Il Festival delle Letterature Popolari e tutto ciò che di umano c’è

FLEP!
FLEP!

Di PIER PAOLO DI MINO

Se devo parlare del “Festival delle Letterature Popolari” mi vedo, con piacere, costretto a chiarire i termini in questione. Mi è inevitabile usare qualche amplificazione e concedermi l’utilizzo dei mezzi messi a disposizione dalla ridondanza, perché “festival”, “letteratura”, “popolare” (soprattutto queste ultime due) sono parole oggi fruste e rese piuttosto inermi da un uso distratto e annoiato. E invece dobbiamo dargli di nuovo corpo. Quindi, il miglior modo di procedere è partendo dal corpo.

Quello della città di Roma, intendo. E, in particolare, del suo cuore moderno: il suo quinto quartiere, il Tiburtino. Appena fuori delle mura, scivolando verso occidente, all’inizio del Novecento viene edificato un borgo dove stipare, dopo averlo strappato dal centro, il popolo. Per popolo qui si intende il ceto che non ha accesso alla ricchezza e quindi alla possibilità di decidere della propria vita. La zona è quella di San Lorenzo, il cui carattere architettonico, è bene dirlo, risalta nella sua essenza in un agile confronto con il coevo quartiere di Prati di Castello. I due quartieri si somigliano, ma qui al Tiburtino i palazzoni borghesi diventano edifici carcerari. Al Tiburtino il popolo viene messo in carcere.

Fuori da San Lorenzo si estendono altre zone del quartiere, Casal Bertone, Portonaccio e Casalbruciato, inizialmente suburre agricole, poi urbanizzate dalla Democrazia Cristiana secondo nuove concezioni abitative a uso e consumo del popolo (che è sempre quello senza mezzi di sostentamento sufficienti). Le nuove concezioni sono l’abuso edilizio e la costruzione, affidata all’Ina-Casa, di alcuni palazzi dall’improbabile aspetto di baite di montagne enormi. Il carcere si manifesta come delirio.

Giova dire che il popolo, qui costretto, trova una soluzione a questo stato di avvilimento materiale e spirituale: l’orgoglio. Il ghetto, per così dire, istiga al piacere di qualche aristocratica distinzione. Tenuti fuori dalla condivisione dei beni della società civile, di questa società civile il popolo di questo quartiere si è spesso sentito in dovere di indicarne i difetti. Troviamo esempi di questa critica nel tentativo di rapire e buttare al fiume la carcassa di un alto prelato scortata al Verano, e a cui parteciparono con gioia vaste moltitudini in un giorno di circa cento anni fa; il tentativo, riuscito, di impedire l’entrata dei fascisti nel quartiere durante la marcia su Roma; la rinascita della resistenza durante la seconda guerra mondiale; e ancora il movimento studentesco e di rivolta politica degli anni Sessanta e Settanta. Un orgoglio che ha un prezzo aggiunto alla tassa sulla povertà: la tragedia che si porta sempre appresso il contegno eroico. I sassi di questo quartiere hanno visto la persecuzione di ogni sorta di ribelle; hanno assistito al patimento dei bombardamenti che hanno devastato San Lorenzo e raso al suolo tutta la via Tiburtina (evidente che quando si diceva che Roma non sarebbe stata bombardata per via del Vaticano, si intendeva escludere dalla salvezza il popolo); sono stati testimoni della deportazione del popolo ebraico stipato sui carri della Stazione Tiburtina. Sì, questo è il quartiere dove è stata fatta la Storia, quella narrata dalla Morante.

Le storie, quelle raccontate da Pasolini. E non è con distrazione che cito gli ultimi grandi maestri della nostra letteratura; gli ultimi a conoscere con esattezza a quale dovere (senza distinzione: estetico ed etico) ci chiami la letteratura, perché voglio proprio insinuare che non passa solo una coincidenza fra la morte di questo orgoglio, con la trasformazione del popolo in pubblico televisivo avvenuta negli anni Ottanta, e il termine della parabola umana e letteraria della Morante e di Pasolini, così come non fu una coincidenza se le loro storie interessarono questo quartiere. In realtà voglio proprio dire che la letteratura, così come fu espressa da Pasolini e Morante, e il popolo, e l’orgoglio, e l’eroismo, e la libertà, e una possibile via di uscita dalla devastante crisi morale e spirituale che viviamo, sono tutti termini strettamente connessi tra loro, e che, inoltre, per fare una festival, per fare realmente letteratura, per farla per tutto il popolo, era proprio necessario questo quartiere.

