Judith Butler: critica, coercizione e vita sacra in “Per la critica della violenza” di Benjamin

Judith Butler

Di JUDITH BUTLER

 

Vorrei affrontare la questione della violenza (1), o più precisamente, la questione di quella che potrebbe essere una critica della violenza. Che significato assume il termine critica quando diventa una critica della violenza? Una critica della violenza è un’indagine sulle condizioni della violenza, ma è anche un’interrogazione su come la violenza viene circoscritta in anticipo dalle domande che poniamo su di essa. Dunque, che cos’è la violenza, se è tale che si possa porre questa domanda su di essa? E abbiamo bisogno di sapere come trattare questa domanda, prima di chiederci – come dobbiamo fare – quali sono le forme di violenza legittime e quali sono quelle illegittime? A mio modo di vedere, il saggio di Walter Benjamin Per la critica della violenza, scritto nel 1921, fornisce una critica della violenza giuridica, il tipo di violenza che lo Stato usa attraverso l’istituzione e il mantenimento del vincolo che il diritto esercita sui suoi soggetti.

Quando Benjamin fornisce una critica, offre almeno due modi diversi di dare conto della violenza. In primo luogo si chiede: come diventa possibile la violenza giuridica? Che cos’è il diritto, se è tale da richiedere la violenza, o almeno un effetto coercitivo, per diventare vincolante rispetto ai soggetti? Ma anche: che cos’è la violenza, se è tale da assumere una simile forma giuridica? Nel porre quest’ultima domanda, Benjamin apre una seconda traiettoria per il suo pensiero: esiste un’altra forma di violenza che sia non coercitiva, una violenza che possa essere davvero invocata ed esercitata contro la forza coercitiva del diritto?

Benjamin va oltre e si chiede: c’è un tipo di violenza che non solo viene esercitata contro la coercizione, ma che è essa stessa non coercitiva, e in questo senso, se non in altri, fondamentalmente non-violenta? Benjamin definisce questa violenza non coercitiva come incruenta e ciò sembrerebbe implicare che questa violenza non viene esercitata su vite o corpi umani. Come vedremo, alla fin fine non è chiaro se Benjamin riesca o meno a realizzare i suoi intenti e a dare una risposta a questi interrogativi. Se ci riuscisse, sposerebbe una violenza che è distruttiva nei confronti della coercizione, pur non versando nemmeno una goccia di sangue in questo processo. E questo andrebbe a costituire la possibilità paradossale di una violenza non-violenta: nelle pagine che seguono, vorrei prendere in considerazione questa possibilità così come essa viene esposta nel saggio di Benjamin.

Il saggio è notoriamente arduo. Vengono proposte diverse distinzioni che dobbiamo tenere presenti e nella lettura sembra di riuscire a farlo solo per alcuni attimi, per poi doverle lasciar andare. Ma ci sono fondamentalmente due serie di distinzioni con cui bisogna lavorare se si vuole capire innanzitutto che cosa sta facendo Benjamin. La prima è la distinzione tra la violenza che pone il diritto (rechtsetzend) e la violenza che conserva il diritto (rechtserhaltend). La violenza che conserva il diritto viene esercitata dai tribunali e, di fatto, dalla polizia, e rappresenta sforzi ripetuti e istituzionalizzati per assicurare che il diritto continui a essere vincolante rispetto alla popolazione che esso governa; questa violenza rappresenta i modi quotidiani in cui il diritto viene continuamente reso vincolante rispetto ai soggetti. La violenza che pone il diritto è diversa. Il diritto si pone come qualcosa che si dà quando viene posta in essere una forma di governo e viene creato il diritto stesso, ma può anche essere una prerogativa esercitata dall’esercito nel mettere in atto sempre nuove azioni coercitive per gestire una popolazione ribelle. È interessante che nell’esercito si possa trovare un esempio di potere che pone il diritto e allo stesso tempo di potere che conserva il diritto, a seconda del contesto: torneremo su questo quando ci chiederemo se esiste ancora un’altra forma di violenza, vale a dire una terza possibilità per la violenza che eccede e si oppone sia alla violenza che pone il diritto sia a quella che lo conserva. Tuttavia, se ci concentriamo sulla violenza che pone il diritto, Benjamin sembra dire chiaramente che l’atto di porre il diritto, di creare il diritto, è opera del fato. Gli atti attraverso cui il diritto viene istituito non sono essi stessi giustificati da un altro diritto o attraverso il ricorso a una giustificazione razionale che precede la codificazione del diritto; né il diritto si forma in modo organico attraverso il lento sviluppo degli usi e delle norme nel diritto positivo. Al contrario, la creazione del diritto crea a sua volta le condizioni perché abbiano luogo procedure giustificatorie e deliberative. Lo fa attraverso una sorta di ordinanza, per così dire, e ciò è parte di quello che la violenza di questo atto fondativo intende fare. In effetti, la violenza che pone il diritto si può riassumere nell’affermazione: “Questa sarà la legge”; o, con maggiore enfasi: “Questa è ora la legge”. (2)

In quest’ultima concezione la violenza giuridica – quella che pone il diritto – è intesa come un’operazione del fato, termine che per Benjamin ha un significato specifico. Il fato appartiene all’ambito del mito greco e la violenza che conserva il diritto è in molti modi il sottoprodotto di questa violenza che pone il diritto, perché il diritto che viene conservato è esattamente il diritto che è già stato posto. Il fatto che il diritto possa essere conservato solo reiterando il suo carattere vincolante suggerisce che esso viene conservato solo se è continuamente asserito e riasserito come vincolante. Alla fin fine, sembrerebbe che il modello della violenza che pone il diritto, inteso come fato, come una dichiarazione che viene fatta attraverso un’ordinanza, fosse il meccanismo attraverso cui opera anche la violenza che conserva il diritto. Il fatto che l’esercito sia l’esempio di una istituzione che allo stesso tempo crea e preserva il diritto ci dice che è esso a fornire un modello per comprendere il legame interno che esiste tra queste due forme di violenza. Perché un diritto che deve essere conservato deve anche essere riasserito per mantenere il suo status vincolante. Questa riasserzione vincola nuovamente il diritto, e così ripete l’atto fondativo in modo regolamentato. Qui si vede anche che se il diritto non si rinnova e non si conserva, probabilmente l’ambito dove una determinata serie di leggi può cessare di funzionare, di essere preservata e di essere continuamente resa vincolante è proprio l’esercito, perché questa sembra essere l’istituzione esemplare nel conservare e nel far valere la legge, e dunque il luogo dove il diritto stesso potrebbe arrestarsi, smettere di funzionare, diventare anche soggetto a dissoluzione.

Per capire il tipo di violenza che è all’opera sia nella violenza che pone il diritto sia in quella che lo conserva dobbiamo prendere in considerazione un’altra violenza, quella che non va intesa né attraverso la nozione di fato, né come la violenza del mito greco. La violenza mitica istituisce il diritto senza avere bisogno di giustificazioni, si può iniziare a parlare di giustificazioni solo una volta che il diritto è stato istituito. Il diritto viene fondato, in modo cruciale, senza giustificazioni, senza alcun riferimento a una giustificazione, anche se si fa riferimento a una giustificazione che diventa possibile come conseguenza di quella fondazione. In un primo momento il soggetto è vincolato dal diritto, solo in seguito emerge una cornice giuridica per giustificare il carattere vincolante del diritto. Come conseguenza di ciò, vengono prodotti dei soggetti che sono responsabili davanti alla legge e che vengono definiti dalla loro relazione con la responsabilità giuridica. Contro questo dominio del diritto, sia nelle sue istanze fondative, sia in quelle conservative, Benjamin pone una “violenza divina” che si concentra sulla cornice stessa che istituisce la responsabilità giuridica. La violenza divina viene scatenata contro la forza coercitiva di quella cornice giuridica, contro la responsabilità che vincola un soggetto a un determinato sistema giuridico e impedisce a quello stesso soggetto di sviluppare un punto di vista critico, se non rivoluzionario, rispetto a quel sistema. Quando un sistema giuridico deve essere disfatto o quando la sua coercitività porta alla rivolta coloro che soffrono proprio perché sottoposti/e alle sue condizioni di coercizione, è importante che quei legami di responsabilità vengano rotti. Effettivamente, fare la cosa giusta secondo la legge è proprio ciò che deve essere sospeso per poter dissolvere un corpus di leggi già istituite che sono ingiuste.

Era sicuramente questa la posizione di Georges Sorel nel suo Riflessioni sulla violenza, testo che influenzò profondamente la discussione che Benjamin fa dello sciopero generale come di ciò che porta alla dissoluzione di un intero apparato statale. Secondo Sorel, lo sciopero generale non cerca di mettere in atto questa o quella riforma specifica all’interno di un determinato ordine sociale, ma cerca di disfare l’intera base giuridica di un determinato Stato. Benjamin unisce alla posizione di Sorel un pensiero messianico che dà alla sua visione un significato teologico e politico a un tempo. Non solo la violenza divina libera dalle forme della responsabilità coatta, cioè da una forma di obbligo forzata o violenta, ma questa liberazione è anche, allo stesso tempo, un’espiazione della colpa e un’opposizione alla violenza coercitiva. Una risposta a tutto questo potrebbe essere la paura che da qui possa derivare solo l’anarchia o il dominio della massa, ma ci sono alcune altre proposizioni da tenere a mente. Benjamin non sostiene da nessuna parte che ci si debba opporre a tutti i sistemi giuridici e non è chiaro in questo testo se egli si opponga ad alcune regole giuridiche e non ad altre. Inoltre, se davvero qui Benjamin ha qualcosa a che fare con l’anarchismo, dovremmo soffermarci un attimo a pensare a che cosa potrebbe significare l’anarchismo in questo contesto e tenere a mente che Benjamin prende sul serio il comandamento “Non uccidere” (sul cui significato tornerò tra breve). Paradossalmente, Benjamin vede la liberazione dalla responsabilità giuridica e dalla colpa come una modalità di apprensione della sofferenza e della transitorietà della vita, nella vita, come qualcosa che non può sempre e solo trovare una spiegazione nella cornice della responsabilità morale o giuridica. Questa percezione della sofferenza e della transitorietà può portare, dal suo punto di vista, a un determinato tipo di felicità. Solo attraverso il ricorso alla nozione benjaminiana del messianico si può vedere come l’apprensione di una sofferenza che appartiene al dominio della vita, e che rimane senza spiegazione se si ricorre solo alla responsabilità morale per darne conto, porta a (o costituisce) un determinato tipo di felicità. Nelle conclusioni di questo intervento prenderò in considerazione il Frammento teologico-politico per cercare di chiarire questa concezione.

