Christophe Huet - Samu Social

Aperto su un lato. Un racconto di Alessandro Spanu

Christophe Huet - Samu Social
Christophe Huet – Samu Social

di ALESSANDRO SPANU

Sulla bottiglia dall’etichetta raschiata, riesco a leggere solamente “quarantadue % vol.”  : è vodka, forse,  o gin. Combatto il freddo e la solitudine, non le declinazioni dell’alcool. Sento il piegarsi e ripiegarsi della sostanza del dolore che è il nostro tempo, il mio tempo.

Il primo sorso è quello del conato, il secondo lo allontana. La plastica del dosatore mi infastidisce, mi costringe ad inghiottire aria ghiacciata. La strappo via con un morso, con i denti che si accavallano, le mascelle contratte.

La panchina ha la vernice scrostata dai culi di altre migliaia di disperati come me: siedo sul ferro nudo. Si apre una piccola piazza deserta davanti al collo della mia bottiglia, lo stomaco si chiude,  contratto dalle vampe dell’alcool di pessima qualità. Non riesco a decifrare il nome della piazza (come nei sogni? Come in un coma?), né leggo o riconosco i volti dei rari passanti, quasi che le immagini di cui la mia mente si serve per dare ordine alla vertigine caotica delle percezioni avessero perso la limpidezza della ragione, toccate pesantemente da uno sfumino.

Questa sensazione è  la condizione che precede l’abbandono di ogni volontà, la resa incondizionata di ogni tentativo di azione.

Ho speso male i talenti, non ho seminato, mi sono consumato nello spreco e nell’eccesso. Non sono stato responsabile: ho vissuto alla giornata aspettando un evento risolutivo che non è accaduto mai.

Non mi erano state negate le possibilità: potevo avere una vita. Potevo. Ho lasciato che il chiasso delle onde del mio tempo mi  assordasse e mi isolasse, accumulando  quella forma di energia parassitaria che, altrove da qui, è chiamata inedia, atarassia, abulia.

Non mi è stata diagnosticata alcuna malattia, non ho un cancro; tecnicamente non sono depresso, non sono bipolare; “solo un po’ stressato”, ha detto il medico. Ma che io sia in qualche modo malato lo do oramai come dato di fatto. Non riesco, non posso e soprattutto non voglio. Che cosa, del resto? Eppure resisto, rimango appeso per un dito, le mani bruciate dal fuoco del freddo, con la mente consunta, capace solo di piccole idee rimasticate e senza continuità. Il linguaggio frammentato, la parola bucata: singulti. Da un po’ di tempo persino la vena mistica si è seccata, (avevo ceduto al bisogno di unità, alle intemperanze dello spirito, all’eros dell’assoluto): ora, tutto va scemando, è rimasta solo la sete. Una sete da girone infernale (come nelle visioni?), che aumenta con il bere e che del bere si alimenta, rendendo tutto arido e solcato da crepe.

Nonostante tutto questo io resto qui, in questo spazio dove combatto il Freddo, la Solitudine e la Malattia.

Se chiudo gli occhi per cinque minuti e li riapro, vedo il ragazzo che contava le tessere del pavimento di questa piccola piazza. Una specie di rozzo mosaico che segue motivi concentrici. Ricordo di aver letto da qualche parte sul giornale che questo ragazzo si è impiccato anni fa, prima di essere riuscito a finire di contare le tessere. Dunque, che ci fa adesso davanti a me?

I jeans lisi con l’orlo troppo alto, la giacca a vento di due taglie più grande, la sigaretta perennemente accesa, inforcata in dita gialle e ossute, pallido come la morte. Porta i capelli ancora con lo stesso non-taglio, scriminati in diversi punti, come linee della mano spezzate. Sono capelli spenti, unti dalle abbondanti manate di gelatina e dagli umori della cute, che risente di presunte ferite del cuore. Nonostante l’aspetto sgradevole, la sua presenza mi aveva sempre dato un senso di calma, di purezza.

 Lo osservo attentamente, come se il tempo non fosse passato. Mi alzo, mi avvicino a lui, lo raggiungo.

“Ciao. Conti ancora le tessere?”

“Non posso smettere”, fa lui.

“Perché?”

“Non lo so. Sto qui e devo contarle. Quando arrivo ad un certo numero, sparisco e mi ritrovo ad iniziare daccapo. Non so neppure da quanto tempo sono qui.”

“Sei morto da circa otto anni, se non ricordo male.”

Lui mi guarda e sorride, spettrale.

“Sei sicuro?”

“Credo di sì.”

“ Credi o lo sai?”

“Sono già mezzo ubriaco, e potrei pure sbagliarmi. Ma che sei morto è un fatto.”

“E tu sei vivo, o ci credi?”

“Io? Fino a poco fa ne ero quasi sicuro. Credo di sì, anzi lo so. Sono vivo, sì.”

“ Cosa ti fa essere così sicuro?”

“Lo so e basta.”

“E parli con me? Hai appena detto che sono morto.”

“Sto sicuramente sognando o peggio!”

Il ragazzo cammina seguendo un’immaginaria traiettoria circolare: faccio fatica a seguirlo come se  mi trovassi a sbattere su muri di cristallo. Il suo percorso è solo suo, ha un ritmo che non riesco a decifrare, ma c’è, segue uno schema, o almeno così dovrebbe.

“Dovrebbe essere?” interrompe il ragazzo. 

“Scusa?”  bofonchio io spezzando la cadenza dei miei pensieri.

“Hai detto: -dovrebbe essere.”

“Non l’ho detto, l’ho pensato.”

“Appunto. Tu pensi ancora.”

