Il futuro è l’inizio: un viaggio nella letteratura distonirica di Federico De Caroli

Federico De Caroli, "Il futuro è finito",  2016
Federico De Caroli, “Il futuro è finito”, 2016

Di ROBERTO FRANCO 

Affermato musicista, per quanto di culto, noto con lo pseudonimo di Deca, il poliedrico artista savonese Federico De Caroli ha sviluppato a partire dagli anni Ottanta una vena letteraria originale e inquietante che è rimasta un po’ in sordina rispetto alla sua produzione musicale; almeno fino alla pubblicazione dell’ultimo monumentale romanzo Il Futuro è finito (ILMIOLIBRO). Quest’ultimo è strettamente collegato, come sovente è accaduto nella carriera artistica di De Caroli, al suo recente lavoro musicale Onirodrome Apocalypse.

Sono ovviamente due parole di radice ellenica spiega l’autore a proposito del significato del titolo in un’intervista a “Trucioli Savonesi”, Apocalisse significa rivelazione, anche se nell’accezione popolare viene sempre associata a catastrofi e tragedie di proporzioni bibliche per via dell’Apocalisse di Giovanni. Onirodromo invece significa più o meno il luogo dove corrono i sogni. Perchè -dromo è il suffisso per indicare un posto dove si corre o gareggia. Questo è ben noto. Oniro è relativo ai sogni. Quindi il titolo indica in pratica una rivelazione attraverso un forte flusso di sogni. Perché è questo che racconta il romanzo cui il disco è totalmente ispirato.

La tenebrosa opera musicale ha in effetti un legame molto profondo con la parallela opera letteraria: i brani riportano esattamente i titoli dei capitoli e ci sono riferimenti precisi a specifici momenti del racconto, nonché a certe ambientazioni (i rumori del traffico metropolitano, il passaggio dell’aereo, le “voci” dei demoni…) Anche la parte grafica identifica perfettamente il legame tra le due opere: stessa copertina, innanzitutto… e poi le immagini nel disco rappresentano situazioni del romanzo. Con la musica ho voluto trasmutare in vibrazione, in suggestione, la radice onirica del romanzo, laddove nel romanzo questa radice si fa descrittiva (da un mail privata dell’autore al sottoscritto).

Entrambe le opere costituiscono una sorta di summa della produzione di De Caroli/Deca, al punto che l’artista arriva a definirle un testamento artistico o comunque la conclusione di un ciclo trentennale.

Nella seconda metà degli anni Ottanta esce il primo romanzo di De Caroli: Oidon (Stampa Atomica 1987; ILMIOLIBRO 2009) ambientato, come molte opere dell’autore, in una distopia futura spietata e decadente. Pur presentando temi onirici e sviluppando l’idea dell’ineluttabilità di una fine orrenda che si troverà sovente nei suoi successivi lavori, esso conserva in qualche modo la struttura classica di un romanzo: vi si trovano un’ironia creativa che si diraderà in seguito (ma mai scomparendo del tutto), un protagonista avvolto dalla cecità verso se stesso e il mondo, una presa di coscienza e una vaga sorta di redenzione finali. Questi elementi spariranno con il tempo per dar vita a una forma di arte narrativa completamente nuova e inedita per cui è difficile trovare riferimenti: per certi versi si potrebbero citare Poe come Lovecraft, Hoffmann come Meyrink e Kubin, Borges come Thomas Ligotti, senza considerare svariati scrittori di fantascienza: ma si coglierebbero soltanto poche  somiglianze tra le varie possibili.

In Nella Penombra il demone (ILMIOLIBRO 2009) qualsiasi classico schema romanzesco è ad esempio disintegrato: si possono cogliere, nelle due parti che lo compongono (la prima in forma di brevi reportage onirici, la seconda di racconto lungo), una successione ininterrotta di appunti onirici da incubo collegati tra loro da segni estremamente occulti, elementi che in parte ritroveremo ne Il Futuro è finito.

L’affascinante L’Abisso terminale (Distorsione Onirica 2001, ILMIOLIBRO 2012) che ha ispirato l’opera musicale Aracnis Radiarium, è invece un vorticoso viaggio distonico tra pieghe di realtà spazio-temporale collegate tra loro da una serie di segni e premonizioni di ardua interpretazione, eppure in qualche modo vivi, pulsanti nella mente del lettore, sicché l’opera costruisce una narrazione non lineare ma coerente stupefacente nella sua struttura.

Un ruolo vitale verso questa tipologia narrativa lo hanno giocato sia l’estrema sensibilità di De Caroli verso la dimensione del sogno, che costituisce in lui una vera e propria vita parallela a quella cosciente, sia il movimento artistico del Distonirismo, da lui sviluppato insieme ad altri artisti dalla fine degli anni Ottanta ai Novanta. Il termine è una crasi di Distorsione Onirica e postula l’assoluta parità ontologica e cognitiva tra stato di sonno e stato di veglia, con il primo che costituisce l’unica possibilità umana di una percezione libera dagli schemi logici e spazio-temporali della veglia, con uno scambio circuitale tra le due condizioni (attraverso premonizioni e altro) che passa attraverso le facoltà di percezione-ricezione dell’individuo.

Ovviamente la teoria della Distorsione Onirica è enormemente più complessa e elaborata da quanto qui (necessariamente) accennato.

