Femminicidio ed abusi del linguaggio: una riflessione sull’uso del termine

 

Femminicidio e filosofia del linguaggio
Femminicidio e filosofia del linguaggio

Di SONIA CAPOROSSI

Torno di nuovo, in un contesto meramente ragionativo, a parlare di uso distorto del linguaggio, e proprio nel momento in cui apparentemente i neologismi non sembrano che fare socialmente del “bene”. Ultimamente, infatti, è salita alla ribalta una parola che prima in Italia non esisteva, ma di cui, purtroppo, non si può dire lo stesso relativamente alla sua sostanza retrostante: “femminicidio”. L’uso del termine in questione sta sollevando il problema della violenza sulle donne in modalità mai ottenute prima: sui giornali, in TV, all’interno degli organi legiferanti ed in ogni casa italiana l’argomento sembra aver ottenuto, finalmente, la meritata rilevanza, prodromo di qualsiasi tentativo degno di risolvere o quantomeno combattere il problema. Tuttavia, ciò che preme a me è analizzarne le retrostanze al fine di individuare, se possibile, l’afferenza ai propri campi semantici o meno, in base a come la parola in questione viene utilizzata e significata dai media e dai parlanti nella dimensione della quotidianità, con la piccola ma determinante avvertenza del fatto che, ponendo la questione all’esclusivo rilievo della psicolinguistica e della filosofia del linguaggio, mi interessa individuarne solo sommariamente i risvolti psicosociali retrostanti quanto piuttosto mettere in rilievo l’uso specifico deviato che del linguaggio spesso si fa. In questo senso, a me sembra che le cose stiano nel modo che andrò ora ad esporre.

I media usano così liberamente la neoformazione “femminicidio” per far notizia su qualcosa che purtroppo c’è sempre stato, che la gente s’è convinta che esista qualcosa di nuovo e di diverso che prima non c’era, chiamato con quel nome, il quale fa notizia proprio perché la cosa retrostante è ritenuta nuova non foss’altro che nel senso di “(solo) attualmente rilevante”, mentre invece nuova è solo la parola che la identifica. Il rischio è che, come accade per tutte le situazioni che fanno notizia, la cosa retrostante, cioè il significato cogente dietro al segno può cadere nel dimenticatoio quando la neoformazione linguistica verrà assorbita come vox media, ovvero quando essa sia definitivamente trapassata dalla condizione di vox dei media a quella di vox media. La parola “femminicidio”, in questo senso, è come spesso accade un neologismo di usufrutto mediatico e comunque, ad ogni modo, consiste in un crasso esempio di costruttivismo linguistico. Mi spiego meglio.

Avviene, in definitiva, che una donna ogni due giorni venga uccisa dal proprio ex, e questo è un fatto; il factum, in se et per se, si manifesta oggigiorno in questi frangenti ma, probabilmente addirittura in termini statistici anche peggiori, nella storia della Donna c’è sempre stato: bisogna quindi dedurne che le persone, edulcorate dalla percezione personale e collettiva della vox media ripetuta a martello, siano colpite meno dal fenomeno in sé, compiutamente esistente e socialmente rilevante già molto prima (da secoli in modo massivo e, nonostante la precedente minoranza di culture patriarcali, fin dal sorgere della civiltà), piuttosto che dalla parola che lo identifica. Ne sia dimostrazione il fatto che, in Italia, il “femminicidio” è sempre esistito perché il maltrattamento della figura femminile è sempre stato profondamente radicato nella cultura patriarcale e maschilista dell’italiano medio ma non avevamo a disposizione una parola univoca per identificarlo, eppure adesso il termine in questione ha trovato un riscontro inequivocabile, espresso diuturnamente attraverso il tam tam mediatico sui giornali, su internet e sulle TV fino ad entrare profondamente nelle coscienze dei singoli individui a tal punto che la gente pensa spesso che si tratti di un fenomeno nuovo oppure, laddove consapevole del contrario, se ne preoccupa (molto meno se ne occupa) soltanto adesso.

Posto questo, è facile osservare come dalla sottovalutazione alla sopravvalutazione del problema ci passi davvero poco. Facciamo un esempio: l’altro giorno ho dovuto litigare perché una discreta conversatrice dichiaratamente femminista, incaponitasi a negare la presente argomentazione, sosteneva che la donna morta di parto per malasanità a Palermo il mese scorso non fosse stata vittima di “malasanità”, ma di “femminicidio”; neanche il femminismo ideologizzato degli anni d’oro del Sessantotto è giunto a tal punto da forgiare una neoformazione teratologica di questo tipo, così omnipervasiva e deviante. Eppure sono millenni che le donne subiscono violenze. Prima, però, si combatteva la violenza chiamandola semplicemente “violenza sulle donne”, con un’espressione più lunga, più contorta se vogliamo, più dispendiosa per il parlante in base al principio dell’economia linguistica di Martinet. Eppure, un’espressione significante c’era; ma non aveva tutto questo rilievo presso i media, non possedeva questa rilevanza sociale. Allora le domande che dovrebbero sorgere spontanee in un linguista malfidato sono le seguenti: perché “femminicidio” proprio ora? Perché in Occidente? A quale scopo recondito? È solo colpa del principio di Martinet? Oppure quali interessi pratici potremmo individuare dietro alla sollevazione mediatica massiva del problema che utilizza una neoformazione linguistica creata ad hoc? Ecco, forse dovremmo domandarcelo, invece di berci indiscriminatamente tutto ciò che ci propinano i media, invece di dire “beh! Meno male che adesso la parola c’è!”; perché donne!, stiamo sicure che se ora la parola univoca esiste, ciò avviene per un motivo ben preciso, che foucaultianamente è molto meno autodeterminato e liberale di quanto sembri.

