La presentabile assenza nella poesia di Martina Campi

Martina Campi

Di SONIA CAPOROSSI *

Come il lettore saprà, differànce è un neologismo derridiano comprensivo di una duplice accezione dotata di circolarità ermeneutica: in questa parola vige infatti il senso del rinviare, del rimandare e del prendere le distanze dalla presenza dell’assenza, dal logocentrismo baroccamente ricolmo di sensi e significati, dalla supremazia dell’essere-presente-del-soggetto. Contemporaneamente, se il segno differisce sempre da ciò che esso sostituisce, tra il textus e l’essere sostituito, ovvero l’essere a cui il textus rinvia, c’è questo scarto indecidibile che, sul piano ermeneutico, rappresenta lo scivolamento semantico continuo e irrefrenabile, la potenza immane della molteplicità dell’interpretazione a cui non solo non si può, ma non si vuole porre rimedio. La differànce, così, semplicemente, accade: è un eventum, un essere che è anche, insieme, un darsi delle cose all’emergenza del senso, ma senza forzature.

Nella poesia di Martina Campi, la significanza slitta perpetuamente nella differanza, oltre la barriera contenitiva della pertinenza semantica, e lo fa senza i clamori e gli effetti speciali della poesia di ricerca più rumorosa e autoevidente, bensì, tramite l’espediente quieto e dimesso della pura e semplice evocatività. La relazione intercorrente tra la destinazione dell’essere e il linguaggio, ancora in senso heideggeriano/derridiano, contrariamente a quanto accade in altre scritture di ricerca, in Campi è vissuta nel momento della sua minore tensione di crisi, nella resa oggettiva di sequenze tipicamente liriche, ovvero di tipo descrittivo/riflessivo, che utilizzano peraltro un linguaggio assolutamente normofasico; ciononostante, questa resa oggettiva non abbandona mai il flusso dell’in-coscienza, l’attitudine speleologica della profondità; solo, l’habitus e la pratica dell’io si spostano altrove, o più precisamente, in un altro-dall’-io. Si tratta, ad ogni modo, di un altro-dall’-io dialogico, che a volte riemerge nel noi, un noi che, però, vive a sua volta all’interno di una dimensione esperienziale, deborda dai confini dell’auto-evidenza e si disperde nell’atomizzazione dell’identità collettiva, e poi, via via, nella dissipatio, nella volatilizzazione identitaria, nella parcellizzazione della percezione assoluta dell’esserci.

() Partitura per riga bianca è un libro concepito come una sorta di de-scrizione musicale dell’absentia, un’inchiesta filosofica sull’alterità dell’identità, un circolo delle quinte della sospensione analogica del dire, che riflette l’indagine formale dell’autrice sul secolare problema dello slancio oltre la siepe dell’immaginazione. Alcune poesie terminano con un rimando testuale ad altri artisti, poeti e musicisti, in un circolo in cui, per citare Gadamer, «ciò che si deve comprendere è già in parte compreso». E in effetti, il lavoro poetico di Martina Campi potrebbe essere definito come un processo di avvicinamento, sempre incompiuto nel suo dirsi e nel suo darsi, alla formulazione di un metalinguaggio poetico ultrasignificante. Una dichiarazione di poetica, in questo senso, è contenuta nel componimento a p. 27, in cui l’autrice nomina «la sede biografica / dell’autodeterminazione linguistica» come ultimo residuo di una presenza evanescente, che ancora «ronza nella sera tarda / attorno ai materiali / e alle varianti»: come a dire che l’elemento biografico, l’io, l’autore, spariscono sì barthesianamente, e tuttavia non lasciano certo lo sconcerto del vuoto; giacché il vuoto è pur sempre un riempimento d’assenza della pienezza, una presenza dell’assenza nel rinvio, che è, contemporaneamente, un invio, un andar via dell’in-viato e un secondo invio che ri-torna. Si potrebbe dire, quindi, che il tentativo di Martina Campi è quello di scrivere testi in cui gli elementi deittici subiscano un indefinitorio shifting in virtù del quale la percezione del riferimento extralinguistico sfumi al di là dei referenti. Ho definito altrove col termine fuzzy questa modalità della poesia di Martina Campi, che consiste nell’«accostamento di labili nessi posti tra le immagini di volta in volta scelte per evocare un senso aggiunto alle parole versificate». Questi nessi, che potremmo definire legature o partiture dell’indicibile, «creano un ponte metasemantico tra le parole e le cose designate con esse, in direzione del superamento di qualsiasi univocità di pensiero e di qualsivoglia riferimento immediato»[1].

