
Di ROBERTO AGOSTINI
Facebook non è la Dea Kali
ma quasi.
Detto indiano
Il meccanismo inflazionistico – un processo inarrestabile di deterioramento ed espansione – sembra essere alla base del successo di Facebook, con i suoi nuovi modi (modelli) di comunicare fra individui che si conoscono o si potrebbero conoscere. Oggi gli utenti di Facebook sono un miliardo, in continua crescita. L’adozione sempre più diffusa indica un apprezzamento generale ma anche un rischio di invasione. Ci solletica l’opportunità offerta da questo collegarsi istantaneamente, premendo o accarezzando un tasto per formulare brevi, sintetici apprezzamenti (“mi piace quello che scrivi o mi fai vedere”, “ti dico subito cosa ne penso”, “lo condivido oppure no”). Ci solletica la possibilità di allargare con uguale rapidità la platea di emittenti-riceventi, incrementarla e nello stesso tempo variarla, come nello stesso tempo mescoliamo la parola all’immagine, in una completezza di sensazioni e segni che assomiglia a un video-clip concentrato o a uno slogan animato. Facebook colpisce come un raggio di luce e, come un raggio è fatto di fotoni, così Facebook contiene “pacchetti discreti” di informazioni. Si colora, si quantifica, si qualifica.
Non voglio parlare della dipendenza che tutto ciò può creare: il problema, anche per altre “droghe”, è del consumatore, non del consumato. Se nessuno fumasse, le sigarette non crescerebbero da sole sugli alberi. Mi interessa la tecnologia in sè, quanto possa essere persuasiva e quanto sia pervasiva.
Ho a portata di mano il mondo. Posso espanderlo. Teoricamente non ho limiti perchè, se nella realtà quotidiana una relazione può condurre a un’altra, nella rete l’intreccio è infinitamente più facile. Anche il più timido può spalmarsi su Facebook. Chi è confinato, esce tranquillamente dai suoi confini. Facebook vince l’afasia e l’handicap. Ma non stiamo parlando di uno schermo piatto, icone che si accendono e spengono a comando? Facebook è irrealistico e non comporta una realtà che non sia quella limitante del virtuale. Il non-limite ritorna limite. Ed è peggio di prima, come una promessa non mantenuta.
Facebook è immateriale: anche quello che stava dietro le parole su una lettera del Settecento lo era, anche il ticchettio del telegrafo dell’Ottocento si scioglieva nell’etere, era aria. Facebook, però, è anche perturbante, attraverso di esso confondiamo l’essere e il non essere. Se non dovessi dormire, e se dall’altra parte trovassi un amico sonnambulo come me, potrei andare avanti con Facebook per sempre. La mia vita si trasformerebbe in vita su Facebook.
La nevrosi è stare con un piede di là e uno di qua. La psicosi è buttarsi con entrambi i piedi di là, nel buco nero ben più pericoloso dell’indecisione nevrotica. Facebook tendenzialmente è psicotico, attira, invischia, delocalizza. L’attraente superficie della bacheca può diventare la pietrificazione di Medusa. Allora non solo non lo abbandoniamo più, o raramente stacchiamo questa “faccia”, ma tutto viene graduato, valutato secondo la nuova maschera assunta.
Vivere di icone, fra icone, significa agire come fantasmi fra fantasmi. L’idolatria è dietro l’angolo. Facebook può alimentare le psicosi mentre come una reazione a catena alimenta se stesso. È un processo de-generativo, simile al fanatismo religioso o ideologico. Non tutti, ovviamente, si ammalano ma potrebbero e i sintomi del contagio sono questi.