Si può dire che con Il Futuro è finito l’autore abbia realizzato il suo progetto letterario più completo e coerente. La parziale non-linearità della narrazione appare in realtà, a una lettura appena un po’ approfondita, estremamente compiuta e conseguente, se si riescono a cogliere i passaggi non causali ma sincronici del susseguirsi e dell’alternarsi degli eventi negli stati di sonno/veglia. La logica della narrazione attinge al tipo di relazioni tra eventi tipiche della realtà del sogno, alla loro (indicibile in uno stato di veglia) consequenzialità. Ciò anche grazie a una dote particolare di De Caroli: egli si ricorda di tutti i sogni che ha fatto in vita, e forse, azzardo, parzialmente nella loro dimensionalità pressoché intraducibile a partire da una condizione cosciente. Da artista, egli vive uno stato totale e assoluto dove sonno e veglia sono lasciati interagire grazie alla disciplina del Distonirismo.

Ne Il Futuro è finito il protagonista ha perso tutto dell’albagia e dell’arroganza di quello di Oidon Egli è un nudo essere umano errante nell’universo kubiniano in continua trasformazione della sua città. Un cosmo colmo di insidie, piccoli e grandi eventi incredibili (ma senza che mai il romanzo varchi davvero la soglia del genere fantastico) e orrende premonizioni da cui è costretto a districarsi attimo per attimo. La descrizione proustiana, piena di dettagli (di una ricchezza lessicale straordinaria) non fa che accentuare la percezione dell’umanità di quest’ultimo, pur suggerendo ininterrottamente uno scenario e uno stato d’animo vicini allo squallore, lo smarrimento, il pericolo imminente, la degenerazione.

Egli è un uomo solo, perduto dinanzi a un orrore crescente, ma anche a una decadenza orwelliana della città in cui si trova a muoversi (decadenza che troviamo,ancora più accentuata ne L’abisso terminale) che si traduce in una sorta di penuria generalizzata di siti e beni di consumo che possano testimoniare una reale permanenza della civiltà del benessere, e d’altra parte alla degenerazione architettonica della città. Sensibilissimo alle strutture architettoniche, dalle più vaste alle più minute, il protagonista, nel raccontarle minuziosamente insieme alle sue sensazioni, fa toccare con mano al lettore la sua a tratti disperata tensione. Lo scambio circuitale tra sogno e veglia è continuo, con momenti di grandi inventiva e tensione psicologica.

Il senso di smarrimento (mai disunito a uno di forte curiosità) si accentua nel lettore via via che si inoltra nei capitoli sempre più colmi di sorprese e colpi di scena, ma coerenti con l’idea che la realtà non sia che un mosaico di collegamenti sincronici tra veglia e sogno, e che quindi la decifrazione del rebus non possa avvenire completamente sul piano della logica cosciente. La degenerazione e le improvvise vampate di fluorescenza dell’architettura della Città e del Borgo, nel quale il personaggio a lungo si perde, sono parallele al progressivo cadere della coscienza in un abisso che non è affatto quello della psicosi, ma della percezione di un reale movimento di tutte le cose conosciute verso la catastrofe, a sua volta però sincronico con la percezione stessa, sicché la facoltà di osservazione e l’oggetto osservato non sono nettamente scindibili in senso classico. Rimane tuttavia indubitabile la conservazione, da parte del protagonista, di tutte le funzioni dell’Io, che lo separano da qualsivoglia condizione psicopatologica.

Strada facendo, affiorarono altri ricordi che credevo esorcizzati e che invece conservavano la potenza evocativa delle visioni inspiegabili legate alla fascinazione cosmica che albergava in me fin dalla più tenera età. La predisposizione e la sensibilità a una fascinazione cosmica del protagonista non devono essere molto diverse da quelle dello stesso autore, ma ciò che è importante è che esse influiscono sull’estenuante curiosità del protagonista; essa è infatti il perno della sua vitalità, per cui sembra sempre preferire il disvelamento anche della più orribile delle verità a un facile suicidio, anche quando si trova in situazioni estreme e senza apparente scampo. Con ciò egli trasmette una fortissima valenza esistenziale al suo girovagare inquieto che lo porta quasi a desiderare le trappole che la sua bizzarra sorta gli pone innanzi.

Ciò che semmai sembra bramare a un certo punto, durante una fase intensissima di saturazione, è   una sorta di atarassia. Con ciò ci restituisce un’umanità nuda e stremata, pressoché carnale nella sua tragica concretezza: Ignorare tutto fino ad essere convinto nel più recondito strato del subconscio che lì o altrove era la stessa cosa. Che una strada valeva un’altra. Che allontanarsi era la cosa più facile del mondo riflette il protagonista dopo aver troppe volte constatato, subendo ogni genere di trauma nella psiche e nel corpo, la kafkiana impossibilità di uscire dal Borgo.  

Anche la confusa tenerezza che egli trova insieme al comprimario femminile Vilisa-Silvia, e che si sussegue con varie (traumatiche) interruzioni per quasi tutto il romanzo, luce in un regno di ombre, è spazzata via da un destino ineluttabile.

Il Futuro è finito contiene a parere del sottoscritto, spunti per altri tre o quattro romanzi, tante e di tale qualità sono le intuizioni narrative di De Caroli. Spiace che alcune idee non siano sviluppate più capillarmente, poiché la scrittura dell’autore arriva a farsi ipnotica a furia di mirabili dettagli.

Un libro di  oltre cinquecento pagine, riccamente elaborato, che alla fine però sembra quasi troppo poco: nulla di più lusinghiero, credo, per un autore. La summa Decaroliana è forse anche il principio di ulteriori ardite elaborazioni distoniriche: noi di Critica Impura ce lo auguriamo con tutto il cuore.

  • Federico De Caroli, “Il futuro è finito” (IlMioLibro)
  • ISBN : 9788892315525
  • Edizione : 2a
  • Anno pubblicazione : 2016
  • 540 pagine

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