“Il villaggio dei morti”, racconto inedito di Gianluca Garrapa

Di GIANLUCA GARRAPA

Oltre il muro di cinta aguzzo in cima di sbreghi di cielo – capovolto desiderio di nebbia che scivola insinuante tra le fessure inconcludenti della coscienza che non sa mai dove finisca lo sguardo e l’oggetto che preme sui sensi, avvolgendo di pregnante fragranza di tiglio, all’inizio d’estate, la percezione del limite tra dentro e fuori – esiste ancora lo scheletro di un albero di fico parsimonioso ormai di rami e foglie, che violentemente tenace rimanda a un confuso e ubertoso periodo della mia esistenza nel villaggio dei morti.Il corteo funebre, uno degli ultimi, passò di lì, lento e silenzioso, i figuranti mimavano il loro cordoglio.

Ondeggiava precisa e tentacolare una folta edera comune che il ricordo e il ripasso – attualmente la fortificazione verde, rampicante incurante del gelo e ghiotto pasto di uccelli, è secca, smarrita, ha ceduto al muro inorganico, si è ritirata nella sua naturale vecchiaia e morte – rende poco comune e anzi, l’immagine impressa nella mia mente di api nella calda stagione dei lidi, l’immagine di rampicante forte e tenace, rigogliosa come un cielo ovattato di nuvole tante e assalite dal sole, ha smesso di ossessionare i miei incubi.Non tutto attecchisce. E spuntano allodole, dove le rose vorrebbero spine, alberi di arcobaleno e zucchero negli anfratti cespugliosi di un cimitero abusivo di auto, un grosso pensiero laddove la noia tradizionalista e violenta gradirebbe un silenzio omertoso, una spiaggia fatta di cristalli liquidi su una scogliera deturpata dal suono schifoso di una discoteca, innevata di coca, mafia, e buoni propositi. Quel che qui non alligna muore, o germoglia, altrove, nella città dei morti, dove il corteo è diretto.

Lei, perciò, mi chiamò prima che potessi eludere l’orizzonte teso tra i due edifici, lei s’era sporta dall’ultimo piano dell’edificio a sinistra. E scivolò giù. Planando come una foglia di tiglio in uno slancio suicidale.
«Perché mi fissi in quel modo?»
«Scusa… pensavo altrove e t’immaginavo diversa.»
«Diversa da chi?»
«Una domanda complicata… sei scivolata giù dal decimo piano nell’ora in cui il tramonto cristallizza il tempo… e eccoti foglia.»
«Ma come parli?»

Fermo davanti all’inferriata dell’ampio giardino baronale, attonito, volatilizzando il pensiero ai secoli passati, e le membrane cirrose del cielo scacciavano suoni oscuri tra le fibre complesse degli alberi, rododendri e viole del multiplo pensiero più in là. Il cane a guardia del cimitero improvviso di tronchi – un nero mastino vorace che butterava l’aria di bolle sonore, il ringhio degenerò in linguaggio, pianse nel soccorrere il mio stupore e empatico si allontanò guaendo, tornando in sé, nel suo cuore notturno di guardia allo sfacelo del mondo.Il corteo riprese a muoversi – poco largo quel tratto di provinciale che sbafa ciuffi di erba e pozzanghere sempiterne in cui il cielo vibra di tramontana iridata di petrolio, lappato da enormi casermoni eccentrici, plastica e eternit – dopo che la mano batté due colpi secchi sul fianco del feretro. Non vi era che il tramonto. Accanto a me, lei, non più foglia ma candida pagina di giornale intonsa, stretta al mio braccio. Proseguimmo mesti, sebbene da alcune ore una fastidiosa serenità mi avesse occupato l’animo. Lei mi fece notare che non potevo attardarmi ulteriormente e che se avessi temporeggiato, lamia luminescenza sarebbe rimasta bloccata qui. Non capivo se qui su questa pagina o cosa…

Più avanti, una voce fatua – il fantasma delBarone che qui, nella dimensione terrena, volle esitare per orgoglio e l’indugio superbo lo trasformò in fluida pietra – dalle mura del vecchio palazzo, prese forma di lunga bocca estrudendosi dalla facciata: percepiiil mio corpo avviluppato dalla pietra odorare di muschio in quel perenne tramonto che non decideva a scemaree cedere il passo alla sera.

Ci lasciammo alle spalle le campagne delle perenni nebbie che al crepuscolo languide lance di luce lugubre affettano, proseguimmo; lei, di nuovo foglia, prima si trasmutò in mormorio, potevo percepirne la sagoma di bocca distorta, poi in alito grigio di vento, si allontanò. La ragione, mi spiegò in seguito, fu l’apparizione improvvisa della Signora Bibliotecaria del Municipio: al carro funebre venne meno la forza di proseguire, il cuore del motore smise di pulsare, avvinto nella nebbia stolida che fuoriusciva dai fiati cancrenosi della Signora. Profonda tristezza e languore altalenante mi spinsero nella bolla temporanea dei giorni di lettura nella piccola biblioteca del villaggio, pagine preste a sfarinarsi e soffiate vie dai foschi aliti dell’ignoranza, vaste sale piene di nulla, in certi punti anecoiche e refrattarie a ogni spiraglio di suono e calore, lame di sole mi penetravano a forza morendo negli angoli bigi di pulviscolo.