A volte, bisogna ammetterlo, all’interno dell’analisi filosofica si infiltrano impressioni personali. Gli è che la definizione di “violenza sulle donne” personalmente mi sembrava molto più organica, significante, aperta; ma posso anche sbagliarmi. E tuttavia non posso non domandarmi con fare circospetto se il termine “femminicidio” appartenga o meno alla malsana categoria degli interessi economici retrostanti. Ma “economici” in che senso?

Non occorre l’immaginazione, bensì un paio di occhiali in caso di miopia per leggere quasi ogni giorno il titolone sui giornali: “NUOVO CASO DI FEMMINICIDIO”. Un po’ come quando scompare un bambino: la settimana dopo ne scompare subito un altro, e poi un altro, e poi un altro ancora. Il meccanismo, in termini di sociologia della comunicazione, è in questi casi ben noto: di infanti smarriti, in realtà, ce ne sono tutti i giorni, eppure i giornalisti vengono incaricati dalle proprie redazioni di spulciare presso le stazioni di polizia casi freschi di persone scomparse, con il preciso intento di generare eco mediatica che sfrutti l’ondata emozionale collettiva per un certo periodo di tempo, in modo da aumentare le vendite dei giornali. In realtà, com’è facilmente comprensibile, non è che quando non se ne parla più i bambini non scompaiano più. 

Allo stesso modo, la frequenza dei “femminicidi” in TV e sulle pagine dei giornali non deve ingannarci: nella realtà dei fatti, il fenomeno è prevalentemente sommerso, e ciò significa che di femminicidi, ogni giorno, purtroppo ne accadono molti di più. Andiamo quindi a ricercare l’origine della parola, e scopriremo che questa origine è meno importante rispetto alla sua attuale funzione mediatica d’uso (non sto qui ovviamente dicendo che la funzione della parola “femminicidio” si esaurisca con l’uso mediatico, perché essa possiede anche un ovvio e corretto utilizzo in base all’importanza sociale del fenomeno: sto qui solo dicendo che la funzione mediatica d’uso che detiene in sé uno scopo economico, ne determina la gran parte della rilevanza sociale sul piano dell’opinione pubblica la quale, giustamente in senso etico, uno scopo economico non ce l’ha).

Come recita wikipedia, “femminicidio” è parola d’origine antica: “in lingua inglese il termine femicide (femicidio) veniva usato già nel 1801 in Inghilterra per indicare “l’uccisione di una donna”.  Il termine è stato utilizzato dalla criminologa Diana Russell nel 1992, nel libro scritto insieme a Jill Radford Femicide: The Politics of woman killing. La Russell identificò nel femmicidio una categoria criminologica vera e propria: una violenza estrema da parte dell’uomo contro la donna «perché donna», in cui cioè la violenza è l’esito di pratiche misogine. Un anno dopo, nel 1993, l’antropologa messicana Marcela Lagarde utilizza il termine femminicidio […]”.

In Italia, la parola sembra abbia trovato diffusione e successo semiotico solo ultimamente, nell’ambito dell’attivismo dei centri antiviolenza: “Da pochi anni in Italia si parla di questo problema ed esiste una percezione sociale di questo problema. Esiste una oggettiva difficoltà di rilevare il fenomeno e la sua diffusione anche perché a livello istituzionale non vengono raccolti i dati in modo sistematico. Dal 2005 i Centri antiviolenza raccolgono i dati delle donne uccise dai casi riportati dalla stampa.” È questo, a mio parere, il principale problema legato all’utilizzo mediatico del termine: non si tratta infatti di una parola che venga alimentata, nel significato di pertinenza all’interno della semiosfera relativa, da una raccolta di dati oggettiva, bensì da una loro selezione meta-analitica, in quanto le statistiche raccolte dai centri antiviolenza utilizzano, a loro volta, come mezzo d’informazione e di raccolta dei dati i giornali stessi. È come se, in qualche modo, la parola in Italia sia stata creata o inventata dalla stampa che l’ha diffusa e, diffondendola, ne ha forgiato i significati oltre a fornirne i dati ufficiali, con le conseguenze negative che ho cercato di profilare: abuso del termine in contesti d’uso non pertinenti, utilizzo pilotato ed economicamente interessato.