Benjamin utilizzò diverse fonti per scrivere Per la critica della violenza: tra queste, le Riflessioni sulla violenza di Sorel, l’Etica della volontà pura di Hermann Cohen, e le ricerche cabalistiche di Gershom Scholem. In un certo senso, egli stava lavorando lungo due diverse traiettorie allo stesso tempo, una teologica e una politica, per elaborare, da una parte, le condizioni di uno sciopero generale che avrebbe avuto come risultato la paralisi e la dissoluzione di un intero sistema giuridico e, dall’altra parte, la nozione di una divinità il cui comandamento offre un tipo di ingiunzione che è irriducibile alla legge coercitiva. Le due sponde non sono sempre facili da leggere insieme. Secondo alcuni/e la teologia è al servizio della teoria dello sciopero, mentre secondo altri/e lo sciopero non è altro che un esempio – o un’analogia – della distruttività divina.

Tuttavia, quello che sembra importante qui è che la violenza divina viene comunicata da un comandamento che non è dispotico né coercitivo. In effetti, come Franz Rosenzweig prima di lui, Benjamin configura il comandamento come una sorta di legge che non è né vincolante né applicabile in modo da richiedere la violenza giuridica. (3)

Quando si parla di violenza giuridica, ci si riferisce al tipo di violenza che mantiene la legittimità e l’applicabilità della legge, al sistema penale che aspetta al varco chi infrange la legge, alla polizia e alla forza militare che sostengono un sistema giuridico e alle forme della responsabilità morale e giuridica che assicurano che gli individui restino forzatamente obbligati ad agire secondo la legge, a ottenere la loro effettiva definizione civile in virtù della loro relazione con il diritto.

È interessante che sia attraverso una riconsiderazione del comandamento biblico, specificamente del “Non uccidere”, che Benjamin articola la sua critica della violenza di Stato, una violenza che è in molti modi esemplificata dall’esercito nella sua doppia capacità di applicare e di fare la legge. Anche se siamo abituati a pensare al comandamento divino come a qualcosa che opera in modo imperativo, che ci assegna l’azione e che è pronto a mettere in atto una serie di reazioni punitive se non obbediamo, Benjamin utilizza una diversa tradizione ebraica nel modo di intendere il comandamento; una tradizione che separa rigidamente l’imperativo articolato dalla legge dalla materia della sua applicabilità. Il comandamento emana un imperativo che è davvero privo della capacità di far rispettare in alcun modo l’imperativo che comunica. Il comandamento non è la vocalizzazione di un dio furioso e vendicativo, e in questa visione la legge ebraica più in generale è decisamente non punitiva; inoltre, il comandamento associato con il dio ebraico viene qui opposto alla colpa, cerca addirittura un’espiazione della colpa, che, secondo Benjamin, è un lascito della tradizione mitica e della Grecia antica. Il saggio di Benjamin offre davvero, in una forma frammentata e potenziale, la possibilità di opporsi a una concezione erronea che associa la legge ebraica con la vendetta, con il suo carattere punitivo e con l’attribuzione della colpa. Contro l’idea di una legge coercitiva e che attribuisce colpe, Benjamin invoca il comandamento come ciò che autorizza solo il fatto che una lotta individuale con l’editto etico sia comunicata dall’imperativo. Si tratta di un imperativo che non detta, ma lascia aperte le modalità della sua applicabilità e le possibilità della sua interpretazione, comprese le condizioni in cui può essere rifiutato.

In Benjamin troviamo una critica della violenza di Stato che è in parte ispirata dalle risorse teologiche ebraiche e che si opporrebbe al tipo di violenza che mira a colpire quello che lui chiama “l’anima dell’essere vivente [die Seele des Lebendigen]”. È importante procedere con cautela qui, perché sarebbe un errore dire che questo saggio costituisce un esempio di “critica ebraica”, anche se è percorso da un anelito di teologia ebraica; inoltre, di certo non ha senso definirlo come un esempio di critica ebraica solo perché Benjamin era ebreo. Se questa critica può essere a ragione definita come ebraica, questo dipende solo dalle fonti critiche che Benjamin usa per sostenere le sue tesi. Ed è importante ricordare che Sorel, che non era ebreo e che non usa alcuna fonte chiaramente ebraica per sostenere le sue tesi (a meno che non consideriamo Bergson sotto questa luce), ha sicuramente influenzato questo saggio, tanto quanto l’hanno fatto Scholem o Cohen. Anche se Benjamin è decisamente ambiguo sulla possibilità e sul significato della non-violenza, il mio suggerimento è che il comandamento, così come lo pensa Benjamin, costituisca non solo la base per una critica della violenza giuridica, ma anche la condizione per una teoria della responsabilità che ha al suo centro una lotta continua con la non-violenza.

Faccio una digressione per chiarire quali penso siano alcune delle implicazioni politiche di questa lettura. Vorrei, infatti, abbracciare due di queste implicazioni. Se è parte dell’interpretazione volgare dell’ebraismo ritenere che esso sottoscriva un concetto di dio o una concezione della legge basati sulla vendetta, sulla punizione e sull’inculcazione della colpa, nei toni cabalistici che informano il pensiero di Benjamin si vede invece un illuminante resto di un ebraismo diverso. Per questo si dovrebbero riconsiderare le distinzioni secondo cui una parte della riduzione dell’ebraismo che si ritrova nelle rappresentazioni popolari del suo significato consiste nell’identificare l’ebraismo stesso con un dio adirato e punitivo e il cristianesimo invece con un principio di amore o caritas. Io credo che qui si vedano anche le tracce del movimento antirabbinico dell’inizio del XX secolo che ha informato il lavoro di Rosenzweig e, alla fin fine, quello di Martin Buber; movimento che era associato con la nozione di rinnovamento spirituale, e che era preoccupato da una parte dell’assimilazionismo, dall’altra dello scolasticismo rabbinico. Questo movimento era anche critico nei confronti dei tentativi di stabilire una territorialità giuridica e politica per l’ebraismo: alcune di queste argomentazioni hanno un’importante risonanza oggi nel ripensamento attuale del sionismo. Rosenzweig, per esempio, si opponeva alla coercizione giuridica e allo stesso tempo invocava i comandamenti come modalità attraverso cui pensare a una legge non coercitiva. Rosenzweig nota che, indipendentemente dalle sue condizioni, ogni comandamento comunica la richiesta di “amare Dio”. Effettivamente nella Stella della redenzione egli scrive che i comandamenti che dio dà possono essere ridotti tutti all’ingiunzione “amami!”. Negli anni dieci e venti del Novecento sia Rosenzweig sia, in seguito, Buber si opposero all’idea di uno “Stato” per il popolo ebraico. Entrambi pensavano che non solo il potere critico dell’ebraismo, ma anche quello spirituale, sarebbero stati rovinati o, per usare le parole di Buber, “pervertiti” dall’istituzione di uno Stato che avesse come fondamento la coercizione giuridica e la sovranità. Rosenzweig morì troppo presto per rivedere la sua posizione, ma Buber arrivò ad abbracciare una versione del sionismo che avrebbe previsto uno Stato federale amministrato unitariamente e con pari autorità da “due popoli”. Benjamin, per quanto ne so, non assunse tale posizione relativamente alla fondazione di uno Stato nel nome del sionismo; deviava continuamente dalla questione quando il suo amico Scholem la sollevava in modo pressante e continuo nella loro corrispondenza. (4)

Quello che sembra veramente importante qui per chi cerca di usare questo testo come risorsa per pensare criticamente il presente è qualcosa che ha almeno due aspetti: questo testo si oppone a una riduzione dell’ebraismo allo spargimento di sangue, cosa che a volte si attribuisce a una posizione antisemita, ma allo stesso tempo esso istituisce una relazione critica con la violenza dello Stato che potrebbe essere benissimo parte di un tentativo di mobilitare prospettive critiche ebraiche contro le attuali politiche dello Stato di Israele, se non addirittura contro la base costituzionale che lo stesso dà alla cittadinanza. Come forse saprete, a volte si dice che criticare lo Stato di Israele significa criticare l’ebraismo, ma questo modo di vedere le cose dimentica che l’ebraismo offre una serie importante di prospettive che criticarono il sionismo prima del suo trionfo del 1948 e che ora continuano, in alcune forme, a vivere nella sinistra sia all’interno di Israele/Palestina sia nella diaspora.

Naturalmente il saggio di Benjamin ha oggi i suoi detrattori, molti dei quali sosterebbero di certo che esso manca di prevedere l’assalto del fascismo alla legalità e alle istituzioni parlamentari. Tra il momento in cui il saggio di Benjamin venne scritto, nel 1921, e il momento in cui lo leggiamo noi oggi, hanno avuto luogo diverse catastrofi storiche, compreso lo sterminio di più di dieci milioni di persone nei campi di sterminio nazisti. Si potrebbe dire che il fascismo avrebbe dovuto trovare opposizione proprio da parte di una legalità che fosse considerata vincolante rispetto ai soggetti cui faceva riferimento. Ma ne consegue ugualmente che se la legge che vincola i soggetti cui fa riferimento è essa stessa parte di un apparato giuridico fascista, allora sembrerebbe che tale apparato fosse proprio il tipo di legge alla cui forza vincolante si sarebbe dovuto fare opposizione e resistenza fino a far venir meno l’apparato stesso. Tuttavia, la critica del diritto che fa Benjamin rimane non specifica, tanto che un’opposizione generale al carattere vincolante, o persino coercitivo della legge sembra meno edificante se teniamo in considerazione l’ascesa del fascismo, ma anche il modo in cui la politica estera degli Stati Uniti si fa beffe del diritto costituzionale e internazionale con le sue pratiche di guerra, tortura e detenzione illegale. Ma, di certo, è stato alla luce dell’ascesa del fascismo europeo che alcuni critici e critiche hanno preso le distanze dal saggio di Benjamin.