Nei libri precedenti, tale inesorabile allontanamento dalle pastoie autoreferenziali dell’io come chiave di interpretazione del reale era stato declinato diversamente: pre-essente come mediatezza comunicativa in Cotone e in Estensioni del tempo, pre-sente nella liriconarrazione autobiografica di La saggezza dei corpi, in Quasi Radiante l’io si faceva puro shining e riluceva di trasfigurazione diafana, dileguando di già nella trasparenza delle cose e nell’assenza. Ma è in () Partitura su riga bianca che la persona si riduce a mero dispositivo protesico, a semplice macchina del dire il cui motore non è assiomaticamente e aristotelicamente immobile bensì è, a sua volta, mosso platonicamente da altro. Ancora con Derrida, per Martina Campi la prima triade logica è come soggetta a un’inversione in cui il divenire viene prima dell’essere e del nulla, tesi e antitesi non si risolvono in esso, ma è proprio il divenire il fondamento decostruttivo della realtà in mutamento, il principio dell’assenza e del vuoto, il fondamento della possibilità d’esperienza in genere. Proprio per questo, è nel divenire de-personalizzato (e non altrove, o per meglio dire, in un certo senso sempre altrove) che si rivela e ri-torna la possibilità del soggettivo. In questo senso, le due parentesi che si aprono e si chiudono anteposte alla parte testuale del titolo potrebbero rappresentare proprio la soglia dimensionale oltre cui l’essere accade, diviene.

Eppure, in questa presa di coscienza del nulla che è tutto, non ci si perde mai nell’iperuranio fine a se stesso e non viene mai a mancare l’appercezione materiale delle cose: «La fascia di luce si estingue sul niente /  nel tempo in cui si aspetta / il vuoto in arrivo a lasciarsi portare / come un’infezione portare / dove non auspichi e sfumare, anche se / non è mai piaciuto, o ballare /  solo perché qualcuno dice /  che sei vivo, intorno a un fuoco / calmo, quando viene a cedere / il ginocchio sul niente che ruota / al posto suo e intanto li strappa, / i pantaloni»[2]. Questo strappo nei pantaloni è una fenditura da cui sporgersi per mutare prospettiva, una natural burella che lascia agire lo squarcio appercettivo del mondo, con le sue concrezioni visive, spaziali, temporali, con i suoi oggetti, le sue vite, le sue mutazioni.

Abbiamo detto che nella poesia di Martina Campi c’è un io declinato come assenza; e c’è spesso anche la natura, ma non si tratta mai di un puro e semplice correlativo oggettivo in senso tradizionale: sono descritte, sentite e nominate le cose; ma si tratta di cose che non possono essere cercate e trovate se non, di nuovo, nell’attesa, nell’istanza dell’essere appesi, nell’epoké («dove sono le cose / tutte in un momento / e tutte nel momento / sapere solo intanto generico / niente, saperne aspettare»[3]).

Per Martina Campi, la verità delle cose non si può dire e non si può non dire, è indicibile e indecidibile, ma anche, nello stesso tempo, irrinviabile: non si può stabilire una volta per tutte quale e cosa sia, ma non la si può nemmeno differire, solo differare: è nel rinvio che non ri-torna il circolo ermeneutico in cui la verità delle cose si fa spazio nel vuoto. E allora, anche il pensiero si fa super-fluo, un fluire in superficie che rende ultracosciente la molle sagomatura dello spazio e del tempo, tale che quasi non serve «nessun pensiero al dopo / (ciò che avviene davvero) / come buttarsi in un’ipotesi / uno specchio / perdere la lingua / al chiudersi stentato degli occhi / un po’ calando / la spigliatezza»[4].

Per gettare un ammicco verso uno degli indizi ermeneutici sparsi dall’autrice in tutta la sua produzione, una notazione finale sul colore bianco mi sembra doverosa: è anch’esso ricorrente, in modo quasi ossessivo, nelle opere precedenti e presente, fin dal titolo, anche in questa. Il Cotone raffinato è bianco, le sale d’ospedale di La saggezza dei corpi erano dipinte di un bianco stordente, in Quasi radiante il bianco barbagliava di luce. Qui, la partitura del linguaggio si esprime nella sospensione sulla riga bianca, che attende di essere incisa dal solco della notazione musicale del verso. Il bianco è il colore che sorge per addizione di tutti gli altri colori dello spettro visibile. Come a dire: un’assenza presentabile, un pienissimo essere vuoto.

Del resto, cos’è che faceva il poeta? Alba pratalia araba: è «il ruolo dei colori e dei suoi emblemi»[5].

* Prefazione a Martina Campi, Partitura su riga bianca, Arcipelago Itaca 2020.

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[1] S. Caporossi, La trasparenza oltre il velo delle cose nella poesia di Martina Campi, postfazione a M. Campi, Quasi Radiante, Tempo al Libro, Faenza 2019, p. 97.

[2] P. 35.

[3] P. 60.

[4] P. 45.

[5] P. 27.

 

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