Il romanzo che critica se stesso: Don Chisciotte e Tristam Shandy sulle tracce di Sklovskij

Una pagina del Tristam Shandy
Una pagina del Tristam Shandy

di SONIA CAPOROSSI

“Di solito, si sente affermare che il Tristam Shandy non è un romanzo; chi parla così, sono quelli per i quali soltanto l’opera è musica, mentre la sinfonia è confusione. Il Tristam Shandy è il romanzo più tipico della letteratura mondiale”.

Viktor B. Sklovskij, 1925

Quello che Viktor Sklovskij descrisse all’interno di “Teoria della prosa”, nell’ormai lontano 1925, come “il romanzo più tipico della letteratura mondiale”, ovvero il Tristam Shandy di Laurence Sterne, dovette apparire certamente ai suoi occhi come l’operazione letteraria più azzardata e contemporaneamente la più scopertamente letteraria che qualsiasi scrittore di ogni tempo avrebbe mai potuto concepire. E’ altamente indicativo il fatto che, nella sequenza dei saggi che compongono il suo miliare lavoro critico, Sklovskij anteponga al capitolo sullo Shandy quello in cui analizza il Don Chisciotte di Cervantes: egli sta seguendo un filo logico ben preciso, ovvero il disvelamento progressivo, in virtù dell’analisi critica della forma letteraria anteposta al contenuto, dei meccanismi narrativi validi in sé; ovvero, per dirla con Cesare Beccaria, egli sta ponendo sotto esame lo statuto ontologico di quei procedimenti di fabula ed intreccio autonomi nel significante e, di conseguenza, indipendenti anche a livello estetico. In questo senso, l’indagine sulla struttura del Don Chisciotte mi è sempre apparsa in qualche modo programmatica, una specie di contrappunto al capitolo successivo dedicato alla rivoluzionaria opera di Sterne: quasi che l’autore abbia voluto mettere a confronto i due archetipi narrativi per evidenziarne meglio la prevalenza emergente della forma sul resto. Se volessimo seguire il filo del gomitolo sklovskijano non dovremmo far altro che seguire l’ombra donchisciottesca e vedere dove essa vada a parare a livello strutturale. Ma com’è composta la struttura del Don Chisciotte e che cosa ha a che fare con il Tristam Shandy?

Alla prima domanda, si potrebbe rispondere molto semplicemente che la struttura del Don Chisciotte è reiterata, in quanto il personaggio principale ritorna in tutti gli episodi, ed è conflittuale, nel senso della contrapposizione tra saggezza e follia. Nella prima parte del romanzo sono presenti numerosi discorsi in forma di digressione, di argomento vario: sulla cavalleria, sulla scienza, sull’arte in genere, nei quali il protagonista passa alternativamente per pazzo e per assennato. Tutto nel Don Chisciotte è costruito sulla base di un principio conflittuale che contrappone saggezza e follia, ovvero il senso assoluto dei discorsi del personaggio, esemplificatori di una cultura libresca, e il contesto in cui li pronuncia, indirizzati come sono allo sprovveduto e popolaresco fruitore Sancho Panza e ai vari aiutanti sparsi in giro nell’impianto narrativo; e questa contrapposizione tra saggezza e follia è proprio ciò che avvia il motore della digressione e del racconto: “Cervantes nel corso del romanzo s’è reso conto che attribuendo a Don Chisciotte una sua intelligenza, ha costruito in lui un’equivocità: e allora s’è servito di questa equivocità per i suoi scopi artistici” (p. 113). Finché non si arriva al punto in cui il romanzo, attraverso queste digressioni sempre più metaromanzesche, comincia a commentare se stesso, tanto che prevalgono i discorsi e la seconda parte, strutturata prevalentemente in piccoli episodi per lo più inseriti in base al caso, vede andare un po’ in secondo piano il protagonista e far avanzare in primo piano, a livello di azione narrativa, la figura del buffo scudiero.