“Tu non lo fai?”

“Non ne ho bisogno. Lo fai tu per me. Io conto le tessere e cammino a testa bassa. Non debbo fare altro”.

“Ma perché contavi le tessere una per una?”

“Tu non vorresti sapere quante sono?”

“Non saprei, ma anche ammesso che fossi interessato al loro numero, non userei di certo questo sistema da folli…”

“E che sistema useresti?”

“Conterei per la lunghezza, poi per la larghezza, e moltiplicherei i numeri ottenuti fra loro.”

“Non vale. Non è bello.”

“Perché?”

“Non puoi essere sicuro che il conto sia giusto.”

“È una regola, una moltiplicazione.”

“Per essere sicuro, devi contarle tutte.”

“Ma non ha senso.”

“Lo ha per me. E poi io non ho mai cercato un senso. Ho solo vissuto.”

Sento le mie ciglia inarcarsi dietro il peso di una domanda urgente che si manifesta sulla mia bocca quasi da sola.

“Perché ti sei ucciso?”

Il ragazzo mi guarda in tralice, continuando a contare aiutandosi con lo sbattere delle palpebre, poi si avvicina a me fino a sfiorarmi. A questa distanza non riconosco più il suo volto. La vista si amplifica fino a traboccare di percezione, come se si materializzasse la composizione plastica di tutti i volti possibili, le combinazioni infinite delle espressioni e dei lineamenti umani. Questo volto, che è tutti i volti, non è donna, né uomo, né ragazzo né vecchio.

“Perché ti sei ucciso?” ripeto.

“Volevo contare per sempre.”

“Mi stai dicendo che hai scelto di rimanere prigioniero di questa ripetizione?”

“Non ho scelto io. Io l’ho solo desiderato.”

“Non capisco!”

“Conosci un po’ la Cabala?”

“Sì… ma tu cosa ne sai di Cabala?”

“ Quale è la seconda lettera dell’alfabeto ebraico?”

“Bet… ma che c’entra ora?”

“E che cosa rappresenta?”

“La casa. E dunque?”

“Descrivimela.”

“E’ simile a un quadrato aperto sul lato sinistro.”

“Ecco.”

“Ecco cosa?”

“Devi essere aperto, se vuoi ricevere. Se Bet fosse chiusa, non potrebbe ricevere l’Alef e non potrebbe formare Abba, il padre celeste. Se Bet fosse chiusa non potrebbe abbracciarsi alla Shin e alla Tet e non si avrebbe Shabbat , non si avrebbe riposo, non ci sarebbe poesia.”

“Ma questo è quello su cui stavo riflettendo ieri; ne stavo appunto leggendo. Tu conosci i miei pensieri?”

“Non esattamente.”

“Sono confuso. Devo capire. Ma tu chi sei?”

“Tu chi vedi?”

“Non lo so più, non so più nulla ormai.”

“Sono qui anche per aiutarti.”

“Anche? E per quale altro motivo?”

“Se tu non lo sai ancora, allora nemmeno io lo posso sapere.”

Resto in una prigione, come in una piega del suono così densa che è impossibile distinguerla con l’udito. Per un attimo ho la sensazione di trovarmi a provare il vero silenzio, quello di cui si parla nelle pagine dei pazzi e dei Santi. Un’aura che investe ed atterrisce, come se il corpo si divorasse dall’interno, risucchiato da una specie di antimateria: un buco nero, non so descriverlo meglio. Questo avviene simultaneamente al mio inspirare. Sembra che la realtà si fletta al dilatare dei miei polmoni. Emetto il fiato, ora, e parlo:

“Tu sei me, sei una mia immagine mentale?”

“Niente di tutto questo, la risposta è molto meno complicata, ma tu ancora non la puoi conoscere.”

“Aspetta, non ho fretta, spiegami!”

“Ora devo andare.”

“Io non voglio. Se non voglio, tu non puoi andare. E’ quello che hai detto tu.”

“Forse. Forse non lo stai desiderando sinceramente mentre lo dici. Le parole sono fatte d’aria.”

“E cosa sto desiderando, allora? Di svegliarmi!”

“Credi di dormire? Non sei mai stato così vicino all’essere sveglio come ora.”

Proprio adesso mi accorgo che sto piangendo.

Piango.

Senza dolore né piacere.

Così, semplicemente, senza provare un’emozione o una sensazione abbastanza simile a un qualsiasi concetto esprimibile con le parole (questa lama spuntata che è chiamata linguaggio!), mi allontano dal ragazzo che conta le tessere, seguendo i miei passi, anche io come lui, ambedue ormai chiusi in una ripetizione indefinita. Altrettanto semplicemente, egli mi volta le spalle e lascia cadere un pezzo di carta.

 Non ho bisogno di leggere per sapere.

“Un milione duecentottantamila. Sono tutte le tessere che sono riuscito a contare.”

Prendo il pezzo di carta e lo piego lungo la sua metà. Poi ancora per l’altro verso, finché è quasi un francobollo. Infine estraggo il portafoglio, e infilo questo piccolo plico ben piegato in una delle tasche, come fosse un amuleto.

Guardo la bottiglia ancora una volta, la appoggio sulla panchina, mi scuoto come un cane bagnato e semplicemente sparisco. 

8 pensieri su “Aperto su un lato. Un racconto di Alessandro Spanu

  1. Uno scritto molto forte, che fa riflettere sulle dinamiche della resa. Ma non dimentichiamo che un riscatto è sempre possibile.

  2. Alcuni spunti narrativi sono accettabili ma nel complesso si sente una scrittura che rumina stilemi già letti. Un poco ovvia la conclusione.

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