È nato l’uomo-Facebook, prototipo di quel funzionamento misto già preconizzato dai cyborg-universi, il finto e il vero indissolubili, la macchina e l’utente inscindibili, l’artificiale e il naturale che avvengono senza soluzione di continuità. Così entrambi si squalificano, proprio come nell’inflazione dell’economia le stesse merci sempre più care ingoiano più denaro, declassando l’oggetto e la moneta. Infatti, è vero che realtà e virtualità si ibridizzano nel feticcio “Facebook” – riesci a distinguerle? – ma nello stesso momento si rendono irriducibili una all’altra – riesci a paragonare minimamente Roberto in carne e ossa al Roberto che ti appare in rete? -. Sappiamo come tutti gli utenti, prima o poi, si divertano ad abbellirsi sulla rete, vogliano farsi più interessanti, apparire profondi e intimi, più capaci di quanto non siano, un’operazione di maquillage che è la singolare attrattiva del gioco. Agisce il desiderio narcisistico prevalentemente negativo: cerco l’apprezzamento altrui per piacermi di più. E il desiderio, in senso adleriano, di potenza: sono potente quanti amici ho o riesco ad avere. La logica naturale dell’incontro fra me e l’altro va a farsi benedire. Su Facebook non esistono spiegazioni più lunghe di una riga, non possiamo articolare un discorso, difficile spiegarsi e difficile comprendere. Se controbattiamo, facilmente veniamo fraintesi o respinti. Quando poi si va fuori rete, il rischio del reale si fa molto forte. In certi cortocircuiti – due utenti si danno appuntamento al bar o si vedono su una panchina – le ricadute possono essere disastrose. Eri un poeta sulla rete e ora ti presenti all’appuntamento come un impiegatuccio? E tu non eri una bionda esplosiva e adesso hai le rughe?
Gli incontri di Facebook, se vanno al loro fine naturale, sono rischiosi come i matrimoni di una volta combinati con un’inserzione e una fotografia. Il face-book-cyborg è incatenante, come Calibano della Tempesta di Shakespeare avvinto dalla magia di Prospero. Il nostro Prospero è proprio questo schermo, che fa apparire e sparire in un soffio l’enorme quantità sottesa a un’informazione, per non dire delle infinite vibrazioni di un sentimento. Pretendere di più è impossibile. Ci si accontenta dell’irrealtà, della minorazione. Allora il mezzo che doveva allargarci fa andare al ribasso. Siamo regrediti dalla pienezza brutale della verità e dell’autentica amicizia – pienezza che comporta frustrazione, dobbiamo saperla affrontare – alla scintillante unilateralità della fantasia. Nel sogno non siamo mai frustrati, continuiamo a sognare. Preferiamo questo sogno. Siamo nell’era degli effetti speciali.
Già il medium scrittura – come ricordava Nietzsche e come sa qualunque scrittore – è ambiguo rispetto alla nostra umanità potenziale, perchè le cose migliori, i pensieri più profondi restano nella penna. Il medium Facebook, constatata la rapidità della vita d’oggi in ogni settore, ha voluto ipostatizzarla: essere sfuggenti, labili, momentanei, è ormai pratica accettata. La virtualità pretende sempre di più al titolo di realtà. I tecnocrati si danno da fare sul 3D, fra poco assisteremo agli ologrammi cinematografici. Quando quarant’anni fa furono introdotti i primi occhialini per le pellicole tridimensionali, era molto camp – mi ricordo un film visto a Parigi: Frankenstein in 3-D! – . Insomma una risata e via. Oggi siamo inchiodati, abbonati a queste tecnologie.
La destabilizzazione antirealistica di Facebook assomiglia all’altro grande processo in corso, la democrazia declassata a populismo. “Una testa, un voto” fu il principio rivoluzionario della società monocratica, teocratica. Ma quando entriamo nel cono buio di “una faccia, un voto” e tutti possono prendere la parola senza un regolamento (pesi-contrappesi, valori-disvalori), e tutti votano il primo che si presenta alla platea virtuale, siamo nella cacofonia. Il coro non è armonico senza leggi di armonia, le voci sono casuali, non vere e soprattutto falsificabili, al potere va (è già andato) il più forte, il più ricco e appariscente, non il più meritevole.