La dimostrazione sta nell’esistenza del Parco Meda. Prima che aprisse i battenti il Forte Prenestino, o si occupasse qualsiasi altro spazio per ridare cultura ai luoghi, un gruppo di ragazzi, Claudio e Maurizio Zaia e i loro amici, presero questo pezzo di terra e vi costruirono la loro piccola repubblica autonoma, dove fare cultura, dibattito, dove divertirsi e condividere tutto ciò che di umano c’è. Da allora, il bus a due piani ha continuato ad esistere nel silenzio di piombo di questi anni bui, portandosi dietro tutta la storia del quartiere, tutti i ribelli perseguitati, i bombardamenti, tutte le utopie sognate, la Morante e Pasolini. Qui, in questo parco, ha luogo, quindi e di necessità, il nostro festival.

Penso che quanto detto abbia ridato sufficientemente corpo alla questione e, dal momento che le evidenze del corpo sono quanto più di miracoloso ci sia, la chiarificazione dei termini ora potrebbe essere intesa come un semplice desumere dai fatti.

Ossia possiamo desumere dall’essenza letteraria del quartiere Tiburtino e del suo popolo, che un “festival” qui deve essere inteso come “festa”. Una festa di quelle che il popolo ha sempre amato festeggiare: feste sacre, sagre, fiere, il buon riunirsi in piazza, l’agorà dove si parla incessantemente cavillando sul nulla (grandezza della Grecia, che ha reso perfino i dogmi e i misteri di Oriente così vivi e gustosi e arguti e pettegoli!), dove si fa politica e teatro. Una festa di quelle che, nel quartiere Tiburtino, dove non sono state appositamente costruite piazze, gli uomini e le donne si sono ingegnate per farne ostinatamente comunque: in strada o nelle osterie. Le feste dove si raccontano storie, perché ci divertono o ci istruiscono, e comunque ci riguardano perché siamo vivi. La festa come accadimento in sé letterario.

A questo punto una parola si trascina l’altra, perché se abbiamo fatto desumere dal “Tiburtino” la “festa”, dalla “festa” dovremo far derivare ora sia “letteratura” che “popolare”. In realtà sarà ormai chiaro che la distinzione fra “letteratura” e “popolare” è tanto futile quanto necessaria. Futile perché le due parole dovrebbero sovrapporsi; necessaria perché una tradizione, specie italiana, ha costretto Gramsci ad auspicarsi la  nascita di una letteratura fatta per il popolo: storie di alto livello che non trattassero il popolo come un pubblico inerme da intrattenere, o che lo escludessero; insomma quella che è diventato il nostro commercio letterario, il nostro mercato non importa se in cerca di clienti di nicchia o di massa. Ed è qui che la nostra chiarificazione dei termini deve, quindi, usare una certa determinazione nell’affermare che per “letteratura” si intende il bisogno di raccontare e ascoltare, scambiarsi una storia (o un pensiero) con le parole, o le immagini, o la musica, perché raccontare storie è quello che ci rende vivi; perché un uomo senza storie non è vivo, e non lo è un popolo: e che quindi la letteratura è fatto di popolo, o non è letteratura.

O, almeno, non è una letteratura che sia viva nel corpo, come quella di Pasolini; o nell’anima, come quella della Morante; rivitalizzante in virtù di quelle buone vitamine che sono gli aggettivi, ci insegna Shakespeare; esaltante e con sogni e visioni e sermoni, come piace a Dante; capace di riportarci indietro fin giù alle nostra fondamenta di uomini, come ci accade, seguendolo nel suo miracoloso viaggio dal romanzo borghese a quello greco, quando leggiamo Thomas Mann e ci affidiamo al suo saldo proposito di strappare il mito al fascismo intellettuale e restituirlo agli uomini (lettera a Kerényi del 7 settembre 1941): ma mi fermo qui nella mia invocazione ai padri.

Tanto saranno tutti presenti con noi, al Parco Meda, dal 12 al 16 settembre, per condividere insieme tutto ciò che di umano c’è.   

Il programma del Festival si trova qui.

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