Jacques Derrida ha dato una lettura penetrante di tale saggio in Forza di legge, mentre Hannah Arendt ne ha fatto un termine di contrapposizione nel suo Sulla violenza. Derrida, nel momento in cui scrisse il suo saggio su Benjamin, era apertamente turbato da ciò che definiva come il “marxismo messianico” che percorre Per la critica della violenza e stava cercando di prendere le distanze dal tema della dissoluzione per valorizzare un ideale di giustizia cui alla fin fine non si avvicina nessun diritto specifico o positivo. Naturalmente Derrida avrebbe rivisto le sue posizioni sul messianesimo, sulla messianicità e sul marxismo in Spettri di Marx e in vari saggi sulla religione. Nel saggio su Benjamin Derrida dice chiaramente che il suo pensiero è che Benjamin sia andato troppo oltre con la sua critica della democrazia parlamentare e che la critica che Benjamin fa della violenza giuridica potrebbe condurre a un sentire politico antiparlamentare troppo strettamente associato con il fascismo. A un certo punto, Derrida afferma che Benjamin cavalca “un’ondata antiparlamentare”, la stessa onda che ha portato il fascismo. (5)

Derrida è anche turbato dal fatto che Benjamin aveva scritto una lettera a Carl Schmitt nello stesso anno in cui pubblicò Per la critica della violenza, ma non ci dice esattamente che cosa possa costituire motivo di turbamento, ammesso che ci sia davvero qualcosa in quella lettera. La lettera, infatti, non sembra contenere più di due righe, nelle quali Benjamin ringrazia Schmitt per il libro che quest’ultimo gli ha inviato. Tale espressione formale di ringraziamento difficilmente potrebbe costituire un motivo per inferire che Benjamin giustifichi, in parte o del tutto, il libro di Schmitt.

Arendt, in Sulla violenza, è anche lei turbata dal fatto che visioni come quella di Benjamin possano non comprendere l’importanza del diritto nel creare un vincolo che unisce una comunità, e sostiene che lo stesso Benjamin non sia stato in grado di comprendere che la fondazione di uno Stato può e dovrebbe essere un inizio non forzato e, in questo senso, non-violento alle sue origini. (6)

Arendt cerca di basare il diritto democratico su una concezione del potere che distingue quest’ultimo dalla violenza e dalla coercizione. In questo senso, Arendt tenta di risolvere il problema fissando certe definizioni e impegnandosi in quella che potrebbe essere chiamata una strategia stipulativa. Nel suo lessico politico la violenza è definita come coercizione, e il potere è definito come non-violento, più specificamente come l’esercizio della libertà collettiva. In effetti, Arendt pensa che se il diritto fosse fondato sulla violenza sarebbe illegittimo e mette in discussione l’assunto che si possa dire che il diritto sia istituito o conservato dalla violenza.

In effetti, mentre Arendt intende le rivoluzioni come qualcosa che istituisce il diritto ed esprime il consenso del popolo concordato tra tutti e tutte, Benjamin ritiene che sia qualcosa che si chiama “fato” a dare origine al diritto. E mentre Derrida, nella sua lettura del saggio di Benjamin, colloca il messianico nell’operazione performativa attraverso cui nasce il diritto stesso (e lo stesso vale per il potere che pone il diritto, per il fato e per la sfera del mitico), è chiaro che per Benjamin il messianico è associato con la dissoluzione di una cornice giuridica e con una diversa alternativa al potere mitico. Nelle pagine che seguono, vorrei esaminare tale distinzione tra fato e violenza divina, e prendere in considerazione le implicazioni che il messianico benjaminiano ha per il problema della critica.

Non si può dimenticare che Benjamin qui sta facendo almeno due serie di distinzioni che si intrecciano le une con le altre: una prima distinzione tra la violenza che pone il diritto e quella che lo conserva, e poi un’altra tra la violenza mitica e quella divina.

È nel contesto della violenza mitica che Benjamin ci offre una descrizione della violenza che pone il diritto e di quella che lo conserva; dunque soffermiamoci prima di tutto su questo aspetto per capire che cosa sia qui in gioco. La violenza porta alla nascita di un sistema giuridico e questa violenza che pone il diritto è proprio quella che opera senza giustificazione. Il fato produce il diritto, ma lo fa prima di tutto manifestando la rabbia divina. Questa rabbia prende forma di legge, ma si tratta di una legge che non ha alcun fine particolare. Essa costituisce un puro mezzo; il suo fine, per così dire, non è altro che il suo stesso manifestarsi.

Per dimostrare questo, Benjamin chiama in causa il mito di Niobe, il cui grande errore fu quello di sostenere che lei, una mortale, era più fertile e più grande di Latona, la dea della fecondità. In questo modo offese terribilmente Latona e cercò anche, attraverso il suo atto linguistico, di dissolvere la distinzione tra le divinità e gli esseri umani. Quando Artemide e Apollo arrivano sulla scena per punire Niobe per la sua affermazione oltraggiosa togliendole i suoi figli e le sue figlie, si può dire, nel senso di Benjamin, che questa dea e questo dio stanno istituendo una legge. Ma questa attività di istituzione di una legge non deve essere intesa prima di tutto come punizione o castigo per un crimine commesso contro una legge esistente. L’arroganza di Niobe, nelle parole di Benjamin, non costituisce un’offesa contro la legge; se lo facesse, dovremmo presupporre che la legge fosse già in vigore prima dell’offesa. Anzi, attraverso il suo atto linguistico di hybris Niobe sfida o mette alla prova il fato. Artemide e Apollo pertanto agiscono nel nome del fato, o piuttosto diventano il mezzo attraverso cui il fato stesso viene istituito. Il fato vince questa battaglia e il trionfo del fato ha come risultato l’istituzione della legge.

In altre parole, la storia di Niobe illustra la violenza che pone il diritto perché le divinità rispondono a un’offesa istituendo una legge. L’offesa non viene sentita subito come infrazione contro la legge; anzi diventa la condizione di precipitazione dell’istituzione della legge. La legge dunque è una specifica conseguenza di una rabbia che risponde a un’offesa, ma né l’offesa né la rabbia sono circoscritte in anticipo dalla legge.

La rabbia funziona in modo performativo per marchiare e trasformare Niobe, istituendola come un soggetto colpevole che assume la forma di una roccia pietrificata. Dunque il diritto pietrifica il soggetto arrestando la vita nel momento della colpa. E anche se Niobe sopravvive, è paralizzata in quel suo vivere: diventa permanentemente colpevole e la colpa trasforma in pietra il soggetto che la porta. Essa diventa permanentemente pietrificata e il castigo che le divinità le infliggono è apparentemente infinito, come infinita è la sua espiazione. In un certo senso, Niobe rappresenta l’economia del castigo e dell’espiazione infinite che Benjamin altrove sostiene appartenga alla sfera del mito. (7)

Niobe viene parzialmente irrigidita, indurita, nella e attraverso la colpa, e tuttavia è piena di dolore e piange senza posa in quella fonte che da lei è scaturita. La punizione produce il soggetto vincolato dal diritto, un soggetto responsabile, punibile e punito. Niobe perderebbe del tutto ogni segno di vita a causa della colpa se non fosse per quel dolore, per quelle lacrime; e dunque è significativo che sia proprio a quelle lacrime che Benjamin ritorna quando prende in considerazione ciò che viene liberato attraverso l’espiazione della colpa. La colpa di Niobe viene dapprima imposta esternamente. È importante non dimenticare che solo attraverso una causalità magica Niobe diventa responsabile della morte dei propri figli e delle proprie figlie. Costoro, dopotutto, non vengono uccisi/e dalle sue mani e tuttavia lei assume la responsabilità di questo omicidio come conseguenza del colpo mortale inflitto dalle divinità. Sembrerebbe dunque che la trasformazione di Niobe in un soggetto giuridico preveda un rifacimento della violenza inferta dal fato come violenza che consegue dalle sue stesse azioni e della quale lei stessa, come soggetto, si assume la diretta responsabilità. Essere un soggetto in questi termini significa prendersi la responsabilità di una violenza che precede il soggetto stesso e la cui operazione è occlusa dal soggetto che arriva a far derivare dai suoi stessi atti la violenza che subisce. La formazione del soggetto che occlude l’operazione della violenza istituendo se stesso come la sola causa di ciò che subisce è pertanto un’ulteriore operazione della violenza stessa.

È interessante che il fato caratterizzi l’istituzione del diritto, ma non dia conto di come il diritto o la coercizione giuridica in particolare possano essere disfatti e distrutti. Anzi, il fato istituisce le condizioni coercitive del diritto rendendo manifesto il soggetto della colpa: il suo effetto è quello di vincolare la persona al diritto istituendo il soggetto come la causa singolare di ciò che subisce e impregnando il soggetto di una forma di responsabilità guidata dalla colpa. Il fato dà anche conto del dolore perenne che emerge da un tale soggetto, ma quello del fato non può essere il nome che descrive lo sforzo di abolire tali condizioni di coercizione. Per capire quest’ultimo punto bisogna spostarsi dal fato a dio o dal mito, la sfera cui appartiene il fato, al divino, la sfera cui appartiene un determinato tipo di dissoluzione non-violenta. Dobbiamo però ancora capire in che cosa consista esattamente questa dissoluzione non-violenta, anche se sembra trattarsi del tipo di dissoluzione che Benjamin immagina potrebbe essere diretta contro lo stesso contesto giuridico e che, in questo senso, sarebbe diversa dalla violenza richiesta e ottenuta dal contesto giuridico.