Facebook è la straordinaria apertura alla società di massa. Ma come strumento indifferente (semplificatore) di questa società, non valorizza le persone, propaga l’adattamento e lo accelera. Non concentra i saperi, li inflaziona. Non esalta le potenzialità comunicative, le riduce a espressività, gesti singoli e singolari. I teorici del movimentismo e dello spontaneismo, nella politica come nell’arte, sono contenti. Era quello che volevano: ora tutti siamo alla pari. I gestori delle istituzioni e gli educatori del gusto, lo sono un po’ meno. Forse ci stiamo avvicinando al punto che istituzione ed educazione spariranno? Oppure Facebook diventerà una rete consapevole di (per lo più) consapevoli? O passerà come una moda del post-Duemila? Oggi nessuno può dirlo.
Non è al singolo “diario” di Facebook che dobbiamo guardare. Ma al complesso. All’onda d’urto. Quella che la mia generazione del Sessantotto chiamava “controinformazione” e si riverberava nei tazebao murali e nei volantini ciclostilati, messaggeri del Movimento di mano in mano. Il fatto che il Sistema di Potere abbia assorbito la protesta di allora e smussato i nostri mezzi di farla e dirla, può insegnare? Oggi siamo in trincea, adoperiamo la tecnologia disponibile. Quanto il Sistema già in partenza ci programmi per essere fagocitati e annullati, non è dato saperlo – pretesa di dietrologi nella loro paranoica innocenza o di apocalittici disgustati, per dirla alla Eco -. Comunque dobbiamo essere avvertiti: incombono dispersione, egotismo, manipolazione.
I social-forum, i gruppi di opinione e pressione stanno rettificando per quanto possibile la corsa al degrado. Talvolta, nel mare magnum della rete, questi correttori virtuosi non riescono ad agire: sinergie di pareri, scambi di consigli, utili interferenze e moniti collettivi, rischiano di assomigliare ai club di Maupassant, le allegre brigate che per divertirsi (sentire la vita), si davano appuntamento sulla Senna di Parigi: una domenica in canotto, un pomeriggio in balera.
Dissolto il chiasso, resta il buio. La notte che schermi lontanissimi cercano di accendere, illuminare.
Studiarlo restandone fuori o agire politicamente stando dentro? questo è il problema!
Pasolini, ad esempio, optò per la seconda che hai detto. Fino in fondo.
Sonia Caporossi
E se cominciassimo a pensare che già il nostro corpo è una protesi mistificante della nostra mente…? Perché la virtualità comincerebbe dalla rete? Anche quando è nata la scrittura ci fu chi riteneva meno virtuale la comunicazione orale. Sono sicuro che se un domani sarà possibile connetterci mentalmente, troveremo ancora qualcuno della generazione precedente che penserà con nostalgia alla “concretezza” dei rapporti su FB…
Caro Francesco, anch’io, dopo aver scritto l’articolo, ho pensato che avesse dei limiti. D’accordo con te, la virtualità dal punto di vista categoriale è molto più ampia ed è apparsa dal momento che, uscito dalla caverna e rientrato subito dopo aver visto una tigre dai denti a sciabola, il nostro antenato ha sognato virtualmente la belva. Un sogno persecutorio. Ma è proprio ciò che volevo sottolineare: la persecuzione del virtuale, non l’aspetto iconico-fisiologico-sinaptico ecc. ecc. Oggi l’invasione, ma giustamente l’uomo del 2100 se ne farà un baffo (Magari non andrà così. Ma mettiamola sul nostalgico-ironico). Magari sarà l’avvento dell’uomo-sogno di un sogno di un altro sogno. Pazienza! Ma oggi io sono spaventato (perplesso), non nel 2100. Ti faccio un esempio: la perdita di contatto, l’essere circondati da invisibili cui diamo valore di visibile, tv, pubblicità, film, video ecc. Vedere pargoli che non hanno più voglia di sparare con le pistole ad acqua, ma con quelle della consolle. Siamo in un’epoca di transizione – ho letto oggi su La Repubblica – ma lo sappiamo: al punto di non ritorno, entrati in un’altro universo storico-sociale-culturale. Come andrà a finire? Non lo so. Saremo una rovina per archeologi come Uruk? Saremo ancora capaci di trasmettere conoscenze o l’Enciclopedia degli Illuministi sarà carta nel vento? Tutto qui. E non sono un apocalittico. Ma uno
storicista alla Gadamer, oibò. Ciao e grazie del commento lasciato.
