibilità di consapevolezza delle proprie motivazioni estreme e di riequilibrio di un disagio.

Diverse risultano le espressioni d’arte che si manifestano attraverso il sangue del corpo: l’Happening, la Body e Live Art, la Ritual Art, ecc. A queste concorrono, spesso, pratiche molto diffuse socialmente: come il tatuaggio, il piercing, il branding, il cutting stesso. Questa body modification costituisce già l’entrata nel mondo dei Modern Primitives. Da queste subculture, fortemente ritualizzate, sono nate diverse poetiche radicali del corpo come arte: espressività da inserire nella dimensione dell’Extreme Body Art. Questa Arte diviene Vitale in tutte le sue immagini, pure in quelle più sconvenienti per le morali della cultura di appartenenza.

Nella prima metà degli anni ’60 si sviluppa l’Azionismo viennese con i suoi risvolti sociali e antropologici. Il gruppo evidenzia atteggiamenti dissacranti che diventano estrinsecazione di malesseri esistenziali e reazione alle limitazioni dell’ambiente. L’opera diviene “evento rosso” anche attraverso il sangue di animali squarciati. Herman Nitsch, suo esponente di rilievo, propone nel 1962 il Teatro delle Orge e dei Misteri: i suoi ambienti di sangue aspirano, attraverso una totalizzante ritualità dionisiaca, a divenire unione estatica di purificazione che segue il flusso infinito della metamorfosi del mondo.

Diversi autori, nelle vicende body artistiche degli ultimi decenni del ‘900 fino a oggi, hanno avvertito l’esigenza di “attraversare”, con il taglio-ferita, la propria pelle, percorrendo personalissime e sofferte violazioni espressive. Fra queste: le abrasioni cutanee di Marina Abramovic; i colpi di pistola su un braccio e le crocifissioni subite da Chris Burden; i dissanguamenti estremi di Ron Athey e Franko B.; le pratiche di mortificazione di Bob Flanagan; le azioni del Living Theatre; le attuali ambientazioni corporee e live set; ecc.

L’esposizione della ferita ha ispirato e contaminato gli artisti di ogni tempo e linguaggio con una varietà estrema di espressioni. Queste, talvolta, hanno riattraversato immagini della cristianità, aventi come soggetto il corpo di Cristo e dei suoi martiri. L’immagine cruda della ferita sacra è comunque un segno adorato: la violenza è una componente naturale dell’esistenza che può risultare catartica. Le rappresentazioni rosse feriscono anche lo sguardo e l’interno di chi guarda. Questo corpo d’arte ferito percorre secoli d’iconografia: indagato, violentato, piagato, oltraggiato per rappresentare una tensione off limits, ma anche una mistica desiderante.

Nella creazione di questi “teatri della crudeltà” gli squarci/segnature si aprono con l’esposizione di corporeità vulnerabili che possono divenire seducenti per l’esterno: lo invitano a guardare/toccare la propria condizione. Il sangue e il taglio hanno il potere di sigillare il contatto, visivo e intimo, fra il corpo segnato e l’occhio di chi guarda, più di ogni altra comunicazione verbale, “legandoli” entrambi a una condivisione dai profondi risvolti. I tagli-segni vogliono diventare “ferite sempre aperte”, continuando a inseguire l’altro, al di là del tempo e linguaggio, con le loro significazioni e gestualità. Queste ferite esprimono un richiamo che vorrebbe legarci indissolubilmente a sé: con la memoria di un corpo che vibrava, soffriva drammaticamente.

Artisti agiscono sul limite del sopportabile, sottoponendosi a qualunque forma di violazione: il sangue “trabocca” dalla loro pelle come un colore d’arte. Esibiscono senza riserve il corpo, attraverso la creazione di “ambienti rossi”, ricercando il dolore e gli umori fisici. La carne “segnata” si traveste con una materialità che si autoconsacra come mistica. Il sangue, fuoriuscito dal segno-ferita, si trasforma in espressione, anche per esorcizzare la violenza cieca del mondo.