Anche ad un’analisi semantica pura e semplice, la parola “femminicidio” sembra poco pregnante in termini di significatività. Mentre l’espressione sintagmatica “violenza sulle donne” detiene in sé sia il soggetto che l’oggetto che l’esecuzione, il neologismo “femminicidio” è, al contrario, un gioco verbale teratologico, differenziato da una sillaba con consonante nasale sorda in più o in meno  (“femminicidio” o “femicidio”?) creato ad hoc per suscitare vespaio mediatico a proventi ovvi. In “femminicidio” non è presente né chi esercita la violenza né perché. il riferimento è escluso, non compare il radicale che si riferisca al soggetto attuante, è un abuso  linguistico senza scopo se non altro rispetto alla propria immediata significanza. Ed ecco che i vari episodi di cui periodicamente si riempie la stampa italiana, la scomparsa dei bambini, i sassi dal cavalcavia, la violenza sulle donne hanno esattamente la stessa valenza dal punto di vista semiotico: un piano d’interesse altro. Intendo riferirmi alla prassi di certo costruttivismo linguistico impostore in base al quale, indipendentemente da chi abbia coniato in termini fattivi il neologismo, è il concetto sotteso a venire diuturnamente eterodiretto e plasmato dal di fuori: in questo caso, dalla stampa, che ne sta abusando e per ciò stesso lo sta modificando nei suoi sensi e nei suoi significati, ai danni delle stesse donne che attraverso quella parola dovrebbero, al contrario, essere messe al centro dell’attenzione per organizzarne la difesa. Allora, in che modo il termine “femminicidio” sia stato recepito, usato ed abusato dai media italiani non è un altro discorso rispetto a quant’è importante che di femminicidio oggi, in Italia, si parli per combatterlo, ma precipuamente è il discorso che si fa quando si tenta di analizzare, come da premessa, un fenomeno in primis linguistico, in secundis sociale, in tertiis politico, per determinare quanto e come il nostro modo di parlare influenzi, come affermavano Sapir e Whorff, il nostro modo di pensare, di agire e di rapportarci socialmente, e non invece il contrario.

Dennett e i suoi memi lo sanno bene, la neoformazione costruttivistica è evidente e cortocircuitata alla perfezione, se la stessa parola “meme” è diventata un meme. Questo gioco linguistico, però, diventa un atto di creazione in senso costruttivistico, ovvero un’inventio in termini retorici, solamente quando si aggiunge la pretesa di un quid di novità irriducibile ad altro laddove invece non è che minestra concettuale riscaldata. Com’è del resto normale e giusto che sia.

In buona sostanza, a me sembra che le parole siano impotenti proprio in quanto sono attuanti. Le parole morenti e quelle che per prime, in un futuro più o meno immediato, moriranno, sono proprio le parole nate dal proprio abuso: sono parole violente al di là del proprio contenuto concettuale che può essere violento (come nel caso di “femminicidio”) o meno, perché esse violentano i parlanti che, lungi dall’usarle, ne vengono usati ed abusati proprio in quanto ne abusano inconsapevolmente. Allora, probabilmente, dovremmo domandarci quali sono i discorsi morenti, quali quelli morituri e quali quelli che, in base alle parole in esso contenute ed alle accezioni di pertinenza semantica, non possono e non potranno mai morire.

A me sembra, per esempio, che questo discorso qui sugli abusi del linguaggio non possa morire, perché s’attiene all’uso di parole i cui concetti retrostanti sono immediatamente riconoscibili in quanto tali.

 

18 pensieri riguardo “Femminicidio ed abusi del linguaggio: una riflessione sull’uso del termine

  1. perfettamente d’accordo, manca solo nella, tua analisi il connotato emergenziale, che ormai in Italia è una categoria semantica a sé. Femminicidio suona come “genocidio”, in ciò è contenuta la sua emergenzialità. Contiene una implicita “chiamata alle armi contro” chi? non tanto o non solo il femminicida nel senso di “uccisore di donna perché donna”, ma il co-autore di un “genocidio”, parola che nella nostra quotidianità è associata all’intervento militare e alla damnatio della corte del’Aja. Quindi mira a fare tabula rasa di ogni dubbio che il femminicidio STIA AVVENENDO ORA E VADA FERMATO CON TUTTI I MEZZI (anche se non si specifica quali), a differenza della violenza sulle donne in sé che era (ed è) purtroppo, endemica.

  2. La parola “femminicidio” dovrebbe, semmai indicare un’estensione particolare nella pratica omicida. Un sottoinsieme dell’insieme omicidio. Ma è pur sempre un omicidio, non un campo semantico a sé- come quando si specifica “uxoricidio” “parricidio” infanticidio” ecc- La mia opinione è che l’uso mediatico di queste classi di termini , come ad esempio “omofobia”, altro termine che descrive un fenomeno complesso che viene ridotto a un puro fatto legale (nam usato ad mentulam) , serve proprio a rivestire simbolicamente il problema “per evitare di ri-solverlo” e in ultima istanza diluirlo nella coscienza e nell’indignazione.