In modo alquanto brusco, verso la fine del saggio Benjamin decide che la dissoluzione di ogni violenza giuridica debba diventare una necessità. (8)

Ma non si capisce se si tratta di una violenza che è esercitata da determinati sistemi giuridici o di una violenza che corrisponde più generalmente al diritto. La discussione che Benjamin propone mantiene un livello di generalizzazione che porta chi legge a presupporre che sia il diritto in generale a costituire un problema. Quando Benjamin scrive che la dissoluzione di ogni violenza giuridica è una necessità, sembra che si riferisca a un momento e a un determinato contesto che però rimangono non chiaramente delineati nel saggio.

In precedenza Benjamin aveva proposto una distinzione tra lo sciopero generale politico, che è qualcosa che crea il diritto, e lo sciopero generale proletario che distrugge il potere statale e con esso la forza coercitiva che garantisce il carattere vincolante di ogni legge, ovvero la stessa violenza giuridica. Benjamin scrive che il secondo tipo di sciopero è distruttivo, ma non-violento. 9

Qui sta già proponendo una forma non-violenta di distruttività. Nelle ultime pagine si dedica a una discussione che riguarda dio per esemplificare e comprendere questa forma non-violenta di distruttività. In effetti, si potrebbe dire che dio ha qualcosa a che fare con lo sciopero generale, visto che entrambi sono considerati dissolutivi e non-violenti allo stesso tempo. Dio ha anche qualcosa a che fare con ciò che Benjamin chiama anarchia e non con la creazione del diritto. Perciò se pensiamo che dio è quello che ci dà la legge o, attraverso Mosè, detta ciò che la legge dovrebbe essere, dobbiamo considerare di nuovo il fatto che il comandamento non è il diritto positivo che mantiene il suo potere attraverso la coercizione: come forma giuridica il comandamento è specificamente non coercitivo e non sottoponibile alla forza della legge.

Se ciò che è divino nella violenza divina non dà né conserva il diritto, resta aperto il dilemma di quale sia il modo migliore di intendere il comandamento e in particolare il suo equivalente politico. Per Rosenzweig il comandamento decisamente non è un esempio di violenza giuridica o di coercizione. Pensiamo al dio di Mosè come a colui che dà i comandamenti e tuttavia i comandamenti non sono, per Benjamin, un esempio di legge che viene data. Anzi il comandamento istituisce un punto di vista sul diritto che porta alla dissoluzione del diritto stesso come vincolante in modo coercitivo. Potrebbe sembrare strano che si intenda il comandamento come un esempio di violenza divina, soprattutto perché il comandamento che Benjamin cita è “non uccidere”. Ma che cosa accade se il sistema giuridico positivo al quale si è vincolati/e richiede che si uccida di diritto? Il comandamento, nel colpire la legittimità di quel sistema giuridico, diventerebbe un tipo di violenza che si oppone alla violenza? Per Benjamin questa violenza divina ha il potere di distruggere la violenza mitica. Dio è il nome di ciò che si oppone al mito. (10)

È importante ricordare non solo che il potere divino distrugge il potere mitico, ma anche che il potere divino espia.

Questo suggerisce che il potere divino agisce sulla colpa nel tentativo di smontare i suoi effetti. La violenza divina agisce sull’emanazione della legge e sull’intero ambito del mito, cercando di espiare i segni dei misfatti nel nome di un perdono che non assume nessuna espressione umana. Il potere divino perciò compie il suo atto distruttivo, ma lo può fare solo se il potere mitico ha costituito il soggetto colpevole, la sua offesa punibile e un contesto giuridico per la punizione. È interessante che per Benjamin il dio ebraico non induca la colpa e pertanto non sia associato con i terrori della riprovazione. In effetti il potere divino viene descritto come letale senza spargimento di sangue. Colpisce le catene giuridiche che pietrificano il corpo e lo costringe al dolore eterno, ma non colpisce, secondo Benjamin, l’anima dell’essere vivente. La violenza divina agisce davvero nel nome dell’anima dell’essere vivente. E allora bisogna anche che l’anima dell’essere vivente sia messa a repentaglio dalla legge che paralizza il suo soggetto attraverso la colpa. Questa colpa minaccia di diventare una sorta di assassinio dell’anima. Nel distinguere l’anima dell’essere vivente dalla “vita” stessa, Benjamin ci chiede di pensare a quale valore abbia la vita una volta che sia stata distrutta l’anima.

Se ci chiediamo che cosa motivi questa presa di posizione finale contro la violenza giuridica, questo obbligo di dissolvere la violenza giuridica, dobbiamo notare che Benjamin fa riferimento alla “colpevolezza della nuda vita naturale”. (11)

Nel saggio “Le affinità elettive” di Goethe egli chiarisce che un “tipo naturale” di colpa non è etico e non è il risultato di una qualche azione sbagliata: “Con il dileguarsi della vita soprannaturale nell’uomo, la sua vita naturale diventa colpevole, pur senza venir meno, nell’azione, alle norme della moralità. Poiché ora essa è nel quadro della nuda vita che si presenta nell’uomo come colpa”.(12)

Benjamin non elabora ulteriormente questa nozione di vita naturale in Per la critica della violenza anche se in alcuni punti del saggio usa il termine “nuda vita [blosse Leben]”. Scrive che “la violenza mitica è potere sanguinoso [Blutgewalt] fine a se stesso [um ihrer selbst] sulla nuda vita, la violenza divina è mero potere su ogni vita in nome dell’essere vivente [reine Gewalt über alles Leben um des Lebendigen]”. (13)

Il diritto positivo dunque cerca di contenere la vita, il potere divino non salvaguarda la vita stessa ma solo la vita in nome dell’“essere vivente”. Ma da chi è costituito l’“essere vivente” in questa nozione? Non si può trattare di chiunque è semplicemente in vita visto che l’anima dell’essere vivente è qualcosa di diverso e visto che ciò che viene compiuto in nome “dell’essere vivente” potrebbe benissimo includere il fatto di togliere la vita, la nuda vita. Questo sembra chiaro, per esempio, quando Benjamin parla della tribù di Korah (una scena biblica in cui un’intera comunità viene annientata dall’ira divina per non aver obbedito alla sua parola) come esempio di violenza divina.

Dunque è non senza costernazione che ci dobbiamo chiedere se il comandamento “Non uccidere” cerchi di salvaguardare la vita naturale o l’anima dell’essere vivente e come esso faccia una distinzione tra le due. La vita di per sé non è una motivazione necessaria o sufficiente per opporsi al diritto positivo, ma l’“anima” dell’essere vivente lo potrebbe essere. Si potrebbe intraprendere una tale opposizione in nome dell’essere vivente, vale a dire per coloro che sono vivi/e in virtù di quell’anima che è attiva o in vita. Sappiamo dalla prima parte del saggio che “bisogna risolutamente guardarsi dall’equivoco giusnaturalistico, per cui si potrebbe fare una distinzione tra violenza a scopi giusti e violenza a scopi ingiusti”. (14)

Il tipo di violenza che Benjamin chiama “divina” non viene giustificata attraverso una serie di fini ma costituisce un “puro mezzo”. Il comandamento “Non uccidere” non può essere una legge che appartiene all’ordine delle leggi che vengono distrutte. Deve essere esso stesso un tipo di violenza che si oppone alla violenza nello stesso modo in cui la nuda vita controllata dal diritto positivo è diversa dall’anima dell’essere vivente che rimane il punto focale dell’ingiunzione divina. Prendendo una posizione imprevista, Benjamin sembra leggere il comandamento che impone di non uccidere come un comandamento che impone di non assassinare l’anima dell’essere vivente, e dunque come un comandamento che impone di fare violenza contro il diritto positivo che è responsabile di tale assassinio. Un esempio di come il diritto positivo catturi la nuda vita è la pena di morte. Nell’opporsi alla violenza giuridica, a questo punto Benjamin sembrerebbe opporsi alla pena di morte come violenza imposta legalmente che articola ed esemplifica nel modo più pieno la violenza del diritto positivo. Contro una legge che condannerebbe e potrebbe condannare a morte un soggetto, il comandamento rappresenta un tipo di legge che opera specificamente per salvaguardare un qualche senso della vita contro tali pene: ma quale senso? Chiaramente non si tratta solo della vita biologica, ma della condizione simile alla morte indotta dalla colpa, la condizione di pietrificazione di Niobe con le sue lacrime inarrestabili. E tuttavia è in nome della vita che l’espiazione viene inflitta a Niobe, cosa che apre alla domanda se l’espiazione della colpa sia in qualche modo una motivazione o uno scopo per la rivolta contro la violenza giuridica. I legami di responsabilità nei confronti di un sistema giuridico che si riserva la prerogativa della pena di morte vengono rotti da una rivolta contro la coercizione giuridica? C’è qualcosa che riguarda la rivendicazione degli “esseri viventi” che motiva lo sciopero generale, il quale espia la colpa che mantiene il dominio della coercizione giuridica sul soggetto?

Il desiderio di liberare la vita dalla colpa fissata dal contratto giuridico con lo Stato: sarebbe questo che dà origine a una violenza contro la violenza e che cerca di liberare la vita da un contratto di morte con il diritto, la morte dell’anima vivente causata dalla forza della colpa che si consolida.

Questa è la violenza divina che si muove, come una tempesta, sopra l’umanità per obliterare ogni traccia di colpa, una forza divina di espiazione e dunque non di castigo.

