“Potenza del gatto che stanotte non mi fa dormire”, un racconto inedito di Salvatore Enrico Anselmi

Rosella Pizzardi, “Gatto che dorme”, pietra dipinta

Di SALVATORE ENRICO ANSELMI

Potenza del gatto che stanotte non mi fa dormire…

«Gatto: piccolo mammifero domestico, felino con naturale istinto per la caccia, che sia contro un topo, una lucertola, un coniglio, una mosca o un qualsiasi altro essere che si muove. È allo stesso tempo predatore naturale per sorci di pezza, con muso di spago e occhi abbottonati alla stoffa avanzata dall’orlo dei pantaloni, palline di carta e di gomma, maniche di maglione, gambe in movimento davanti a lui, succulente da assaggiare appena e rimandare indietro in cucina con superiore inappetenza».
Il gatto domestico simula di essere stato ammaestrato dal suo padrone.
In realtà termine più improprio non esiste per definire l’uomo che ha il privilegio di tenersi in casa un quadrupede peloso ed elastico come una fionda.
Anche la parola proprietario non si addice a quello strano gatto bipede che si agita di continuo, non si lecca, vorrebbe imporre regole che, osservate da una certa bassezza, attraverso iridi cangianti e smerigliate, assumono l’aspetto di astrusi rituali.
La belva minuta usa uno spruzzo di coda, un interrogativo lungo e tigrato, un’appendice quasi prensile, interprete del suo stesso umore, loquace come se sapesse parlare. La usa come remo, bussola, come asta d’equilibrio per l’atleta che cammina a filo di muro, sul cornicione dei suoi pensieri e dell’istinto temerario che vuole salutare il limite, il rigo tracotante, con un salto fino al ramo esile e apicale dell’albero dal quale non sa più scendere e per scendere deve lanciare l’allarme ai pompieri.
Il gatto filosofo scruta il sole contro luce con occhi vitrei, medita sulle stagioni e sulla primavera in arrivo anche quando gli altri pensano sia ancora inverno.
Emette un verso gentile contro il latrare sguaiato tutt’intorno.
Silenzioso irride il grugnito del mondo che non lo convince, che non l’ha mai convertito e non riuscirà a farlo neanche questa volta. Al vaneggiare degli uomini che smuovono i piedi in «questo deserto che chiamano Parigi», che chiamano esistenza, risponde con mite languore e si volta ancora di spalle, composto a gorgo, frittellato a ciambella, disteso per lungo, contratto nella follia della caccia domestica contro l’ombra di un tavolo.
Pigro, sbadiglia e si volta ancora dall’altra parte. Sopravanza in lui la noia e, mentre annusa l’aria col naso umido, crede che troppa cura e un’infondata preoccupazione attraversino l’encefalo poco evoluto dell’uomo.
Il gatto padrone di casa si piazza in mezzo alla stanza squadrando con tono di sfida i commensali intorno come se fosse stato lui in persona, con le sue stesse zampe feltrate, a impastare la calce che è servita per imbiancare i muri, come se fosse stato lui a spingere col muso fino al cantiere i mattoni e le pietre. Si piazza al centro, idolo notturno e serale, letargico dormiente durante tutto il giorno, affamato e pazzo per una pelle di pollo e una coda di pesce, pronto a rubare e spergiurare, innocente truffatore, mistico asceta senza aureola.
Il gatto timoroso scruta, da dietro lo spigolo, la gente che ha invaso senza invito la sua casa. Occhieggia con iride verde di bile, attraversato da una smorfia, sofferente e vecchio di cent’anni, gli umani cialtroni che mangiano sul suo tavolo, seduti sulle sue sedie e sul divano. Contrae il muso pensando a quanti sconosciuti, dei quali non ravvisa l’odore, abbiano conquistato il suo territorio, e singhiozza distrutto dal dolore, come può fare un gatto. Si lamenta piano come un pazzo al quale abbiano pestato la coda e l’orgoglio.
Il gatto lettore si appoggia con devozione sul libro aperto, simulando sprezzatura per i filari d’inchiostro, stesi a fasce parallele sui campi invernali ricoperti dalla neve. Si liscia il pelo contraendo gli occhi bistrati e, come se questi fossero ideogrammi, traccia virgole ridenti e forma elici ripiegati.
Sornione, appunta le unghie a uncino sulla copertina baciandola a sfioramento di baffi. Senza saper leggere. Erudito ignorante, dotto insipiente, puro come un bambino e saggio come un pensatore con anni e solchi d’esperienza.
Il gatto accattone rimane inzuppato fino alle orecchie, impiastrato di catrame, ispido e contratto sotto una tettoia sbilenca, di fortuna, sospesa su un angolo di muro. Ceffo da bassifondi, in preda ai fumi dell’astinenza da cibo, gorgheggia rauco disinteresse per quanti non gli procurino qualcosa da mangiare, e torna indietro a occupare la sua stanza d’albergo dentro al cofano di una macchina appena parcheggiata.