  3. Non credo di riuscire a capire tutto quanto. Però penso che se è diventata d’uso comune una nuova parola – non bellissima, d’accordo – e viene additato un fenomeno come importante, è sempre meglio di quando il fenomeno esisteva ma non era oggetto di discorso. E d’accordo che sia solo la punta dell’iceberg, che una donna ogni due giorni viene uccisa, ma centinaia di migliaia più volte al giorno vengono insultate, offese, maltrattate, molestate, ignorate nei loro più elementari diritti di persone, e questo è tutto normale, tutto pura e semplice e quotidiana normalità, in una società che sembra mettere la donna al centro della sua produzione d’immagini e d’intrattenimento. Venisse qui un marziano, non capirebbe…
    Ma questo va ben al di là della semantica.

    1. Ciao e benvenuta, a questa tua argomentazione ho già risposto all’interno dell’articolo. Non è che queste cose esistano di punto in bianco ora perché esiste la parola, men che meno la parola le identifica tutte anzi, non fa che creare confusione semantica sulle differenti declinazioni che riguardano il modo in cui la violenza sulle donne viene messa in atto. Tu dici che l’atto pratico “va al di là della semantica”; bene, ammesso che sia così, cosa che io non credo perché è il linguaggio ad impostare le nostre strutture mentali e dunque comportamentali, non viceversa, ciò di cui parli non è oggetto di critica all’interno del presente articolo, perché nessuno mette in dubbio al suo interno che il fenomeno della violenza sulle donne esista e si declini nelle modalità da te esposte, né tanto meno viene messa in dubbio l’importanza del problema sociale e politico annesso.
      E’ per questo che il tuo discorso, detto in breve, non c’entra proprio niente.
      Grazie per aver commentato. 🙂
      Sonia Caporossi

    1. Salve a tutte. Mi scuso se il mio intervento non era forse adatto, nel tono e nel contenuto, a questa pagina. Ma forse sono stata anche un po’ fraintesa. Intanto, non volevo dire che l’atto, o che gli atti di violenza, vadano oltre la semantica, ma che il mio ragionamento andava oltre considerazioni di tipo semantico.
      Poi: a me la parola femminicidio non piace affatto, ma per questioni etimologiche. Non mi piacciono le parole ibride, e mi spiego: tutti gli altri composti con -cidio sono formati con parole latine, mentre questo accosta una parola italiana a una latina. Sarebbe come dire moglicidio invece che uxoricidio. Ma forse ora queste son considerazini vecchie, e non attinenti al punto.
      In generale, quello che volevo dire, è che se noi, donne istruite, donne leggenti, donne cresciute all’interno di una certa tradizione di pensiero, possiamo permetterci considerazioni complesse,
      e magari non abbiamo nessun bisogno dell’emersione di un fenomeno pseudo-nuovo per renderci conto di certe cose, penso che invece altre donne, quelle che guardano retequattro, per intenderci, quelle che hanno come meta preferita del weekend un centro commerciale, quelle che da ragazze sognano di fare le cantanti, ecco, quelle magari cominciano a riflettere diversamente sul comportamento dei loro mariti, fratelli, padri, cognati ed ex, da quando ci sono certe notizie in giro. Io me ne accorgo, perché parlo nei bar, e sento i discorsi in giro. Per me è più importante che cominci ad avere una nuova visione una signora che fa la donna a ore a Voghera o una ragazza che fa i caffè in un bar di Caserta, che non l’insegnante che già legge libri e giornali. La strada è lunga, ma forse possiamo ricominciare ad andare avanti, anche se negli ultimi decenni abbiamo perso terreno.
      Un’altra cosa: voi non pensate che questi uomini perdano il lume della ragione anche per l’uso sempre più diffuso di sostanze? Molti tirano coca o prendono altre droghette ludiche. Altri intraprendono cure di psicofarmaci, dopo le separazioni, e poi le piantano lì a metà. Molti uomini non sanno curarsi, sono riottosi, irrazionali, molto ignoranti e rabbiosi anche nei confronti del medico o dello psicologo che cerca di aiutarli. Questo è un ragionamento che non ho mai sentito fare, ma di cui sono molto convinta. Mi domando se ci siano ricerche in merito.

  4. Sono d’accordo con te Sonia, ogni neologismo che entri nell’uso comune e, visti i numeri tragici della cronaca, nell’uso quotidiano, perde la capacità di comunicare realmente il fenomeno di cui “vorrebbe” dire, diventa slogan e come tale insignificante e incapace di attivare riflessioni di qualunque genere (oltre il banale e in certo modo “pacificante”: ancora un’altra). E che dietro questo uso del linguaggio ci siano le distorsioni di una sistema che non favorisce la riflessione su niente, ma mira solo al “profitto”, io non ho alcun dubbio. Tanto per la cronaca, guarda questa notizia che ho appena visto:

    Shock: la violenza contro le donne diventa marketing

  5. mi è piaciuto molto l’articolo, ed anche il commento di Roberto Franco che sottolinea l’assenza del “dato emergenziale”. Io mi chiedo se il termine, seppur discutibile, non abbia comunque una certa importanza nel porre in primo piano un’emergenza: “femminicidio” mi sembra abbia una carica semantica più forte, e potrebbe essere, anche involontariamente (tu, Sonia, metti giustamente in risalto le ambiguità sociologiche e filosofiche, Foucault incluso; però Burroughs ci insegna che i poteri non controllano mai in maniera totalizzante – non sarebbe utile -, e magari nella falla può verificarsi qualcosa di involontariamente positivo, magari), funzionale alla risoluzione del problema. Però il mio parere è ingenuo, il tuo articolo va in direzione opposta. Insomma mi aspetto di essere linciato, sperando di capirne di più del fenomeno. Credo che un termine più forte in questo frangente storico ci possa stare, però poi tu osservi che non è vero che “la violenza delle donne” sia un fenomeno in crescita, ma che è solo un fenomeno mediaticamente in crescita, e allora mi fermo e rifletto.