Credo che interventi come questo, seppure siano profondi e argomentati, soffrano ancora di una concezione del virtuale debitrice a un immaginario che alla prova di fatti non si dimostra fondato.
Finché non si opera una ridefinizione di questo concetto difficilmente, è la mia ipotesi, si potrà dare dei media sociali una valutazione e una lettura che ne esaurisca la complessità.
Un contributo fondamentale in questo senso lo danno i lavori di Maddalena Mapelli che, senza rinunciare alla critica del mezzo, mette in luce, attraverso la genealogia dei dispositivi specchio, come i social media e facebook in particolare siano mezzi attraverso cui costruiamo immagini speculari di noi stessi (avatar). Queste immagini non sono però, soltanto, copie virtuali ma veri e propri costrutti semiotici che partecipano della nostra esistenza.
Qui riecheggia il deleuze de L’immagine-tempo che mostra come nel cristallo di tempo, che si dischiude nell’immagine, reale e virtuale siano imbricati l’uno nell’altro, siano l’uno una parte costituente dell’altro.
In questo senso, allora, i social media fanno parte della nostra “realtà” e i rapporti che stringiamo attraverso di essi non hanno differenze qualitative rispetto a quelli che stringiamo in presenza, bensì delle differenze quantitative (di distanza, di tempo, di gesti aptici, ecc.)
Non so chi sei. E mi piacerebbe scherzosamente interloquire come “Spugna”. In parte credo di aver risposto alle tue obiezioni – per mia ignoranza non conosco i saggi di Mapelli – con il commento precedente. La mia convinzione è che reale-virtuale siano imbricati ma superata una soglia – con la Rete siamo ormai oltre – gli effetti di spaesamento superino quelli eventuali, positivi di scambio e arricchimento. Vedo in atto un meccanismo di alienazione, psicologico e sociale. Per esempio, il narcisismo del rispecchiamento, l’onnipotenza dell’esserci a tutti i costi, parlando con un altro che non mi interessa (o interessa ben poco) fuori da questo auto-consenso. Quando uso i mezzi di comunicazione l’assenza è scontata, ovvia. Come nel linguaggio, in una poesia, in una dedica. Ma abbiamo presente il referente, cioè c’è un oggettivo significato al di là che naviga, appare e scompare, non gli dedichiamo tanta attenzione perchè lo conosciamo, siamo “confident” all’anglosassone (cioè fiduciosi, non proprio confidenti). In Face credo di no. Non conosciamo l’altro, anzi la significazione prevede proprio che il significato sia abbastanza vuoto. Lo scambio avviene per segnali, input, l’importanza è il riverbero, non la comunicazione a due, tre, cinque, venti. Questo, ovviamente, al limite, ma il mio articolo è sui limiti del fenomeno. Certo ho “stirato” il fenomeno come in un esperimento di osservazione.
Ho un’ultima idea da esporre: se non fosse stata inventata la Rete, dove (tutti) avremmo scaricato le nostre frustrazioni? E dove avremmo recuperato stima di noi stessi così a buon mercato? In tal senso la Rete non è linguaggio di vita, ma
sistema di potere, consegnato da un sistema.
interessante, ma trovate le pecche/i difetti e le inconsistenze, c’è anche da chiedersi se si può tornare indietro o lasciarsi inghiottire dal “buio” o se invece si possa migliorare. nel secondo caso: se sì, come migliorare allora?