«È ancora calda!».
Se un passante lo chiama pur non avendo alcun regalo per lui, il gatto senzatetto lo cogliona e gli risponde: «Ma che vuoi? Guarda dove metti i piedi, cretino! Stai bagnando le tue belle scarpe nuove nella pozza dove prima ho bevuto e dove l’amico mio, questo dentro al motore, poco fa c’ha pisciato!»
Il gatto in amore salta sulla grondaia del tetto e miagola tutta la notte con l’insistenza di un bambino petulante che vuole e vuole e continua a volere finché la madre non lo tira su dalla culla per fargli bere latte tiepido e carezze.
Fa la posta all’innamorata.
Per cento notti e cento giorni sotto il suo balcone, immobile e fiero, certo e compito della sua certezza, che alla novantanovesima notte la bella s’affaccerà.
Forse lo troverà freddo come un morto, bagnato dalla pioggia, o forse cotto dal sole, senza più ragione, deriso dai piccioni che gli avranno defecato addosso, consigliato di desistere, di andarsene, di lasciarla perdere, «quella smorfiosa che neanche ti fila e che nel quartiere tutti dicono che se la fa col gatto rosso del quarto piano. Quello sì che è un buon partito, padrona che lo ingozza e cestino morbido dove dormire, sempre vicino al fuoco».
Potenza del mio gatto che stanotte non mi fa dormire…
Il mio gatto era piccolo e scuro dentro una grande scatola di cartone appena arrivato a casa. Riempiva appena due mani, stese a conca per sostenerlo, e sembrava pigolare invece che miagolare. Aveva baciato la madre e i fratelli prima di salutarli lasciandosi leccare più volte sulla testa tigrata, per il mansueto commiato definitivo.
È arrivato un pomeriggio, in primavera, regalo di una gattara di città che parlava a lungo con gli animali e poco con gli umani, più con Ofelia e i suoi quattro mici, che col marito pittore alla moda il quale, destreggiandosi tra i salotti della Roma bene e un’attrice americana in crisi d’astinenza, l’aveva cornificata per tutta la vita.
L’aveva battezzato Lucio ma il nome così umano era un po’ inquietante. Non a caso all’appello della stessa nidiata rispondevano anche Desdemona e Otello.
Scelsi il nome Lillo, un nome breve e gioviale, come un cane biondo di pelouche che avevo da bambino.
A pelo più lungo dei soriani tigrati, forse con qualche persiano nell’albero genealogico, aveva ricevuto una livrea striata di terre bruciate che s’incupivano fin quasi al nero della coda e delle zampe, compresi i polpastrelli. Il fondo ocra formava sotto la pancia un cordolo che lo attraversava in lunghezza. Era robusto e slanciato allo stesso tempo, occhi gemmati che trascoloravano dal grigio, al giallo-verde. Un perfetto idolo orientale, silenzioso ascoltatore ma anche loquace e bizzoso come sono i gatti.
Lillo era diventato mio fratello.
Eravamo figli dello stesso padre e della stessa madre.
Eravamo figli della stessa madre alla quale si rivolgeva da piccolo per saltarle in braccio tutta la sera e rimanere con quella che doveva sembrargli una sorta di genitrice putativa affettuosa e sufficientemente credibile. Le fece compagnia sul letto per tutto il tempo di una convalescenza a casa dopo una caduta. Ancora inesperto scalatore, s’avvinghiava con le unghiette lucide sulla trapunta imbottita color verde bosco e rami blu. Facendo attrito sul tessuto spesso, aiutandosi con artigli e zampe posteriori, mostrò da subito coraggio e determinazione.
Scalava la montagna, ogni volta in meno tempo e con più determinazione. Ci sembrò un modello da seguire.
Eravamo anche figli dello stesso padre, quello che lo scortava ogni settimana in campagna percorrendo il tragitto da casa all’auto col pazzo tigrato accovacciato sulle spalle.
Durante il primo inverno trascorso insieme fummo costretti a restituirlo periodicamente alla libertà, dopo che il forsennato aveva cominciato a ululare, come un’anima posseduta, sospeso in bilico inastabile alla maniglia della porta d’ingresso.
Osservando l’andirivieni dei bipedi, aveva capito che da lì si entrava e si poteva uscire. Era quello il viatico verso la libertà. In quanto tale, per una settimana intera, era diventata l’unica vera ragione della sua ansimante vita di cucciolo ormai quasi adulto, lo schiudersi effimero e sempre controllato dagli uomini verso la libertà e l’avverarsi dei richiami che cominciava a catalogare nella loro inequivocabile natura. Una miscela di odori, rumori, la percezione di un sottobosco vitale, di un’organica e atavica comunità di animali della terra e dell’aria che popolavano la natura vicina e visibile.