  6. Questo articolo produce una “interruzione” nella modalità di sistema con cui soprattutto le deputate da femminismo investite moltiplicano rumore “abusando” della parola in questione. Trovo necessaria una sospensione nel flusso che hai straordinariamente esposto “per determinare quanto e come il nostro modo di parlare influenzi, come affermavano Sapir e Whorff, il nostro modo di pensare, di agire e di rapportarci socialmente, e non invece il contrario”.
    Condivido, nella disarmante evidenza di verità vissuta, la “preferenza” per l’espressione violenza contro (sulle) donne; contiene lo scambio e la partecipazione di responsabilità contro la riduzione a corpo morto senza mano artefice nel termine sostitutivo.
    Condivido l’analisi relativa al “marketing” della notizia e al contestuale svuotamento, funzionale al sistema. L’attenzione ostinata, lo sguardo attento, la presenza alla propria stessa parola è prerequisito dell’umano, ancor più per quesi soggetti che operano in contesti in cui è “la violenza contro le donne” la sostanza e non il femminicidio, vedi centri antiviolenza.
    Giorni fa leggevo sul web un’espressione per me inquietante, nella prima lettura, stupida nella seconda. C’è in circolo la prassi di riservare posti a sedere alle donne oggetto di femminicidio nei contesti “culturali” e di sensibilizzazione ad esse dedicati…più o meno.
    Un teatro dell’assurdo. In prima lettura mi sembrava di non capire, in ultimo penso che il valore performativo del linguaggio sia il punto di partenza su cui dovrebbero azzerarsi tanti verbosi e ammuffiti interventi di coloro che si vivono investite della missione femminista.
    L’articolo, meglio la scrittura è pulsante, materia viva; inter_rompe, perchè provoca ad usare la parola per osservare il pensiero che sottende, e l’azione ch produce. Ancora una volta, sarebbe necessario avere spazi per aprire il conflitto…e ri_pensare nuovo incarnato agire. E dire.

  7. i paroloni non sono il mio forte.
    è un argomento che sicuramente ha preso una marcia quasi da teatro.
    più se ne parla in tv più sei sicuro/a di fare audience, anche lo stesso tg o qualunque programma simile ad un tg quando arriva il momento di questo determinato argomento non si cura della vittima ma del pubblico che l’ascolta.
    ci deve essere un lavoro di sensibilizzazione che non sia il marciarci su.
    gran bella articolo sonia. grazie.