La violenza divina non colpisce il corpo o la vita organica dell’individuo, ma il soggetto che è formato dal diritto. Purifica il o la colpevole non dalla colpa, ma dalla sua immersione nel diritto e pertanto dissolve i legami di responsabilità che conseguono al diritto stesso. Benjamin rende esplicito questo legame quando parla del potere divino come di un “puro potere su ogni vita in nome dell’essere vivente”. Il potere divino costituisce un momento di espiazione che colpisce senza spargimento di sangue.

L’effetto di questo colpo, di questo attacco, è la separazione dello status giuridico dall’essere vivente (cosa che costituirebbe un’espiazione o una liberazione di quell’essere vivente dalle catene del diritto positivo); ed è un effetto che ha luogo senza spargimento di sangue.

Ma questa violenza è veramente senza spargimento di sangue, se può comprendere l’annientamento di un popolo, come nella storia di Korah, o se si basa su una distinzione discutibile tra una vita naturale e l’anima dell’essere vivente? C’è all’opera un tacito platonismo nella nozione di “anima dell’essere vivente”? Vorrei sostenere che non c’è alcun significato ideale legato a questa nozione di anima, perché essa appartiene proprio a coloro che vivono, e spero di mettere in chiaro come tutto questo funzioni nella discussione che proporrò alla fine del saggio.

Benjamin incomincia ad articolare questa distinzione quando ammette che la violenza possa essere inflitta “solo relativamente, in rapporto ai beni, ai diritti, alla vita e simili”, (15) ma che non annienti mai completamente l’anima dell’essere vivente (die Seele des Lebendigen). La violenza divina, anche se è di fatto violenza, non è mai annichilente in senso assoluto, ma solo in senso relativo. Come si può intendere l’uso di questo termine, “relativamente [relativ]”? E come mai Benjamin da qui procede ad affermare che non si può dire che la sua tesi conferisca agli esseri umani il potere di esercitare un potere letale gli/le uni/e sugli/le altri/e? “Alla domanda ‘Posso uccidere?’ segue la risposta immutabile [Unverruckbäre: irremovibile, fissa – letteralmente: incapace di rendere qualcosa insensato o di cambiare direzione rispetto a un percorso] del comandamento: ‘Tu non ucciderai’.”(16)

Ma il fatto che il comandamento sia immutabile non significa che non possa essere interpretato e anche trasgredito. Coloro che prestano attenzione al comandamento “devono fare i conti [sich auseinanderzusetzen] con esso in solitudine e assumersi, in casi straordinari [ungeheuren] la responsabilità di prescindere da esso”.(17)

Contro la scena mitica in cui un atto di rabbia istituisce una legge punitiva, il comandamento esercita una forza che non è la stessa che viene esercitata dal marchio della colpa. La parola divina, se è performativa, è un atto linguistico perlocutorio che dipende fondamentalmente dal fatto di essere accolto per poter prendere piede. Funziona solo se viene fatto proprio, e questo di certo non è garantito. Benjamin descrive così i poteri non dispotici del comandamento: “L’ingiunzione diventa inapplicabile, incommensurabile, rispetto all’azione compiuta”; (18) cosa che suggerisce che, qualunque timore il comandamento provochi, non vincola in modo immediato il soggetto al diritto attraverso l’obbedienza. Nell’esempio della legge mitica, la punizione instilla colpa e paura e Niobe esemplifica la punizione che attende chiunque paragoni se stesso/a alle divinità.

Il comandamento benjaminiano non comporta tali punizioni e manca del potere di far rispettare come legge le azioni che richiede. Il comandamento, per Benjamin, non è sostenuto da alcuna forza di polizia. È inamovibile, non appena viene enunciato diventa l’occasione per una lotta con il comandamento stesso. Non incute timore né esercita un potere capace di far rispettare un giudizio che viene dopo l’azione compiuta. Perciò, dal comandamento, scrive Benjamin, “non segue alcun giudizio [sull’azione compiuta]”. (19)

Di fatto, il comandamento non può dettare l’azione, costringere all’obbedienza o emettere un giudizio contro colui o colei che adempie o manca di adempiere al suo imperativo. Più che costituire un criterio di giudizio per una serie di azioni, il comandamento funziona come un principio-guida [Richtschnur des Handelns]. E ciò che il comandamento ordina è una lotta con il comandamento stesso la cui forma finale non può essere determinata a priori. Nella sorprendente interpretazione di Benjamin, si lotta con il comandamento in solitudine.

Come forma di appello etico, il comandamento è ciò contro cui ogni individuo deve lottare senza avere alcun altro modello.

Una risposta etica al comandamento è quella di rifiutarlo (abzusehen), ma anche in questo caso ci si deve prendere la responsabilità di rifiutarlo. La responsabilità è qualcosa che ci si prende in relazione al comandamento, ma non è dettata dal comandamento stesso. In realtà essa è chiaramente distinta dall’obbligo e, sicuramente, dall’obbedienza. Non esiste la libertà di ignorare il comandamento. Si può, per così dire, lottare con se stessi/e in relazione a esso. Ma la lotta con se stessi/e potrebbe davvero produrre un risultato, una decisione, un atto che rifiuta o rivede il comandamento e, in questo senso, la decisione è l’effetto di un’interpretazione che è allo stesso tempo obbligata e libera.

Ci si potrebbe aspettare che Benjamin salvaguardasse il valore della vita dalla violenza e che coniasse una nozione di violenza non-violenta per denominare questa azione di salvaguardia, questo colpo da infliggere alle catene del diritto, questo espiare la colpa e resuscitare la vita. Ma Benjamin dice chiaramente che coloro che prediligono l’esistenza rispetto alla felicità e alla giustizia sottoscrivono una posizione che è al contempo “falsa” e “ignobile [niedrig]”. Benjamin si oppone a una concezione dell’“esistenza” come “nuda vita” e suggerisce che ci sia una “verità potente” nella proposizione che l’esistenza deve essere prediletta rispetto alla felicità e alla giustizia. Se si considerano, infatti, l’esistenza e la vita come ciò che designa “il contesto inamovibile dell’‘essere umano’ […] l’essere umano non coincide in nessun modo con la nuda vita che è in lui”. (20)

Come risulta chiaro dal fatto che Benjamin concorda con la visione ebraica secondo cui il comandamento non proibisce di uccidere per legittima difesa, il quinto comandamento non si basa sulla sacertà [heiligkeit] della vita (nozione che è correlata a quella di colpa), ma su qualcosa d’altro. Benjamin non rifiuta la nozione del sacro nel cercare di stabilire i fondamenti e gli scopi del comandamento che proibisce di uccidere, ma vuole chiaramente operare una distinzione tra ciò che è sacro nella vita e la nuda vita o la vita naturale.

Si fa strada, momentaneamente, la tentazione di leggere ciò che Benjamin scrive come un’adesione a una dottrina ultraterrena dell’anima o del sacro quando egli parla di “quella vita nell’essere umano che è presente allo stesso modo nella vita terrena, nella morte, e nella vita dopo la morte”. (21)

E anche lì parla del sacro solo attraverso una congettura e un inciso: “Tanto sacro è l’essere umano [so heilig der Mensch ist] […] tanto poco lo sono i suoi stati”; 22 cosa che include la vita del corpo e la sua vulnerabilità. Ciò che è sacro è un certo senso ristretto della vita che è identico in questa vita e nella vita dopo la morte; ma che senso possiamo dare a tutto questo? Benjamin introduce il problema del sacro e della giustizia solo nel contesto di una congettura, suggerendo che esso appartiene a un futuro indefinito, ammesso che appartenga davvero a una qualche dimensione temporale. Come dovremmo definire tali affermazioni di Benjamin?

E questo appello a un’altra vita, a un senso della vita che va oltre il corpo, è la manovra del “terrorista spirituale [der geistige Terrorist]” che fornisce i “mezzi” che giustificano la violenza?

Questo sembrerebbe essere in contraddizione con l’affermazione fatta da Benjamin in precedenza a proposito della violenza divina che non agisce secondo scopi specifici, ma piuttosto come puro mezzo. Con l’affermazione qui sopra presa in considerazione, invece, Benjamin sembra suggerire che la violenza divina corona un processo, ma che questo processo non è causato da essa, che non possiamo districare i “fini” che essa raggiunge dai mezzi attraverso cui viene raggiunta e che questi calcoli strumentali vengono comunque superati.

Cerchiamo prima di tutto di comprendere il senso ristretto della vita che emerge all’interno della congettura di Benjamin.

Se c’è qualcosa di sacro o di divino in questo senso ristretto della vita, allora sembrerebbe trattarsi proprio di ciò che si oppone alla colpa e alla violenza del diritto positivo volta a far rispettare la legge. Il sacro consisterebbe allora in ciò che resiste o si oppone a questa forma di violenza giuridica; e abbiamo visto che questo tipo di contro-violenza ostile è essa stessa l’espressione di ciò che rimane non vincolato, non colpevole o espiato. In questo saggio, tuttavia, vediamo che la violenza divina è alleata con lo sciopero generale e con ciò che è rivoluzionario, e questo a sua volta è alleato con ciò che contesta e devasta il contesto giuridico dello Stato. Vorrei suggerire che questo senso sacro o divino della vita è anche alleato con l’anarchico, ovvero con ciò che è oltre o al di fuori del principio. Incontriamo questo momento di anarchismo nel saggio già quando viene evocata la persona solitaria che lotta, senza modello o senza ragione, con il comandamento. Si tratta di una lotta anarchica che avviene senza ricorso ad alcun principio e che ha luogo tra il comandamento e chi deve agire in relazione a esso. Nessuna motivazione lega i due elementi. In questo solitario fare i conti con il comandamento c’è un momento non generalizzabile che distrugge la base del diritto, che è invocato da un’altra legge in nome della vita e nella speranza di un futuro per l’essere vivente al di fuori delle catene della coercizione, della colpa e della responsabilità che mantengono intatto lo status quo giuridico. La dissoluzione o l’annichilimento del potere statale non appartiene né alla violenza che pone il diritto né a quella che lo conserva. Anche se si istituisce una svolta attraverso questa abolizione o dissoluzione rivoluzionaria della violenza giuridica, nessun diritto viene creato a partire da questo punto e la dissoluzione non è parte di una nuova elaborazione del diritto positivo. La dissoluzione ha una singolare permanenza rispetto al diritto; e questo ha senso se consideriamo il fatto che in ogni tentativo di fare i conti con il comandamento è il momento anarchico quello che dissolve la base del diritto positivo. Questo ha senso anche se si prende in considerazione il significato teologico del messianico con cui Benjamin sta facendo i conti in questo saggio e che non solo informa il senso ristretto della vita che abbiamo preso in esame, ma anche si contrappone a possibili letture in chiave platonica della sua concezione dell’anima.