«E lei cosa ci fa qui?» le dissi, lasciandomi trascinare dai marmi delle scale verso la sala di lettura principale.
Gli occhi celesti, e i modi gentili e acquosi che ancora s’intravedevano oltre la maschera di rughe, il velo nero della tristezza si sollevò appena dal tomo, sulle cui pagine mani sottili di cancrena poggiavano scheletriche e immobili, affondate nella storia dei Demoni.Provai a avvicinarla ma un improvviso sortilegio mi svelò il sogno e rientrai nel mio corpo, risucchiato nel gorgo di muscoli e ossa che ancora sostavano qui, nel villaggio dei morti. Ebbi però il tempo eterno di vedermi rientrare nel corpo, dolcezza infinita di scorgere il crocicchio e il corteo esile che vi si avvicinava, seguirmi dall’alto della finestra; ebbi facoltà di percorrere, prima di riassumere la visione parziale e miope delle cose, un velocissimo e atroce girotondo caleidoscopico sul villaggio dei morti e riannettervi quel mood tremendamente positivo che gli era proprio ai tempi in cui la carne era viva e florida, le letture non erano ancora percolanti miasmi da rovine di mummie sapienziali e gli introiti ricavati dalle ubertose bellezze dei campi scolpiti nelle gelide primavere a ridosso dei palazzi, lungo intrecci di strade lisce e prive di voragini infernali, conducevano con dolcezza tanto alla morte quanto alla vita, dalle recinzioni delle case piovevano, strenui agli inverni gelidi, i glicini azzurri e i viola rododendri colmavano ombre sulle panchine abitate dai ragazzi e da donne accaldate nelle afose stagioni del mare, filari di alberi, flessuosi al peso di uccelli canterini e per nulla spauriti, inconsapevoli e lievi eravamo adagiati, giovani, tra le collinette tra gli abeti e gli olmi, gli aceri mielati, nei fumi dell’oppio, cullati nei mari di erba negli anni in cui alcun tumore assediava le terre e l’aria era porcellana scivolata tra le dita di un Dio raffinato e galante.

Poi di nuovo lì, precipitai miope, il corteo oltrepassò il crocicchio, laddove una piccola fontanella congelata nel ricordo zampillava ancora virtuali sciami di lucenti idrogeni legati all’ossigeno, e due bambini dal sorriso innocuo – improvvisi spettri malevoli che una forza oscura e superiore, per quanto sensibile e senziente, aveva attirato nel cortile della fabbrica adiacente dove giocavano il giorno in cui il demonio inghiottì i loro aliti – provarono a inchiodarmi lì, affiorando dal prospetto sbiancato come un sepolcro della fabbrica butterata dai venti acidi e le nebbie rosse, fuoriuscendo dalla pietra scurita dalla colla dei manifesti elettorali,cespugli affollati di grilli e lucertole,ramarri discosto sui muri smacchiati dalle maree notturne dei lampioni l’estate, le sere di vento impetuoso, prima dell’immobile nebbia eterna di ora.

Proseguimmo.

Un nuovo stallo:mi parve di avvertirne il contraccolpo da un fuori ultramondano. Il palazzo del cinematografo.
Le immagini mi trassero a quando il silenzio dei luoghi campestri circonvicini adottava tranquille visioni, prive di affannose ricerche, di stancanti peregrinazioni alla conquista di posti dove parcheggiare i bolidi. E per che mai? Tutto così portato alla mano dal buon senso di carriaggi lievi, seppure pesanti di verdure e frutta a zero distanza, e i cieli? Il cielo di ognuno estendeva la propria limpidezza ai rapporti degli esseri, per quanto non mancasse la cattiveria gratuita e il dispetto a mo’ di celia. Ma l’immagine sfumò, e lei mi riprese alla morte perenne.

Il corteo riacquistò lena e avanzava, ora sommersi in traffici di gas e polvere chimica, ci si addossava ai muri, sui marciapiedi stretti, il feretro lì lì per scivolare dalle spalle dei necrofori, al centro del villaggio ancora vivo dei morti, le mani rinsecchite sui volanti, caviglie spinte sugli acceleratori, a sgomitare parcheggi e occasioni, non più nebbia perenne ma un vasto mare verticale di suffumigi tecnologici e virtuali, veloci i cadaveri nel villaggio dei morti, incapaci a sistemare le ossa nelle minuscole case costruite di recente e rimpicciolite ulteriormente per far spazio agli espositori di profumi e parvenze di vita;scollegati i tragitti ai percorsi, distolti gli orizzonti dalle aspettative, e un estenuato corrimano sembrò estroflettersi dalle mura della Piazza dei Morti. Dileguato dalla campagna adiacente l’odore di origano e lentisco, rimpiazzato dal ricettacolo di ombre future, sequel di depressioni e psicosi competitive, giovani corpi simulacri di adulti a esibire il sarcasmo laccato, cemento e catrame, sostanze hi-tech nella libreria digitale nella cooptazione di luoghi di divertissement tossico.
Macchine nebulari intrudevano i corpi. Fantasmi calcificati nei densi boccali del cielo telonato invivibile, immortale, secreto da grosse membrane posticce e lei mi trattenne dal risucchio verso vie ulteriori scavate per il deflusso dei traffici.

Il corteo dissolse il cordoglio tra i banchi della Chiesa di Vetro.Lei svanì, foglia o lanugine di pioppo, oltre i comparti delle canne dell’organo silente il cui suono farinoso, immaginato,mi attraversò, allettandomi verso la cupola ipertecnologica del circo ecumenico, immutabile eco salmastra, levitando nella rassicurante nenia, nel blu: «Non hai più bisogno di me.»

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