  8. Carissima Sonia,
    sono parzialmente d’accordo con te, o parzialmente in disaccordo con te, scegli tu.
    A mio avviso, con le tue parole finali hai in particolare centrato l’argomento. Le riprendo:
    ‘In buona sostanza, a me sembra che le parole siano impotenti proprio in quanto sono attuanti. Le parole morenti e quelle che per prime, in un futuro più o meno immediato, moriranno, sono proprio le parole nate dal proprio abuso: sono parole violente al di là del proprio contenuto concettuale che può essere violento (come nel caso di “femminicidio”) o meno, perché esse violentano i parlanti che, lungi dall’usarle, ne vengono usati ed abusati proprio in quanto ne abusano inconsapevolmente’. D’accordissimo.
    Pero’.
    Inizio terra terra e poi vado piu’ sul filosofico.
    Terra terra: ma allora non siamo mai contente/i (cosi’, con la barra e/i, adotto un’altra espressione politically correct…si scherza…): se non se ne parla e’ perche’ non se ne parla, se se ne parla e’ perche’ se ne parla…ma quindi???
    Al proposito: secondo me l’intervento di Maria Nicola non era completamente fuori luogo, soprattutto quando dice: ‘Però penso che se è diventata d’uso comune una nuova parola – non bellissima, d’accordo – e viene additato un fenomeno come importante, è sempre meglio di quando il fenomeno esisteva ma non era oggetto di discorso’.
    Un po’ piu’ sul filosofico, ma cercando anche di restare abbastanza semplice: tutto sommato ogni parola, in quanto entita’ emergente dal silenzio, porta con se’ un granello di violenza, in quanto porta un contenuto che si differenzia dagli altri e da’ a se stessa un’identita’ (Aristotele riecheggia nelle orecchie). Si potrebbe dire anche ogni essente in quanto tale, poiche’ il suo ‘stare’ sta, appunto, in opposizione a tutti gli altri. Ma…questa e’ la vita, e come ogni essente si staglia nel grande dramma/gioco che e’ la vita, e fisicamente viene alla luce nel sangue e nel dolore, cosi’ ogni parola si staglia nel silenzio. Che per essere tale ha bisogno del rumore, altrimenti non si connoterebbe come tale. Bene, mi fermo qui col filosofico che e’ meglio, non ho le tue stesse competenze.
    Detto questo: la violenza sulle donne c’e’ sempre stata, ma anche l’abuso del linguaggio c’e’ sempre stato, soprattutto (anche se non solo) da parte dei media. Io non mi scandalizzerei piu’ di tanto e, prendila come provocazione, indugiare un po’ troppo sui meccanismi distorsivi del linguaggio adottati dai mass media non serve a granche’, se non a fare un po’ di esercizio intellettuale e togliere spazio alla sostanza che sta dietro alla parola. L’abuso va segnalato, benissimo, si ha da prendere consapevolezza di cio’, e l’hai fatto splendidamente. Dopo di che’ le priorita’, almeno a mio avviso, sono altre.
    Sulla sostanza che sta dietro al sostantivo, su cui dici di non volerti soffermare: in realta’ lo fai, ed e’ impossibile, aggiungo io, non farlo quando si discute attorno ai campi semantici che ruotano attorno ad una parola, per quanto ci si dica di volersi soffermare esclusivamente sul piano linguistico; cosi’ come uno non si puo’ liberare della propria ombra. Ma va benissimo cosi’, e’ un’ottima opportunita’ per discuterne, magari finalmente scevra di abusi. E perdonatemi se, secondo voi, vado pure fuori tema.
    A questo punto io non sono ben sicura di una cosa, ma mi riprometto un’indagine piu’ accurata.
    Che la violenza sulle donne ci sia sempre stata, non c’e’ dubbio alcuno.
    Che GLI OMICIDI, (che sono una categoria rientrante nella violenza sulle donne) con determinate prerogative (incapacita’ di accettare l’indipendenza della compagna, incapacita’ e frustrazione nell’accettare il fatto che sia la compagna a ‘titare avanti la carretta’ e non ‘il maschio’, spesso spettacolarizzazione dell’omicidio con relativa assenza di senso di colpa, ma anzi, orgoglio e pavoneggiamento) ci siano sempre stati, con queste prorogative e con l’attuale frequenza…su questo ho qualche dubbio. Ed e’ per questo particolare tipo di omicidio che il termine femminicidio viene usato (per quanto pure a me non piaccia tanto) non certo per il caso di malasanita’ riportato dalla tua collega, che ha scatenato giustamente le tue critiche. E’ vero, bisognerebbe andare oltre i dati forniti dalla stampa. Ma ho la sensazione che qui non si tratti di un ‘fenomeno’ creato dai media, che improvvisamente ne parlano. In questo bisogna riflettere su un elemento: che questi omicidi, da sempre molto comuni in una certa porzione d’Italia, soprattutto in un certo ambiente sociale (Italia meridionale, la mentalita’ dell’onore, etc), sono diventati purtroppo comuni in TUTTA Italia, anche in quella parte d’Italia (tipo Emilia Romagna) da sempre fiore all’occhiello per le politiche sociali, educative, etc, e comunque in un tempo storico, quello delle conquiste dei diritti, dell’emancipazione, in cui suonano del tutto ‘stonati’, come se con un brivido avessimo fatto passi anni ed anni indietro. Questo e’ profondamente diverso. Questo e’ il risultato (non solo, ma primariamente) dello scimmiottamento di una sotto-cultura televisiva , di cui, lo dico senza polemica, noi intellettuali troppo spesso sottostimiamo l’effetto immenso e la presa su tutte le generazioni, non solo i piu’ giovani come si tende spesso a dire, e soprattutto veicolante quell’ idea di autoassoluzione che e’ secondo me l’elemento piu’ pericoloso in assoluto trasmesso negli ultimi anni, e non solo su questo fronte: ovvero l’idea che io possa fare qualsiasi cosa e rimanere impunito, ed anzi, me ne vanto pure, ed anzi, lo spettacolarizzo, glielo faccio vedere a tutti quanti come ci si comporta, e vado pure in tv. Questa cosa qui e’ nuova. Questa cosa qui e’ una prerogativa degli ultimi, diciamo quattro/cinque anni e trasuda tantissimo nelle storie di queste donne uccise. Naturalmente gioca tantissimo e sempre l’assenza quasi totale di un’educazione sessuale ed affettiva (nel Regno Unito: ai bambini di sei anni viene gia’ impartita educazione sessuale ed affettiva, in cui si da’ particolare importanza ai RUOLI che la societa’ ancora impone scorrettamente ai maschi ed alle femmine) . Non dico che questi omicidi dovrebbero essere totalmente assenti, questa e’ fantascienza, l’animo umano e’ imprevedibile e ci saranno sempre episodi di violenza, ma oggigiorno dovrebbero essere numericamente molto molto inferiori. Il fatto che, oltre ai dati della stampa, ci siano molti altri casi non contemplati, e’ un’aggravante di questo discorso, e se non ne fa un’emergenza, non lo rende nemmeno un punto da liquidare con poche parole. Io prenderei il buono dall’abuso e dal rumore, continuando giustamente a criticare chi bolla di femminicidio tutto quel che passa per la cronaca, e cogliendo l’opportunita’ del ‘casino’ per portare un po’ di ordine. Nelle parole e nei gesti. Ciao! Leni
    Leni