Vorrei suggerire che l’anarchia o dissoluzione di cui Benjamin parla qui non deve essere intesa come un altro tipo di stato politico, né come un’alternativa al diritto positivo. Piuttosto, essa ricorre costantemente come condizione del diritto positivo e come suo limite necessario. Non prefigura un’epoca a-venire, ma sottostà a ogni tipo di violenza giuridica, visto che costituisce il potenziale di dissoluzione che sottoscrive ogni atto attraverso cui il soggetto è vincolato al diritto. Per Benjamin, la violenza che sta al di fuori del diritto positivo si configura come rivoluzionaria e divina allo stesso tempo, ed è, secondo i termini di Benjamin, pura, diretta, immediata. Essa prende a prestito i propri termini dal linguaggio con cui Benjamin descrive lo sciopero generale, ovvero lo sciopero che mette in ginocchio un intero sistema giuridico. C’è una qualche dimensione speculativa qui, quando Benjamin afferma che la violenza espiatoria non è visibile agli uomini ed è legata a forme eterne: la vita dell’uomo che è presente allo stesso modo nella vita terrena, nella morte e nella vita dopo la morte. Se si legge Per la critica della violenza sulla scorta del Frammento teologico-politico, 23 scritto più o meno nello stesso periodo, si possono trovare in quest’ultimo delle affermazioni che meritano una certa considerazione: in primo luogo, che nulla di ciò che è storico può mettersi in relazione con il messianico; in secondo luogo, che questa violenza espiatoria può rendersi manifesta in una vera guerra o in un giudizio divino della moltitudine contro un criminale.

Ma a questo punto sembra esserci ancora motivo di preoccupazione: forse che Benjamin sta offrendo una giustificazione per una vera guerra al di fuori di ogni legalità o per la sollevazione e l’aggressione da parte della moltitudine nei confronti di un/a criminale designato/a come tale solo dalla stessa moltitudine?

Anche il suo riferimento conclusivo a un’esecuzione sacra sembrerebbe evocare simili immagini di masse senza legge che si sollevano per compiere ogni sorta di violenza fisica nel nome di un qualche potere sacro. Ed è vero allora che qui Benjamin sta cavalcando “un’ondata antiparlamentare” che lo rende pericolosamente vicino al fascismo? O forse la cosiddetta esecuzione sacra è un attacco che va solo contro le rivendicazioni totalizzanti del diritto positivo? Benjamin ha già affermato che la violenza divina o sacra non deve essere giustificata da una serie di fini, anche se sembra sostenere che nella violenza divina è in gioco una relazione specifica tra chi agisce e il divino. (24)

Dunque, come si possono interpretare le affermazioni che Benjamin fa a questo punto? Egli non invoca la violenza, ma suggerisce piuttosto che la dissoluzione sia già all’opera come presupposto del diritto positivo e, di fatto, della vita stessa. Il sacro non designa ciò che è eterno, a meno che non si intenda la dissoluzione come una forma di eternità. Inoltre, la nozione del sacro invocata da Benjamin implica che la dissoluzione possa non avere alcun fine e che non venga estinta né dal diritto, né da una storia teleologica. In questo senso, la dissoluzione è allo stesso tempo il momento anarchico in cui ha luogo l’appropriazione del comandamento e lo sciopero contro il sistema giuridico positivo che incatena i suoi soggetti in una colpa priva di vita. Ed è anche messianica in un senso molto preciso.

Per concludere, dunque, prendiamo in considerazione il significato preciso della dissoluzione nella concezione messianica con cui Benjamin sta lavorando e teniamo presente prima di tutto l’affermazione contenuta nel Frammento che “nella felicità ogni essere terrestre aspira al suo tramonto [im Glück erstrebt alles Irdische seinen Untergang]”. (25)

Questo tramonto non avviene una sola volta, ma continua ad accadere, è parte della vita stessa e potrebbe davvero costituire ciò che è sacro nella vita, ciò che viene indicato come “l’anima dell’essere vivente”. Per il Benjamin del Frammento teologico-politico, l’interiorità dell’uomo, legata alla sollecitudine etica, è il luogo dell’intensità messianica. Tutto questo ha senso se teniamo a mente la lotta solitaria con il comandamento che costituisce la visione benjaminiana della responsabilità, la quale rimane radicalmente distinta dalla – e opposta alla – obbedienza coatta. L’intensità messianica dell’interiorità dell’uomo è condizionata o provocata dalla sofferenza, intesa come sfortuna o fato. Soffrire a causa del fato significa davvero non essere la causa della propria sofferenza, significa soffrire al di fuori del contesto della colpa, come conseguenza di un’accidentalità o di poteri che vanno al di là del proprio controllo. Tuttavia, quando il fato riesce a creare il diritto positivo, ne deriva un’importante trasmutazione di questo significato del fato. Il diritto elaborato dal fato riesce a far credere al soggetto di essere responsabile della propria sofferenza nella vita: in altre parole la sofferenza è la conseguenza causale delle proprie azioni. Il fato infligge una sofferenza che, attraverso il diritto, viene dunque attribuita al soggetto come sua responsabilità.

Naturalmente questo non significa che non ci sia, o che non ci dovrebbe essere, alcuna responsabilità. Al contrario. Ma quello che Benjamin vuole fare è evidenziare almeno tre questioni tra loro interrelate: 1) che la responsabilità deve essere intesa come una forma solitaria, se non anarchica, di lotta con una domanda etica; 2) che l’obbedienza coatta o forzata uccide l’anima e mina la capacità di una persona di fare i conti con la domanda etica che le viene posta; (3) che il contesto della responsabilità giuridica non può rivolgersi a, né rettificare, le condizioni piene della sofferenza umana. La sofferenza di cui parla Benjamin è coestensiva alla vita, non può essere definitivamente risolta all’interno della vita e non si può dare conto di essa in modo adeguato da un punto di vista causale o teleologico. Questa sofferenza non ha alcuna buona ragione, e non c’è buona ragione che potrebbe emergere nel tempo. Il messianico ha luogo proprio in questa congiuntura, laddove il tramonto appare come eterno.

Nel Frammento il tramonto perpetuo della felicità umana costituisce l’eternità della transitorietà. Questo non significa che ci sia sempre o solo tramonto, ma semplicemente che il ritmo della transitorietà è ricorrente e senza fine. Ciò che viene chiamato immortalità corrisponde, nella visione di Benjamin, a una restitutio in integrum “mondana che porta all’eternità di un tramonto e il ritmo di mondanità che eternamente trapassa nella sua totalità, non solo spaziale, ma anche temporale, il ritmo della natura messianica è la felicità”. (26)

Benjamin intende la felicità come qualcosa che deriva da questa concezione, da questa apprensione del ritmo della transitorietà. La dimensione ritmica della sofferenza diventa proprio la base della forma paradossale di felicità con cui è gemellata. Se il ritmo del messianico è la felicità e il ritmo consiste in un’apprensione che è tutta tenuta a esaurirsi, a subire il suo tramonto, allora questo ritmo, il ritmo della transitorietà stessa è eterno ed è esattamente ciò che connette la vita interiore della persona, la persona che soffre, con ciò che è eterno. Tutto questo sembra dare conto del senso ristretto della vita invocato dal comandamento. Non è il contrario della “nuda vita”, visto che la transitorietà caratterizza sicuramente la nuda vita, ma è nuda vita carpita come ritmo della transitorietà. E tutto questo offre una prospettiva che si oppone alla visione secondo cui la vita stessa è fatta di peccato, e la colpa ci deve vincolare al diritto e il diritto deve per questo esercitare una violenza necessaria sulla vita.

Dunque, c’è una sorta di correlazione tra la vita interiore e una sofferenza che è eterna, vale a dire non ristretta alla vita di questa o quella persona. La vita interiore, intesa ora come sofferenza, è anche la condizione non generalizzabile della lotta con il comandamento che impone di non uccidere; anche se il comandamento viene trasgredito, deve essere sofferto. Questa lotta solitaria e questa sofferenza rappresentano anche il significato dell’anarchia che motiva iniziative che sono fatali per il diritto coercitivo. Quest’ultimo cerca di trasformare ogni sofferenza in una mancanza, ogni sfortuna in una colpa. Tuttavia, nell’estendere la responsabilità oltre i confini del suo dominio, il diritto positivo fa svanire la vita e la sua necessaria transitorietà, sia nella sua sofferenza sia nella sua felicità. Trasforma i propri soggetti in pietre che piangono. Il diritto positivo, se costituisce un soggetto che è responsabile di ciò per cui soffre, allora produce anche un soggetto che è immerso nella colpa, che è spinto ad assumersi la responsabilità di sfortune che non dipendono da ciò che fa o pensa e che, in virtù di se stesso, potrebbe mettere definitivamente fine a ogni sofferenza. Mentre è certo che gli esseri umani si fanno reciprocamente del male, non è che tutto ciò di cui ognuno/a di noi soffre può essere riportato alle azioni di un(’)altro/a. L’espiazione del soggetto colpevole che passa attraverso la violenza divina ha luogo quando la nozione egocentrica del soggetto come causa del male trova uno stemperamento e un’opposizione nel realizzare che esiste una sofferenza che nessun tipo di persecuzione potrà mai abbattere. Questa espiazione scioglie il soggetto dalle catene del narcisismo effimero della colpa e promette di restituire il soggetto alla vita – non alla nuda vita, e non a qualche aldilà eterno, ma alla vita nel senso di questa sua sacra transitorietà. Il fatto che la transitorietà sia eterna significa che essa non troverà mai fine e che il perire segna il ritmo di ogni vita. Quindi Benjamin non difende la vita contro la morte, ma trova nella morte il ritmo, se non la felicità, della vita stessa, una felicità che richiede una liberazione che passa attraverso l’espiazione da parte del soggetto della colpa; colpa che sarebbe rappresentata dal disfacimento del soggetto stesso, una decomposizione di quell’esistenza pietrificata.