Caro o cara Epochè, colgo il tuo spunto, per dire una cosa assai breve: la pars costruens non è compito mio. Come autore dell’articolo di critica. Speso si invoca, non so quanto ingenuamente o provocatoriamente, di fronte a una critica, la soluzione. Aggiungo, da face-utente moderato, un effetto che sto riscontrando. Un doppio legame: Face intensifica la scelta (scelgo un amico/argomento, lo “punto”), Face nello stesso tempo diluisce i contorni, essendo tutto virtuale, un gioco di domande/risposte combinate. Questa perenne oscillazione, credo costituisca buona parte del fascino di questa modalità. Ma anche lo sconforto. Arrivando diretto su tutto il mondo possibile, non arrivo su nulla. Ecco, un miglioramento, potrebbe consistere da parte degli adulti verso i giovani nell’invito a selezionare, verificare, stare in guardia, ecc. Non so se ho risposto. Ci ho provato.
mi pare un’ottima risposta da cui partire. la mia osservazione era per sottolineare un aspetto di non ritorno, ossia l’impossibilità di fare a meno di internet. Fb data la popolarità potrebbe sì essere uno strumento migliore, c’è solo da capire come. e non è facile.
face book risponde al bisogno umano di comunicare e socializzare, e lo sfrutta: come viene regolato gestito e controllato il bisogno? quale deve essere la risposta letteraria?
1. il rifiuto.
2. l’utilizzo di testi che sarebbero uguali senza face book.
3. l’uso e l’elaborazione del linguaggio che face book permette favorisce e accoglie ma per “dire altro” attraverso uno stile comprensibile e diffuso. quindi torna il problema dell’avanguardia, la sperimentazione e la ricerca letteraria nel senso dell’allegoria.
chi scrive deve assumersi il rischio di rappresentare ogni faccenda della società, a costo dell’ambiguità morale politica. che tutti e tutte siamo uguali su face book, non è solo il frutto del mercato, il postmoderno, il consumismo ma deriva anche da una tendenza popolare a ridurre e annullare le prerogative i privilegi parodiando e deridendo tutto. con questo dobbiamo misurarci: un potere che si separa dalla moltitudine per gestirla gerarchicamente, capace anche di disinnescare o stemperare la critica con strumenti di comunicazione in cui si avvicendano discorsi raffinati con gli auguri di buon compleanno.
ma il punto è: bisogna criticare lo sfruttamento il controllo la gestione dei nostri bisogni ma contemporaneamente occorre riconoscere tali bisogni umani psichici culturali sociali e storici e individuali. che ovviamente sono anche provocati e favoriti dal mercato. altrimenti ridurremmo i nostri comportamenti a mera costruzione del potere da combattere senza offrire risposte soluzioni, comprensione, sostegno, riconoscimento a ogni essere umano. è già accaduto: moralismo, assolutismo, estremismo, rivoluzioni che fanno strage di chi è diverso, “peccatore”, non autentico. sembrerà una provocazione ma malgrado il diritto, la psicologia e la politica, a me pare che finora il potere, l’istituzione la pratica sociale che in modo più approfondito e esteso sia capace di arrivare a ogni essere umano preso singolarmente personalmente individualmente, sia proprio il mercato, con i suoi prodotti, il marketing, le mode, che utilizzano il nostro bisogno di identificazione partecipazione e riconoscimento: questi bisogni li dobbiamo studiare sviscerare per offrire delle risposte alternative o quantomeno critiche, più consapevoli. i giovani hanno paura dell’esclusione e la solitudine. dobbiamo comprendere la frattura abissale che fa orrore tra chi può consumare e chi è miserabile. so che non è semplice e so che ognuno e ognuna di “noi” cerca di farlo attraverso le proprie attività. noi dobbiamo “imparare” dal mercato a rivolgerci a ogni essere umano facendolo sentire importante, non per sfruttarlo allo scopo di arricchirci a suo discapito ma per ricostruire insieme una convivenza umana, una reciprocità, nel rispetto della diversità di ogni vita. dobbiamo recuperare il senso di una “religiosità” intesa come sentimento di una comunità umana alla quale tutti e tutte apparteniamo. lo so che è difficile, ci mancherebbe: allora noi che ci stiamo a fare? le faccende facili non ci appassionano
la nostra posizione diverge: http://sergioandpeppe.blogspot.it/2012/06/apologia-di-facebook.html
Ognuno si tiene il proprio Face. Come scrivono Sergio&Peppe c’è già abbastanza tristezza per pensare anche a questo, no?