    1. Carissima Leni,
      Tu scrivi: “ho la sensazione che qui non si tratti di un ‘fenomeno’ creato dai media, che improvvisamente ne parlano.”. La stessa cosa dico io: è un fenomeno talmente antico che ciò che di esso emerge alla vox populi è solo la punta dell’iceberg. Appurato questo, per quanto ne sappiamo ad un’analisi di statistica e storia delle idee come da Annales francesi, non credo proprio che in Occidente gli episodi di violenza sulle donne siano oggi cresciuti come invece i più sembrano dedurre, siccome “solo ora in TV se ne parla”; dico cresciuti rispetto al Medioevo, ad esempio, età in cui le donne venivano bruciate al rogo come streghe e in cui l’infante di sesso femminile poteva essere soppressa, se indesiderata, subito dopo il parto. E’ vero, piuttosto, che è determinante l’incidenza dei media i quali influenzano la percezione delle masse. Non vale l’argomento “oggi c’è stata l’emancipazione e siamo più evoluti culturalmente, per cui questa violenza non dovrebbe esserci più”, perché ad esempio Hitler ha fatto una crociata contro gli ebrei nella prima metà del Novecento; toh, la prima si ebbe con i progrom in Dalmazia: la Crociata, quella storica, era la ben nota “Crociata dei pezzenti” (1095-1096). Se inoltre ci fossimo a nostra volta “evoluti culturalmente” dai tempi di Hitler, Milosevic, Mladic e il massacro di Srebrenica di vent’anni fa non sarebbero dovuti esistere.
      No, il problema è che questa parola sottintende un concetto che sta divenendo pericolosamente nebuloso proprio a livello semantico, ed infatti gli shifting di significato sono agli occhi di tutti ma nessuno se ne accorge: quando spiegai alla femminista citata nell’articolo che esiste una certa differenza tra malasanità e femminicidio, coloro che assistevano alla conversazione, improsciuttate sugli occhi dall’ideologismo uterino, davano ragione a lei. I dati sono questi (da “L’ho uccisa perché l’amavo” di Loredana Lipperini e Michela Murgia):
      “ Gli statistici improvvisati vanno, abitualmente, in cerca di rapporti, specie le statistiche dell’Onu sull’omicidio (UNODC homicide statistics) grazie alle quali si può sottolineare che si ammazza di più in Nord Europa, ma guarda, proprio nei paesi più emancipati e dove le donne sono più libere, e dunque la percentuale di morte è in Norvegia il 41,4% in Svezia e Danimarca il 34,5% in Finlandia il 28,9%, in Spagna il 33,1% in Francia il 34,5%; in Giappone il 50%, negli USA il 22,5%. Contro il 23,9% dell’Italia. Dunque, ci vien detto, se in Italia le vittime di sesso femminile non arrivano al 25%, è logico e conseguente che a morire siano soprattutto i maschi, che dunque vanno considerati le vere vittime. (…)
      Ma guardiamoli bene, i dati che riguardano il nostro paese. Nel rapporto sulla criminalità in Italia si scopre che le donne uccise sono passate dal 15,3 per cento del totale, nel triennio 1992-1994, al 26,6 del 2006-2008. Peraltro, la maggior parte delle vittime si registra nel ricco e sviluppato (e, certo, più popolato) nord: dove, nel 2008, ultimo anno disponibile, le vittime di sesso femminile sono state il 47,6 per cento, contro il 29,9 per cento del sud e il 22,4 del centro. In poche parole, se il numero cresce, ed è sempre quel tipo di omicidio, la crescita è il fenomeno, e non il numero, che è effettivamente tra i più bassi al mondo. Significa, per essere più precisi, che se le morti per criminalità organizzata passano da 340 nel 1992 a 121 nel 2006 e quelli per rissa da 105 a 69 , i delitti maturati in famiglia o “per passione”, che sono in gran parte costituiti da femminicidi, passano da 97 a 192. In altre parole ancora, mentre gli omicidi in Italia sono calati del 57 per cento circa, i delitti passionali sono cresciuti del 98 per cento. Inoltre. Se si guarda la tabella relativa ai rapporti di parentela fra autori e vittime di omicidi commessi in ambito familiare in Italia fra il 2001 e il 2006, nel 66,7 per cento dei casi (due donne su tre) è il coniuge, il convivente o il fidanzato maschio ad uccidere la propria compagna. Infine, se in assoluto sono i maschi a essere vittime maggiori di omicidio volontario, si nota però, che mentre le donne erano il 15,3 % nel 1992, sono arrivate a essere il 26 nel 2006.
      Ancora. Nel Rapporto sulla criminalità e sicurezza in Italia 2010, curato da Marzio Barbagli e Asher Colombo per Ministero dell’Interno − Dipartimento della Pubblica Sicurezza, Fondazione ICSA e Confindustria, i risultati sono così sintetizzati: “Rispetto alla fase di picco del tasso di omicidi, negli anni Novanta, oggi la quota di donne uccise è straordinariamente cresciuta. Nel 1991 esse costituivano solo l’11% delle vittime di questo reato, ma oggi superano il 25%. In Italia, quindi oltre 1/4 delle vittime è donna. La crescita dipende da una relazione ben nota agli studiosi, per la quale la quota di donne sul totale delle persone uccise cresce al diminuire del tasso di omicidi. Questo accade perché, mentre il tasso di omicidi dovuto alla criminalità comune e a quella organizzata è molto variabile, gli omicidi in famiglia − la categoria in cui le donne sono colpite con maggiore frequenza − è invece più stabile nel tempo e nello spazio”.
      Anche Murgia e Lipperini dunque ne affermano la stabilità “nel tempo e nello spazio”, come ho affermato all’interno dell’articolo. Con un’ulteriore, inquietante riflessione a sorgermi spontanea.
      In Italia l’aumento lieve di violenze ed omicidi nei confronti delle donne, stranamente, coincide proprio con il periodo in cui i media cominciano a parlare di femminicidio…Sarà un caso? “Se ne parla solo ora in TV”, ERGO la violenza contro le donne aumenta? Oppure “la violenza contro le donne aumenta”, ERGO “se ne parla solo ora in TV”? Io, che sono malfidata, credo sia buona la prima.
      Sonia Caporossi