Nei primi scritti di Benjamin dedicati all’arte, si trova spesso menzione di qualcosa che viene chiamato “potenza critica” o anche “sublime potenza” in relazione all’ambito dell’opera d’arte. (27)

Ciò che è vivente nell’opera d’arte muove contro la seduzione e la bellezza. Solo come resto pietrificato della vita l’opera d’arte può affermare una certa verità. L’obliterazione della bellezza richiede l’obliterazione dell’apparenza che costituisce il bello, e l’obliterazione della colpa richiede l’obliterazione delle tracce, tanto che alla fine le tracce e i segni devono essere arrestati per evincere la verità dell’opera d’arte. Questa verità deve prendere la forma del linguaggio, della parola in senso assoluto (una visione che si rivela problematica per la comprensione dell’ambito visivo come distinto da quello linguistico). Questa parola, nel senso che le dà Benjamin, dà unità organizzativa a ciò che appare, ma essa stessa non appare; costituisce un’idealità incarnata nella sfera dell’apparenza come struttura organizzatrice.

In Per la critica della violenza questa parola è il comandamento, il comandamento che impone di non uccidere. Ma questo comandamento può essere accolto solo se è inteso come una sorta di idealità che organizza la sfera dell’apparenza. (28)

Ciò che è sacro nella transitorietà non si trova al di fuori di quella stessa transitorietà, ma non può nemmeno essere ridotto alla nuda vita. Se la condizione della “nuda vita” deve essere superata dalla transitorietà sacra, ne consegue che la nuda vita non giustifica il comandamento che proscrive l’atto di uccidere. Al contrario, il comandamento si rivolge proprio a ciò che è sacro e transitorio nella vita umana, quello che Benjamin definisce come il ritmo del messianico e che costituisce la base di un modo non coercitivo di intendere l’agire umano. E Benjamin, anche se afferma che non può essere la singolarità del corpo a impedire di uccidere, sembra suggerire che la nozione di una transitorietà extra-morale permette una comprensione della sofferenza umana che espone i limiti di una nozione di moralità fondata sulla colpa, la metalepsi della causalità morale che produce paralisi, auto-riprovazione e dolore senza fine. Tuttavia, va detto che Benjamin sembra preservare qualcosa del dolore senza fine in questa descrizione. Dopotutto, Niobe non solo si rammarica di ciò che ha fatto, ma è anche in lutto per ciò che ha perso. La transitorietà eccede la causalità morale. Per questo le lacrime di Niobe potrebbero offrirci un’immagine che ci permette di comprendere la transizione dalla violenza mitica a quella divina.

Niobe si era vantata di essere più feconda di Latona, e quindi Latona aveva mandato Apollo a uccidere i suoi sette figli. Niobe aveva continuato a vantarsi e Latona aveva mandato Artemide a uccidere le sue sette figlie, anche se c’è chi dice che una delle figlie, Cloride, sarebbe sopravvissuta. Il marito di Niobe si toglie la vita, e quindi Artemide trasforma Niobe in una roccia da cui sgorgano lacrime in eterno. Si potrebbe dire che Niobe è stata la causa della sua stessa punizione e che è colpevole di essersi vantata in modo arrogante. Ma resta il fatto che è stata Latona che si è inventata quella punizione e ha ordinato l’assassinio dei figli e delle figlie di Niobe. Sono stati inoltre il figlio e la figlia di Latona, Apollo e Artemide, a mettere in pratica l’autorità giuridica della madre, costituendola in questo modo retroattivamente. La legge emerge solo con quella punizione, producendo la colpa e il soggetto punibile che tiene efficacemente segreto e rende effettivo il potere che pone il diritto. Se la violenza divina non è coinvolta nella creazione del diritto ma mobilita il messianico nei suoi poteri di espiazione, allora il potere divino libererà dalla colpa il soggetto punito.

Come sarà l’espiazione di Niobe? Possiamo immaginarlo? La giustizia in questo caso richiederebbe una congettura, l’apertura della possibilità di congetturare? Possiamo solo immaginare che la roccia si dissolva tramutandosi in acqua e che la sua colpa erompa in lacrime senza fine. Non si tratterebbe più di chiedersi che cosa abbia fatto Niobe per meritare una tale punizione, ma di capire quale sistema di punizioni imponga una tale violenza su di lei. Possiamo immaginare che lei insorga di nuovo per mettere in questione la brutalità della legge, e possiamo immaginare che dissemini la colpa della sua arroganza in un adirato rifiuto dell’autorità violenta esercitata contro di lei e in una pena senza fine per la perdita di quelle vite. Se quel dolore è senza fine, forse è anche perenne, o anche eterno; e in questo punto la sua perdita e anche la parte del suo tramonto che lega quella stessa perdita ai ritmi della dissoluzione costituiscono ciò che è sacro nella vita e ciò che nella vita dà la felicità.

Restano, certo, molti motivi per essere sospettose nei confronti delle posizioni che Benjamin prende in questo suo saggio, visto che non ci dice se è obbligatorio opporsi a ogni violenza giuridica, se lui stesso sosterrebbe certe forme di obbligo che trattengono coercitivamente coloro che detengono il potere dal fare violenza, e se i soggetti dovrebbero avere in qualche modo un certo obbligo nei confronti dello Stato. Di sicuro Benjamin non ci sta offrendo qui un piano per il futuro, ma solo un’altra prospettiva da cui guardare al tempo. Il saggio si conclude con una nota di dissoluzione, ma non di trasformazione, e non viene elaborato alcun futuro. Questo non significa, tuttavia, che non ci possa essere alcun futuro. All’inizio del saggio lui stesso aveva osservato che, per Sorel, lo sciopero generale proletario esercita un tipo di violenza che è, “come puro mezzo, […] non-violenta”. Perché, come scrive Benjamin per spiegare ciò, “essa non ha luogo nella disposizione a riprendere, dopo concessioni esteriori e qualche modificazione nelle condizioni lavorative, il lavoro di prima, ma nella decisione di riprendere solo un lavoro interamente mutato, un lavoro non imposto dallo Stato; un rovesciamento [ein Umsturz] che questa specie di sciopero non tanto provoca, quanto realizza direttamente [nicht so wohl veranlasst als vielmehr vollzieht]”.

Questo “rovesciamento che realizza direttamente” lega lo sciopero generale alla violenza divina. Anche quest’ultima si stacca dalle modalità dell’applicazione forzata e apre verso un senso del tempo che rifiuta la struttura teleologica e la predizione. Più specificamente, il messianico impedisce il dispiegamento teleologico del tempo. (Il messia è quello che non apparirà mai nel tempo.) Il messianico porta l’espiazione, la dislocazione della colpa, il castigo e la coercizione a contatto con una più ampia concezione della sofferenza in relazione a una transitorietà eterna o ricorrente. In questo senso la critica che Benjamin fa della violenza giuridica ci impone di sospendere ciò che intendiamo a proposito della vita, della perdita, della sofferenza e della felicità, per porci delle domande che riguardano la relazione tra sofferenza, “tramonto” e felicità, per vedere quale accesso la transitorietà ci permette di avere nei confronti di ciò che ha valore sacro, per opporsi all’affievolimento della vita e alla perpetrazione della perdita operata dalla violenza di Stato. La transitorietà sacra potrebbe funzionare molto bene come principio che ci mostra che cosa c’è nella nuda vita che vale la pena di proteggere rispetto alla violenza di Stato. Potrebbe anche suggerire il motivo per cui il comandamento “Non uccidere” funziona non come una base teologica per l’azione rivoluzionaria ma come un fondamento non teleologico per la comprensione del valore della vita. Se la sofferenza che si subisce viene intesa come ricorrente, addirittura come eterno ritmo di tramonto, ne consegue che la propria sofferenza può essere dispersa in un ritmo ricorrente di sofferenza, che si è afflitti/e da essa non più e non meno di ogni altra persona e che il punto di vista della prima persona potrebbe essere decentrato, dissipando sia la colpa, sia la vendetta. Se questo tramonto ricorrente dà alla vita il suo ritmo di felicità, questa felicità non potrebbe in nessun senso essere meramente personale.

Forse si possono anche discernere nella discussione di Benjamin le condizioni della critica, visto che ci si deve essere già allontanati/e dalla prospettiva del diritto positivo per farsi delle domande su e per opporsi alla violenza attraverso cui esso raggiunge la sua legittimazione e il suo potere di autopreservazione.