E’ emblematica, in questo senso, la trattazione che nel romanzo si fa della pazzia di Don Chisciotte. In uno dei tanti episodi in cui egli comincia a parlare di problemi letterari, il suo interlocutore si vede costretto a metterne in dubbio la pazzia, la quale precedentemente sembrava assodata. Ovvero, nel momento in cui il protagonista pone sul piatto delle primizie la letteratura in quanto tema, come critica peraltro di un certo modo di leggere la poesia, egli esce dal romanzo perché commenta il romanzo stesso; Don Chisciotte si confonde e si identifica con l’autore che esce allo scoperto; diventa l’autore in persona; il testo letterario, in una parola, commenta e fa l’esegesi di se stesso. Vedremo dove ciò va a parare nello Shandy. Nella prima parte del Don Chisciotte, intanto, le novelle intercalate, pur essendo episodi in sé compiuti ed autonomi, hanno sempre un legame cangiante col testo: a volte queste novelle possono essere interrotte per un intervento del protagonista, oppure con un canto o un avvenimento (una zuffa, una lite di vario tipo). Altre volte, come nell’episodio corale dell’osteria, tutti i personaggi trovano un rimescolamento generale, si raccontano moltissime novelle commentandole dal punto vista letterario, facendo cioè trasparire quel meccanismo attraverso cui, come abbiamo visto, il romanzo, autoingarbugliandosi, compie la critica di se stesso. Non bisogna dimenticare, peraltro, che nella seconda parte Don Chisciotte parla del primo romanzo come se lo avesse letto: egli è un personaggio che per un istante penetra la realtà, esce fuori da un immaginario schermo di separazione fra la finzione della fabula ed il lettore ed assume consistenza di verità, salvo poi ridiventare, scavalcando di nuovo la barriera, semplice personaggio.

Lo stesso meccanismo metaromanzesco è contenuto nel Tristam Shandy di Laurence Sterne, romanzo anti – romanzo avveniristico e sperimentale della prima metà del Settecento. Rispetto al Don Chisciotte di Cervantes, alcuni elementi narrativi che sembravano già estremamente innovativi, nel romanziere inglese diventano quasi ingenui. Tutte le componenti strutturali tipiche del Don Chisciotte (racconti, racconti intercalati, discorsi, canti, aneddoti et cetera) assumono nel Tristam Shandy dimensione teorica e parodica. Il prenderne in giro la teoria non la sminuisce, bensì esalta la natura più intima del romanzo, quella di essere una costruzione linguistica artificiosa, in senso positivo, in quanto costruzione derivativa da nozioni ferrate di arte – tecnica. Viktor Sklovskij diede modo a Sterne di venire riscoperto come autore di un’opera fondamentalmente innovatrice ed anticipatrice del romanzo contemporaneo in questo senso. Tuttavia, l’atteggiamento del formalista russo nei confronti del Tristam Shandy rimane ambiguo fino all’ultimo: da una parte appare entusiasta, dall’altra sottolinea come il romanzo  metta in luce una certa assenza di sentimento, in cui ciò che rimane all’analisi del critico è il tecnicismo artificioso che lo compone. Slovskij distingue fondamentalmente il discorso sul romanzo dalle leggi generali della trama. Se noi analizziamo queste ultime, infatti, non esauriamo l’analisi del romanzo; come dire che il senso della letterarietà di un testo va oltre la trama. Si può costruire una trama complicatissima ma non per questo si ottiene un plusvalore letterario. In Sterne, di fatto, ciò che avviene è la consapevole “messa a nudo del procedimento”, per usare le parole di Sklovskij; ovvero lo svelamento dell’artificio, laddove il tecnicismo esasperato è palese e fine a se stesso: “quando si comincia ad esaminare la struttura del libro, si vede prima di tutto che quel disordine è intenzionale, che la sua poetica consiste in questo” (p.210). Ad esempio, prima di raccontare un episodio, Sterne si interrompe continuamente, a volte saltando anche il racconto principale per parlare di come vuole costruire l’episodio, tanto che, nelle prime duecento pagine, non si riesce nemmeno a capire di che cosa si stia parlando, e solo verso la pagina 242 si viene a scoprire che l’azione si svolge in un’unica giornata, quella della nascita stessa del protagonista che parla in prima persona, mentre, con un notevole effetto di straniamento, ci rendiamo conto che egli deve ancora nascere e che l’autore impiegherà ben 256 pagine in tutto per compiere la sola descrizione di questa nascita. Nella fatidica pagina 242 già citata si comprende la natura autobiografica del romanzo, il quale si finge esser giunto alla laboriosità del dodicesimo mese di scrittura, ancora impastoiata ed immobile nella descrizione – narrazione del primo giorno di vita. L’intento parodico qui è evidente, in quanto scelta stilistica coerente nel disordine preordinato che caratterizza il testo. Nel Tristam Shandy, in effetti, ogni cosa subisce uno spostamento rispetto all’ordine tradizionale. L’ordine temporale del romanzo è continuamente trasposto rispetto all’ordine che il lettore legittimamente si aspetta ed addirittura le conseguenze, nel corso della narrazione, vengono abitualmente fornite prima delle cause. La dedica, ad esempio, viene inserita a p. 16, la prefazione addirittura si localizza nel ventesimo capitolo del terzo volume! Del resto, anche l’ordine dei capitoli viene a volte spostato rispetto alla progressione numerica usuale.