  9. Leggo con piacere che lo stereotipo dell’Emilia Romagna come terra salvata da ogni male del mondo, funziona ancora. Buon per Errani, e per quelli che tengono viva la politica del comunicare modelli (banalmente) positivi. Rientro nei ranghi. La lunga riflessione di questo articolo, mi pare ponga l’accento (anche) sul tranello dell’uso consumistico di un neologismo, a furor di nulla insomma. Femminicidio. Si, i centri antiviolenza danno un inciso forte sul termine, perché lo spiegano come un assassinio di una donna, da contrapporre ad uno di un uomo. E fin qui ci siamo. E fin qui ci fermiamo. Perché la strada per costruire una “metodologia di sistema” per arginare il vuoto retorico che attende sul margine il termine femminicidio non mi sembra sia (ancora) comparsa. Il lato “spicciolo” del termine, è quello che forse si indicava nel principio di Martinet, che quindi si “spende” nel tentativo di ridurre e comprimere accettandolo come “avversità del fato”, principio tanto caro a questa parte dell’Occidente che è stato addirittura armonizzato nella religione attuale, gran compressore dell’umana pietà, nobile concessione maschile, non certo femminile (…In te misericordia, in te pietate, ((ossia affidiamoci tutte alla Madonna?)). Vorrei invece che questa discussione non si fermasse e andasse avanti, non in modo equilibrato, come detto nel commento precedente, ma PROGRAMMATICO, per lasciare sul campo un possibile consolidamento del termine. Se non qui, fra menti pensanti, dove? Non è il ruolo dell’intellettuale produrre coesione? Si, lo è e lo può essere.

  10. Cara Sonia,
    per chi desidera applicare o usare il termine femminicidio in ogni situazione della vita della donna credo sia molto utile leggere il libro di Edward Shorter, STORIA DEL CORPO FEMMINILE pubblicato da Feltrinelli nel 1982 e ristampato nel 1984 e 1988, purtroppo non è disponibile in libreria perché è esaurito e l’editore non lo ristampa. Per fortuna si trova in molte biblioteche pubbliche. Un riassunto del contenuto si trova qui http://it.wikiquote.org/wiki/Edward_Shorter
    Se si sta cercando una sola parola che includa la violenza, basta tornare a questa parola altrimenti femminicidio sta acquisendo spazio di autonomo significato nel dizionario delle nuove parole.
    Io personalmente ho in mente una poesia che per me dice quello che significa la nuova parola: femminicidio.

    mi dici che hanno pubblicato la foto della ragazza
    sprangata soffocata annegata e prima violentata
    coi cazzi coi manici delle scope che ora giace
    ai piedi dell’auto dove è stata rinchiusa
    appena abbassato sotto le ginocchia il sacco
    di plastica trasparente dove è stata confezionata
    dicono che allora fosse già morta nella vasca annegata
    che ora giace ancora una volta denudata contro la sua volontà
    se lo hai voluto dire che c’è questa foto vuoi chiedere
    e (io) dico che è come ripeterla questa violenza
    moltiplicata in quattrocentomila copie e in due
    milioni di occhi e in più ogni volta che si prende in mano
    il giornale per riguardarla…

    21.7.1976 – Antonio Porta

    A mio parere l’essere consapevoli e dire e reagire è il nuovo linguaggio.
    Rosemary

  11. Buonasera, volevo solo dire che ho faticato nella lettura dell’articolo, un po’ a causa della sua sintassi, e un po’ anche perché non sono riuscito a comprendere chiaramente qual è la tesi sostenuta.
    O forse non so leggere io…

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