Cominciò un rituale che sarebbe rimasto sempre lo stesso. Tutte le volte lo stesso teatrino.
Il micio rugava, miagolava in esasperazione e preghiera, salutava nostro padre di ritorno dal lavoro e non lo abbandonava più, strofinandoglisi addosso per impregnarlo in modo inequivocabile del suo odore, finché non lo costringeva a farsi caricare in macchina. Guidavano quasi insieme. In quel periodo non era ancora obbligatorio trasportare gli animali dentro quelle valigie traforate e con maniglione superiore.
Il solo viaggio di andata era uno spettacolo meritevole di essere osservato almeno una volta.
Il felino, impazzito, saltava da un sedile all’altro, controllava il tragitto e lo riconosceva, annusava l’aria dal finestrino appena abbassato, cercava di infilarci il muso senza riuscirci e si accontentava di rimanere ancorato con i baffi mezzi fuori e mezzi dentro.
Rassicurato infine si appoggiava al lunotto posteriore sbattendo a intermittenza la coda.
Quasi giunti a destinazione ricominciava ad agitarsi come un forsennato.
La macchina inchiodava, lo sportello veniva aperto e il pazzo balzava fuori come se non avesse mai avuto casa e famiglia borghese.
Smessi i panni del gatto domestico, li ripiegava con cura e faceva sgorgare liberamente la sua natura autentica.
Accanto alla livrea compita di gatto che aveva simulato l’addomesticamento, riponeva anche le buone maniere apprese in città e rivendicava il diritto di cacciare libero per i campi, di mettere su una famiglia quadrupede e di crearsi una comunità allargata della quale rimase per lungo tempo il maschio dominante. Aveva conquistato quel ruolo dopo aver spodestato il suo predecessore, un gigantesco gatto certosino, brutale, occhi gialli e pelo corto cinereo.
A casa Lillo tornava periodicamente dopo vacanze di circa otto, dieci giorni ogni volta. Si presentava all’incontro quasi sempre puntuale. Lo chiamavamo a gran voce, suonavano il clacson, agitavamo la scatola dei croccantini il cui rumore gli era noto sin dai primi giorni trascorsi con noi. Erano quelli i momenti di attesa più lunga, del cuore in gola affinché quello potesse essere ancora un appuntamento a cui rimanere fedeli. Ogni volta scelse anche di continuare a essere nostro fratello.
Appariva dalle colline circostanti una radura scoperta o dal sentiero che portava all piazzola e al fontanile dove lo aspettavamo sempre. Talvolta caracollava stanco, talvolta correva come un piccolo giaguaro miagolando fino a diventare rauco, per essere sicuro di farsi avvistare come per dire – «Eccomi, sono qui! Aspettatemi sto arrivando! Il tempo di superare il fosso e il canneto. Saluto moglie e figli, con un salto ci sono».
Festeggiava il nostro arrivo, saltando da uno all’altro come il gatto prodigo ritornato alla casa del padre.
Infilati di nuovo i panni cittadini, dormiva profondamente, e mentre dormiva sognava. Inseguiva simili e prede, tremava e sbuffava.
Mangiava senza ritegno, qualche volta fino a vomitare tutto quanto aveva ingurgitato da incosciente, a pezzi giganteschi e indigeribili.
Guardava la televisione steso sulle gambe di mia sorella, mi riempiva sonoramente di graffi quando esageravo col gioco, impazziva per le palline fatte su con il nastro adesivo. Gliele tiravamo in corridoio. Al rimbalzo della palla si appiattiva e si contraeva come una molla che gli avrebbe consentito un allungamento inverosimile e uno slancio potente. Fremeva, tremava, strabuzzava gli occhi, ingrandiva le pupille a dismisura rimanendo quasi senza iridi. Era capace per ore di replicare l’affondo, la contrazione, il salto e la rincorsa.
Nel gioco era sincero e generoso.
Entrambi stremati rinunciavamo alle prede di carta appallottolata, alle corse in corridoio e ci consolavamo io con una bibita fresca, lui con l’acqua dalla ciotola, per poi andare a dormire alla fine delle ostilità il sonno del giusto, percorrere vallate iridescenti di piante spontanee e abbondante selvaggina.
Confido che ora si trovi lì, sulla parte alta della collina che domina la radura.
Credo ci arrivi ancora accompagnato da mio padre, tornato bruno e giovane, che presta le sue spalle al pazzo accovacciato il quale lo bacia e lo impregna del suo odore.

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