Per quanto riguarda l’uso anomalo che Sterne fa della convenzione del passaggio di tempo narrativo, Sklovskij ha modo di spiegarlo tramite un procedimento di tecnica prettamente teatrale. In Shakespeare, ad esempio, tra un episodio e l’altro un breve dialogo tra personaggi ha la funzione di raccordare le cesure temporali; alla fine del dialogo, in genere sono passati degli anni. Sterne utilizza questa convenzione nel romanzo in modo del tutto particolare. Ad esempio, nella scena in cui Tristam e suo padre debbono salire i pochi gradini di una scala, alla cui sommità vi è un terzo personaggio ad attenderli per parlare, le continue interruzioni, digressioni e descrizioni minuziose della scala stessa forniscono il senso di un tempo innaturale rispetto al tempo di lettura. Il lettore, in questo sistema di attese, subisce il senso fisico, materiale del tempo che passa. L’interruzione sembra lo stratagemma più usato da Sterne per creare un alone parodico attorno al racconto e destabilizzare l’intera struttura tradizionale del romanzo, se pensiamo che esso si interrompe senza motivo apparente, avendo compiuto una tirata di ben nove volumi per parlare, in sostanza, solo ed unicamente di se stesso, rendendo così evidente che “la forma del romanzo di Sterne è lo spostamento e la violazione delle forme consuete” (p. 223). Ciò vuol dire, come dice Sklovskij stesso, che “la comprensione della forma attraverso la sua distruzione è il contenuto stesso del romanzo” (p. 213). Ovvero, l’argomento, il contenuto, la tematica e la poetica del romanzo non sono altro da sé, in una tautologia invincibile in cui l’esibizione al lettore della propria struttura è un mostrare la nudità del romanzo come categorema imposto o come idea platonica, attraverso la distruzione del suo stesso impianto convenzionale e tradizionale così com’è stato pluristratificato da secoli e millenni di narrabile. Sterne, in una parola, espone nel romanzo stesso le regole di costruzione del romanzo, e così facendo ne mette in pratica l’annichilimento, tanto nello spazio narrativo quanto nel tempo, se è vero che, ad esempio, ogni singola descrizione, persino delle posture di un qualsiasi personaggio, sono perseguite in maniera meticolosa, pedante, scientifica, dettagliata fino allo spasimo dell’attenzione umana, al limite mefistofelico del delirio. Indicativo è, quindi, il fatto che Sterne non termini il romanzo, il quale vede esaurirsi l’ultima pagina in un dialogo che lascia sospesa l’azione. Non poteva essere altrimenti: l’unico modo per denunciare la convenzionalità della chiusura era lasciare l’opera nell’incompiuto.