L’uso del sangue nell’azione performativa può essere comparato a quello presente nella teoria del sacrificio di René Girard, in cui il taglio è visto nella duplice natura di violenza: dannosa o benefica. Può insudiciare o purificare nello stesso tempo, spingere gli uomini alla follia e morte, come pure placarli e farli rinascere. L’artista mette in scena il proprio sacrificio: la performance art eleva lo spazio e il tempo a uno svolgimento rituale.

La ferita è presente nelle pieghe del corpo dell’arte e dell’esistenza dei suoi protagonisti, in quanto la creazione nasce anche nella carne, nel sangue. La ferita nell’arte include tematiche molteplici nel contesto di ogni epoca o poetica: dalle prime raffigurazioni paleocristiane fino agli eventi del corpo estremo degli ultimi decenni. Questo sangue, esterno alla tela, è una “reliquia” che ha affascinato e affascina gli artisti, in quanto il sangue diviene insieme purezza e impurità, sacro e profano, vita e morte.

Il taglio-ferita costituisce dunque un segno di creazione e pulsione, ripetibile sulla superficie della pelle. Non a caso diversi artisti dell’estrema arte del corpo si vestono di bianco nelle azioni. Il bianco può acquisire intensità e innocenza proprio dal passaggio di un “segno rosso”, come quello del sangue con i suoi “legami”. Gina Pane, vestita di bianco, ha un bouquet di rose rosse, da cui stacca le spine per conficcarsele nel braccio: togliendole, poi, lascia colare un rivolo di sangue. Le rose rosse sono diventate bianche.

Gina Pane (1939-90), nei suoi viaggi intimamente drammatici e archetipici, conduce il taglio-segno sul proprio corpo a evento artistico per “aprire” emozioni. Le sue azioni sono delle avventure espresse con i linguaggi della creazione: arte, teatro, poesia, confluiscono nel corpo dell’artista, divenuto oggetto e tela assoluti con le proprie interne dinamiche. Il pubblico e lei sono – nell’evento – come su un limite estremo a rischiare insieme il vuoto, l’abisso. La sua ferita diviene un dialogo che apre la sensibilità dello spettatore, creando crepe nella quiete dell’altro. Negli ultimi anni della sua attività Gina Pane esegue delle partizioni: il luogo delle azioni come atto del dividere, ripartire forma e materiali, ma anche come “partiture”. Sulle pareti dell’esistenza sono disposti i frammenti del proprio e dell’altrui corpo/vissuto. Il corpo non c’è più, c’è la sua evocazione. L’artista si allontana dalla visibilità per espandere il suo corpo. Nascono così i luoghi dove si esprime l’assenza, la sparizione fisica. In Saint Georges il corpo del martire è costituito da orme, tracce: il suo enigma è anche nel suo “altrove”. In La prière des pauvres et les corps des Saints (1989) si assiste a una grande messa in scena: attraverso nove teche che simboleggiano i corpi dei santi. S’incrociano, in una rete di ricordi e analogie, i temi caratterizzanti le azioni dell’artista. Le teche, nell’ambiente, contengono segni che possono essere letti come reliquie. L’artista sigilla le teche: è la fine della “cerimonia”, un tempo chiamata “azione”, il cui ritmo coincide ora con la sostanza pittorica e materiale. Questa espressione dell’arte del corpo risulta un’opera emozionante e totale.

La pagina bianca della pelle, “segnata” dal rosso del sangue, vuole esprimere una narrazione interiore. Il taglio-ferita diviene così dialogo intimo e rivelazione, ma anche un viaggio nelle pieghe della pelle: tagliando, corrodendo l’epidermide-anima, questa libera un “qualcosa” che muore e nasce continuamente.

Il taglio-ferita può essere una estrema testimonianza per “sentirsi esistenti” in un mondo di relazioni estranee che minaccia di separarci da questo. È un tentativo anche per cercare una propria “altra definizione”, attraversando un rituale arcaico di passaggio.