Credo che tu colga, nel senso di rendere manifesta, la passione che mi ha animato nello scrivere questo articolo. Che è appunto: liberiamo le coscienza di TUTTI dai trucchetti dell’alienazione, e un certo uso delle teconlogie digitali è alienante, reificante e deprimente. Se siamo onesti, tutti possiamo constatare i limiti dell’informazione (comunicazione/contatto) digitale, nello stesso tempo in cui la utilizziamo, consapevolmente, per alcune funzioni. Ma io vedo in giro troppo ottimismo – anche di note formazioni politiche e pedagoghi illuminati – sull’uso delle tecnologie, sull’avvento del “moderno”, del “diffuso”, del “partecipe” tramute i nuovi mezzi informatici-elettronici-telematici. Infatti, la reliigiosità di cui tu parli fra virgolette, ha ben altro significato che un “clic” su un tasto cui risponde un “cloc”. Il sentimento comunitario, per esempio, stasera potrei recuperarlo pienamente se potessi parlare a persone vive. Non scrivere a uno schermo. Persone che ribattono, contestano, annuiscono, si soffiano magari il naso, ma ci sono. Mi sono spiegato? Spero. Non essendo sempre possibile, vado a leggermi un bel libro, che è un contatto illusorio. Ma ne sono consapevole. E non è uno scambio, ma una direzione sol, mia verso l’icona, la fiction, l’irreale, il virtuale. L’autore non può far “clic”. Né mi illudo che possa, non sono matto.
Gentile Roberto Agostini,
Le confesso che la Sua richiesta e la conseguente osservazione non mi hanno
stupita: l’avevo previsto. Perciò Le rispondo così:
Non sto a richiamare tutti i punti del lungo “articolo” di Roberto Agostani,
perché evidentemente essi sono bene presenti all’autore. Manifesto il mio
disaccordo con Lui sulla demonizzazione del nuovo mezzo di comunicazione,
dicendo che non è Facebook a fare mostri ma sono i mostri che fanno Facebook.
Ovvero tutti abbiamo bisogno di dosi quotidiane d’illusione. Facebook può far
parte di quella quota, può eccederla, può amplificarla e deformarla, deformando
anche noi ma lo stesso possono fare altri mondi illusori come, ad esempio,
quelli dei romanzi. Anche i romanzi costruiscono mondi di fantasia e di
illusioni; anche leggere e immedesimarsi in questi mondi può costituire una
fuga dal mondo e un passaggio in un altro…
Possiamo accusare i romanzi degli stessi misfatti attribuiti a Facebook?
Con cordialità
elena siani
Ho ricevuto questa lettera dalla Prof. Elena Siani e la rendo pubblica su questo blog, per alimentare la discussione. La lettera fa seguito alla mia richiesta di precisazioni, perchè la prof. Siani aveva in precedenza ribattuto con un lunghissimo articolo al mio.
Mi spiace che si creino certi climi a certe temperature, solo perchè non si hanno le stesse idee. Mi ricordo Simone Weil, una sua osservazione: oggi, di fronte a tutto, diceva, dobbiamo prendete posizione, essere pro o contro.
Qualsiasi argomento, grande o piccolo, importante o meno importante, potrebbe invece suscitare discussioni interessanti, un dialogo.
Io non avevo alcuna intenzione di demonizzare Facebook, che fra l’altro utilizzo. Ma soltanto mostrarne incongruenze e limiti.
È una mia opinione, per carità.