Questo ed altri procedimenti portano ad una considerazione interessante, su cui neanche Sklovskij si è soffermato poi tanto. Innanzitutto, nel caso dei discorsi letterari del Don Chisciotte e delle digressioni ossessive dello Shandy, ovvero nelle pagine in cui si mette in atto il metaromanzo, quando cioè i personaggi fanno critica della critica, occorre osservare che in genere si attua una separazione programmatica fra il testo e la sua stessa critica, separazione che paradossalmente parte proprio dal legame strettissimo che quest’ultima ha col testo criticato. Attualmente lo stesso avviene per la critica d’arte: si legge un commento ad una scultura, ad un quadro che, per la sua prosa, per l’esibizionismo ostentato che la caratterizza quanto a stile ed argomento, non ha più un contenuto critico connaturato e calato nell’opera di cui presumibilmente sta parlando. Quel commento, alla fin fine, assume autonomia nel significante e nel significato, e non fa altro che costringere il textus nell’ambito del commento stesso. Cervantes e Sterne superano il loro status tradizionale e precostituito di autori, per farsi lettori ed osservatori dell’assurgere alla ribellione dell’autonomia critica esplicita dei propri personaggi non più obbedienti ed automi. Come dire che i personaggi si ribellano alle costrizioni convenzionali e divengono autori di se stessi per riappropriarsi appieno dell’opera di cui sono protagonisti, in barba al critico letterario di turno che vorrebbe snaturalizzarli.

In Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, si leggevano arti come il cinema, la letteratura, la pittura e simili con criteri moralistici, dettati dallo strapotere della Democrazia Cristiana, utilizzando le due categorie autoescludentesi del “buono” e del “cattivo”. In URSS, contemporaneamente, il delirante Stato stalinista imponeva una legge per decidere a tavolino che cosa fosse arte e che cosa non lo fosse. Don Chisciotte lo dice esplicitamente nel romanzo: mai un commento critico di qualsivoglia sorta potrà mai cogliere il senso univoco di un testo. Mai un critico letterario potrà decidere a tavolino se un testo abbia un solo senso ed un solo significato e soprattutto, compiendo l’errore di considerarne solo il contenuto, quello stesso critico non potrà mai sapere se abbia davanti un pezzo d’arte come un taglio di carne dal macellaio oppure no. Conservare questo dubbio, del resto, serve sempre a tenere presente che il valore, il senso di cui stiamo parlando è un testo letterario; serve a volte allontanarsi da esso per fare critica sociologica, storica, psicologica o di qualche altro sottotipo. Purché questo allontanarsi sia consapevole.

9 pensieri riguardo “Il romanzo che critica se stesso: Don Chisciotte e Tristam Shandy sulle tracce di Sklovskij

  1. bell’articolo. la mia sospensione del vissuto è la differenza tra tempo del pensare e tempo dell’agire. spesso mi meraviglio di quanto non coincidano con il tempo che percepisco “fisicamente”.

  2. Non è un caso che in latino il perfectum è il tempo dell’azione compiuta, mentre l’imperfectum è il tempo dell’azione nel suo svolgimento. L’imperfetto (in tutti i sensi) e l’incompiutezza sono movimento e tensione della creazione.

  3. Ciò che più ci colpisce nelle brillanti Linee che descrivono l’alternante andamento della “vita” intesa come proiezione intrinseca dell’io ed estrinseca della vitalità reattiva dell’autore è la capacità di dissociarsi dall’umana immaginazione. Fantasia e realtà diventano entrambi chimere irraggiungibili…

  4. articolo a dir poco entusiamante.
    ritenendo indispensabile estendere queste esperienze “critiche” ai miei alunni,ho subito organizzato una lezione sul romanzo e”l ‘antiromanzo”,che pare abbia avuto un certo successo.offriamo agli adoloescenti la possibilità della scelta e del confronto,mostrando loro “l’altra” letteratura,”il contropensiero”e “la controinformazione”.

  5. Interessante il trapasso dalla dimensione dell’analisi formale a quella della sociologia della letteratura. Merita una rilettura, grazie.
    Marco G.

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