L’esposizione della ferita esprime il significato profondo e liberatorio di una malattia, le cui cicatrici sulla pelle indicano, come per antichi guerrieri, la mappa di un viaggio di protezione dalla violenza della natura e dell’uomo. Un segno-ferita può accrescere anche le possibilità creative dell’essere, in quanto il dolore ci costringe a guardare oltre la soglia dell’abitudine. Il sangue, che emerge dalla ferita, diviene, come in un antico rito, segno di una perdita ma anche di possibile rigenerazione e di nuovo destino: come quello esorcistico dei guerrieri-sciamani dell’antichità che “doppiava- no” le ferite per poterle sanare con i loro corpi. Questa “incisione”, che attraversa l’immagine eroica della propria debolezza, può divenire segno-evento, simbolo di una nostra fragilità trascesa, in quanto ognuno ha il proprio tallone d’Achille. I miti stessi ci offrono immagini di eroi feriti, trafitti: Ercole, Penteo, Ulisse, ecc.

Il taglio, espresso sulla propria pelle come lingua di motivazioni interne e pulsioni, vuole, talvolta, diventare poi “cicatrice”. Il tessuto di questa può rappresentare una sostanza magica che tiene insieme la carne e lo spirito, il corpo e la mente in un mondo che minaccia di separarli (A. Favazza). La cicatrice indica, simbolicamente e visivamente, la chiusura di una ferita, di una malattia profonda. Un tempo si riteneva che i tagli sul corpo potessero allontanare l’influsso degli spiriti maligni o le influenze di energie malate, rinchiuse nel proprio interno, “aprendogli” una via di uscita. La cicatrice può rappresentare la prova tangibile di una guarigione o di una bellezza sofferta.

La ferita, come segno di creazione e catarsi, diviene, da evento individuale, anche una possibile ridefinizione dell’arte stessa. Le sue apparenze e i suoi percorsi di pensiero allungano l’immagine del corpo fino alla propria ombra con le sue proiezioni esistenziali e simboliche.

Diversi artisti italiani del corpo d’arte risultano oggi interessati a rielaborare – nell’espressione performativa, spesso in coppia – il concetto della ferita e sofferenza (personale, sociale, metaforico-letteraria): attraverso un corpo “segnato” dal rosso delle sue allusive narrazioni. La nudità esibita vuole divenire perturbante nelle sue contraddizioni: come il proporre una corporeità violata dalle molteplici relazioni che può desiderare un “abbraccio-legame” di condivisione e dialettica fisica. È un corpo “segnato” che esige però, per proprie motivazioni, un progetto di ritualità drammatica, in cui la crudezza dei linguaggi diviene espressione militante di autenticità. Questa si oppone naturalmente alle apparenze e catalogazioni sociali dell’oggi che vorrebbero cloroformizzare invisibilmente, con le loro limitazioni, la corporeità ferita non omologabile.

È stato rilevato, in recenti studi di psicosomatica, che scrivere aiuta a curare la ferita, non solo in chiave metaforica. La sua “trascrizione” accelera infatti la guarigione, favorendo la cicatrizzazione del taglio. Potrà divenire creazione, esprimendo ipotesi immaginali fuoriuscite da una ferita che vuole esibire la propria palpitante testimonianza di vita.

Ho talvolta voluto guardare l’espressione della ferita come estremo linguaggio d’arte (in convegni, eventi) in un giorno di marzo, vicino all’equinozio di primavera, per auspicare un segno-ferita di possibile rigenerazione.

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* Il testo, ripreso da Tradizione Avanguardia. Richiami in rumori corpi d’arte, è pubblicato in: AA.VV., Eventi e Studi, a cura di Hervé A. Cavallera, Pensa MultiMedia Ed., Lecce-Brescia 2017; Arte Ultima, Avanguardia 21 Edizioni, Roma 2017.

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