Il diritto legittima la violenza compiuta in nome della legge, e la violenza diventa il modo attraverso cui il diritto instaura e legittima se stesso. Questo circolo si rompe quando il soggetto si toglie di dosso le catene del diritto oppure le trova improvvisamente sciolte o rimosse, o quando la moltitudine prende il posto del soggetto e rifiuta di mettere in pratica le richieste del diritto, lottando con un altro comandamento la cui forza è decisamente non dispotica. L’individuo che lotta con il comandamento è paragonato alla popolazione che sceglie uno sciopero generale, visto che entrambi rifiutano una determinata coercizione e, in questo rifiuto, esercitano una libertà deliberativa che da sola serve come base per l’azione umana. Benjamin nota come “una concezione così rigorosa dello sciopero generale”, specialmente quando l’esercito rifiuta di fare il suo lavoro, “sia di per sé atta a ridurre l’impiego effettivo di violenza”. (30)

Anche se si considera lo sciopero come un’azione contro lo Stato, in realtà esso è, come osserva Werner Hamacher, un’omissione, (31) un mancato mostrare, adempiere, sostenere, perpetrare la legge dello Stato. Se questo rifiuto di agire è esso stesso violento, allora è diretto contro lo stesso imperativo ad agire, un modo per sollevare il diritto dal suo potere e dalla sua forza nel rifiutare di istituirlo continuamente, nel rifiutare le ripetizioni della messa in pratica attraverso cui il diritto preserva e instaura se stesso come legge nel tempo. Il diritto può “fallire” e fallirà, il diritto avrà il suo tramonto e questo legherà tale azione con la dissoluzione di ciò che è esistito storicamente in nome di un tempo nuovo e diverso, un “rovesciamento”, come dice Benjamin. Offrire una critica significa interrompere e trasgredire il potere che conserva il diritto, rifiutarsi di essere complici del diritto, occupare una criminalità provvisoria che manca di preservare il diritto e pertanto intraprende la sua dissoluzione. Il fatto che il saggio di Benjamin si concluda in modo così brusco potrebbe essere inteso come una sorta di fine improvvisa, quale potrebbe essere l’operazione stessa della critica modellata su una dissoluzione e un rovesciamento che trasgrediscono il tempo teleologico.

Provate a immaginare che Apollo e Artemide dicano alla loro madre di calmarsi e si rifiutino di obbedire al suo ordine, o che l’esercito, rifiutandosi di stroncare uno sciopero, di fatto si metta in sciopero esso stesso, deponga le armi, apra i confini, si rifiuti di sorvegliare o di chiudere i posti di blocco, e che tutti/e coloro che ne fanno parte siano sollevati/e dalla colpa che mantiene al loro posto l’obbedienza e la violenza di Stato, e che anzi siano spinti/e a trattenersi dall’agire dal ricordo e dall’anticipazione di così tanto dolore e sofferenza; e provate a immaginare che questo avvenga nel nome dell’essere vivente.

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* Butler, Critique, coercion, and sacred life in Benjamin’s “Critique of Violence”, in H. de Vries, L.E. Sullivan (a cura di), Political Theologies. Public Religions in a Post-secular World, Fordham University Press, New York 2006, pp. 201-219.

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  1. Le citazioni fanno riferimento alla traduzione italiana di Renato Solmi, Per la critica della violenza, in W. Benjamin, Opere complete, vol. I: Scritti 1906-1922, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, edizione italiana a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2008, pp. 467-488, con alcune modifiche che vengono di volta in volta indicate. Le citazioni in tedesco sono tratte da Zur Kritik der Gewalt, in Gesammelte Schriften, sotto la direzione di Th.W. Adorno e G. Scholem, a cura di R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1977, vol. II, tomo I, pp. 179-203.
  2. La parola che Benjamin usa per “fato” è das Schiksal che si traduce in inglese più propriamente con “destiny”. [Invece che con “fate”, il termine che usa Butler in inglese, N.d.T.
  3. Rosenzweig sostiene che il comandamento rappresenta uno sforzo orale e scritto da parte di dio per sollecitare l’amore nel suo popolo (La stella della redenzione, 1981, a cura di G. Bonola, Marietti, Casale Monferrato 1985, pp. 230-232). Il fatto che Rosenzweig si concentri sull’amore corrisponde agli sforzi in atto all’epoca per rivitalizzare la dimensione spirituale dell’ebraismo in contrapposizione alle riforme rabbiniche che si concentravano invece sull’elaborazione di regole e sulla scienza della loro interpretazione. L’interesse che Rosenzweig aveva per l’ebraismo come movimento spirituale lo portò a sostenere che il popolo ebraico “deve proibirsi quella forma di soddisfazione che i popoli del mondo trovano costantemente nello stato” (ivi, p. 355). Egli sosteneva inoltre che “lo stato è il tentativo che è necessario rinnovare incessantemente, di conferire eternità ai popoli nel tempo” (ibidem). Perché tale eternità venga assicurata, tuttavia, le nazioni devono essere perpetuamente rifondate, oltre al fatto di richiedere la guerra per perpetrare se stesse. Nella visione di Rosenzweig la vita è costituita dalla preservazione e dal rinnovamento. Il diritto emerge come antitesi della vita nella misura in cui istituisce una durata e una stabilità che opera contro la vita e diventa la base per la coercizione dello Stato. Egli cercò di intendere l’ebraismo come qualcosa che va al di là delle contraddizioni che affliggono le nazioni, e dunque di distinguere l’idea del popolo ebraico da quella della nazione ebraica.
  4. Per una testimonianza del rapporto irrisolto che Benjamin aveva con il sionismo, cfr. il carteggio tra Benjamin e Scholem dell’estate 1933, in W. Benjamin, Lettere, 1913-1940 (1966), raccolte da G. Scholem e Th.W. Adorno, trad. di A. Marietti e G. Backhaus, Einaudi, Torino 1978.
  5. Cfr. J. Derrida, Forza di legge (1994), Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 88.
  6. H. Arendt, Sulla violenza (1970), Guanda, Parma 2008.
  7. Benjamin associa l’espiazione e il castigo con il mito sia in questo saggio sia in molti altri saggi dello stesso periodo. Contrappone anche chiaramente l’operazione della critica al mito che, dal suo punto di vista, fa guerra alla verità. Cfr. per esempio “Le affinità elettive” di Goethe, scritto tra il 1919 e il 1922 (trad. di R. Solmi, in W. Benjamin, Opere complete, cit., vol. I, pp. 523-589).
  8. W. Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 484.
  9. Ivi, p. 480.
  10. Sempre nel 1921 Benjamin parla dell’“incommensurabile significato [del] giorno del giudizio, quel giorno incessantemente spinto avanti che dall’ora di ogni crimine così costantemente fugge nel futuro. Questo significato non si schiude nel mondo del diritto,dove domina la rivalsa, ma solo là dove ad essa si fa incontro il perdono, nel mondo morale. Il perdono però, per combattere contro la rivalsa, trova la sua poderosa strutturazione nel tempo. Infatti, il tempo, nel quale Ate insegue il malfattore, non è la solitaria bonaccia dell’angoscia, bensì la sonante bufera del perdono che precede mugghiando il giudizio sempre imminente, contro il quale non può nulla. Questa bufera non è soltanto il suono entro il quale svanisce il grido d’angoscia del malfattore, è anche la mano che cancella le tracce del suo ‘crimine’, dovesse pure devastare per questo la terra” (Il significato del tempo nel mondo morale, 1921, in Sul concetto di storia, a cura di G. Bonola e M. Ranchetti, Einaudi, Torino 1997, pp. 280-281). Il perdono, che si può intendere comunemente come una capacità che si acquisisce attraverso la riflessione dopo che le passioni si sono acquietate, viene raffigurato qui come una bufera, una tempesta che ha una mano e una voce, e quindi una forza divina, ma non una forza divina basata sul castigo. È importante il fatto che questa tempesta del perdono costituisce un’alternativa radicale all’economia chiusa dell’espiazione e del castigo. Per un’ulteriore discussione della questione del perdono in Benjamin rimando al mio Beyond seduction and morality: Benjamin’s Early Aesthetics, in D.Willsdon, D. Costello (a cura di), The Life and Death of Images: Ethics and Aesthetics, Cornell University Press, Ithaca (N.Y.) 2008.
  11. W. Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 485.
  12. Id., “Le affinità elettive” di Goethe, cit., p. 535.
  13. Id., Per la critica della violenza, cit., p. 485 (traduzione modificata).
  14. Ivi, p. 469 (traduzione modificata).
  15. Ivi, p. 485.
  16. Ivi, pp. 485-486.
  17. Ivi, p. 486.
  18. Ibidem.
  19. Ibidem.
  20. Ivi, pp. 486-487 (traduzione modificata).
  21. Ivi, p. 487 (traduzione modificata).
  22. Ibidem (traduzione modificata).
  23. Theologisch-politisches Fragment, pubblicato per la prima volta in W. Benjamin, Schriften, a cura di Th.W. Adorno e G. Adorno, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1955, vol. I; trad. di G. Agamben, Frammento teologico-politico, in W. Benjamin, Opere complete, cit., vol. I, pp. 512-513 (cfr. anche la trad. di A. Sciacchitano, “aut aut”, 328, 2005, pp. 51-52).
  24. La motivazione del comandamento si dovrebbe trovare non più, scrive Benjamin, “in ciò che l’azione fa alla vittima, ma in ciò che essa fa a Dio e a chi la compie” (Per la critica della violenza, cit., p. 486, traduzione modificata).
  25. Id., Frammento teologico-politico, cit., p. 512
  26. Ibidem.
  27. Cfr. le note di Benjamin sulla “potenza critica” in Sull’“apparenza”, scritto nel 1919-1920 (trad. di A. Moscati, in W. Benjamin, Opere complete, cit., vol. I, p. 597) e in “Le affinità elettive” di Goethe, cit., p. 563.
  28. Benjamin scrive che “rimane in ogni lingua e nelle sue creazioni, oltre il comunicabile un non-comunicabile”, cosa che egli definisce come “il nucleo della pura lingua stessa” (Il compito del traduttore, 1921, trad. di R. Solmi, in W. Benjamin, Opere complete, cit., vol. I, p. 509).
  29. W. Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 480
  30. Questa frase è stata omessa nell’edizione da cui cito, ma si trova in quella contenuta in W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962, p. 20. [N.d.T.]
  31. Cfr. W. Hamacher, Afformative, strike, trad. di D. Hollander, in A. Benjamin e P.Osborne (a cura di), Walter Benjamin’s Philosophy: Destruction and Experience, Routledge, London 1993, pp. 110-138

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