So(da)li e civili: Marchesini legge Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio

Matteo Marchesini
Matteo Marchesini

Di LORENZO MARI

Da qualche giorno a questa parte, ho riposto l’agile libretto di Matteo Marchesini Soli e civili (Edizioni dell’Asino, 2012), nello spazio della libreria che gli compete, ovvero tra i testi più cari. Ed è anche appoggiato, di taglio, al capofila della serie dei libri più illuminanti. Perché di questo si tratta: la scarsa novantina di pagine che compone Soli e civili vanta queste caratteristiche. E le sconta.

Dunque, non è piaggeria, o intenzione di schierarsi dovunque e comunque, ma, ecco, dare a Marchesini del “texano” – e, per carità, “nell’accezione di Alain Badiou”…! – come ha fatto Andrea Cortellessa in una nota critica sul Manifesto del 9 agosto mi sembra, perlomeno, un dire parziale e ingeneroso [i].  “L’avversione texana nei confronti di qualsiasi pensiero teorico e di qualsiasi critica accademica” lamentata da Cortellessa non mi pare esserci affatto, nell’autore che ha dato recentemente alle stampe anche un corposo saggio critico sulla poesia italiana degli ultimi anni, dal titolo Poesia senza gergo (Gaffi, 2012).

Sempre di quest’anno è anche Soli e civili, che è un testo caro e illuminante, come dicevo – nonostante, o forse proprio perché, delude le attese, trasformandole in altro.

Nella premessa, infatti, Marchesini scrive: “Non fingerò che una galleria di medaglioni così staccati, così “crociani”, implichi sempre strette affinità interne o evidenti parentele tra le parti. La vera coerenza, se coerenza c’è, sta soprattutto nella scelta di dedicare una speciale attenzione che – a differenza di altri pur da me frequentati e amati – offrono un tipo di nutrimento più alto e prezioso.” (Soli e civili, p. 5)

Subito dopo, però, l’autore passa ad elencare le analogie forti che, in realtà, finiscono per unire saldamente, molto più che isolare, gli autori da lui commentati, disegnando così molteplici fili rossi tra le diverse esperienze di Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio. Seleziono rapidamente i traits d’union che mi sembrano più rilevanti: “Noventa e Fortini sono legati sia dalla concezione del genere poetico – che a loro avviso deve fuggire tanto l’ermetismo quanto la retorica tribunizia, e rimandare sempre ad altro da sé – sia un cocciuto antivirtuismo. Per tutti e due il primo avversario con cui confrontarsi è l’interlocutore più vicino, o addirittura una parte di sé stessi […]. Ancora: Noventa e Bianciardi non smettono mai d’interrogarsi sul rapporto che corre tra le speranze tradite del Novecento e quelle risorgimentali. Infine, c’è un filo che meriterebbe di essere isolato e seguito con ben altra costanza, e che riguarda la riflessione sul rapporto tra stile e società: in modi diversi, Savinio come Noventa, Fortini come Bianciardi hanno in mente una forma più o meno paradossale di classicismo insieme dotto e popolare, da opporre ai profondismi esoterici o demagogici della cultura e dell’arte moderne.” (Soli e civili, p. 6).

Nella prima di queste constatazioni, è evidente come l’autore condivida con Noventa e Fortini l’essere critico e poeta insieme, un’attitudine che oggi, invece d’essere naturale sbocco di una doppia propensione, è ricercata compulsivamente anche da chi non è capace di rivestire entrambe le funzioni (a causa della coazione a pubblicare, diffondere, recensire, chiosare e dibattere, generata da Internet, e in particolare dai lit-blog, nonché dai social network).

Di Noventa e Fortini, Marchesini apprezza anche l’anti-virtuismo, in un’epoca in cui il critico-poeta (o il poeta-critico, che dir si voglia) tende a moraleggiare, anche quando, con un chiaro meccanismo psicologico di negazione, rifiuta ogni moralismo. Così facendo, l’autore non sembra interessato tanto a stigmatizzare la pruderie morale dell’intellettuale, quanto a promuovere un lavoro dell’autocritica ‘mai troppo esercitato’ – per usare un eufemismo. Lo si può evincere, del resto, anche dalla frase immediatamente successiva dell’autore: Marchesini sembra puntualizzare come l’aspetto più odioso del virtuismo sia, in ultima analisi, l’auto-confinamento in una casta intellettuale che giudica il resto del mondo dall’alto, non applicando mai gli stessi parametri e il medesimo rigore a sé e alla propria complicità nella riproduzione del Sistema – che per Marchesini sembra essere, prima di tutto, l’industria culturale, in senso pienamente novecentesco, e francofortese.

L’accostamento Noventa-Fortini-Bellocchio non può neppure dirsi il frutto di una giustapposizione casuale di ritratti, come Marchesini intende suggerire, non senza malizia, nella primissima delle citazioni qui riportate.

Giacomo Noventa, infatti, è descritto spesso nelle vesti di maestro di Fortini, mentre Piergiorgio Bellocchio è individuato come il miglior continuatore, o discepolo, della linea che così, malgré tout, si va producendo. È questo, probabilmente, un segno della militanza che, pure attaccata e circoscritta fino a dimensioni infinitesimali dall’industria culturale, non svanisce, non soltanto negli autori analizzati, ma anche nel Marchesini che è stato già co-autore dell’Annuario di poesia con Febbraro e Manacorda.

E il segno della militanza è l’indicazione della linea fortiniana, da utilizzarsi, in primis, come antidoto strategico verso un certo, montante, pasolinismo di ritorno – anti-estetico, dogmatico e intimamente moralista. Momento decisivo, questo, per Marchesini, in cui il Fortini che si rinchiude nella propria prigione mentale con i Dieci inverni è comunque più ammaliante – per lucidità e chiarezza, nell’eresia – del contraddittorio, ammiccante e pericolosamente ambivalente[ii] Pasolini.

Altra linea che Marchesini segue, senza darlo troppo a intendere, riunirebbe Bellocchio a Fofi, prefatore, tra l’altro, di Soli e civili, nel segno dell’esperienza svanita dei Quaderni Piacentini. Altra ancora sarebbe quella che aggancia il Marchesini critico-poeta, suo malgrado, alle parole sparse di Alfonso Berardinelli, in veste critica, e di Paolo Maccari, in veste poetica. Marchesini li cita senza fornire indicazioni testuali precise, giocando – forse – a mostrare le ‘proprie linee’ e poi a nasconderle; in ogni caso, gli indizi restano patenti…

Proseguendo, risulta precisissimo anche il riferimento a quegli autori, come Noventa e Bianciardi, che hanno saputo produrre una relazione dialettica prolifica tra Novecento e Risorgimento – un momento di sintesi che ancora, dopo 150 anni di unità celebrati l’altroieri, manca al discorso intellettuale italiano d’alto bordo. Insomma, che Aprire il fuoco entri nei canoni letterari di oggi e di ieri (dico io, non Marchesini) e avanti.

L’ultimo dei paragrafetti qui riportati aspira a un ‘classicismo dotto e popolare’ che – forse praticato da alcuni, isolati autori nei decenni passati – oggi sembra essere utopico. Ma, se la fragilità del sogno, nel presente, è abbastanza chiara, se ne colga comunque la vena polemica contro le rotture neo (e neo-neo) avanguardistiche, che sono nate con lo storicismo (tutto accademico) già incorporato, ma ancora non si riescono a riconoscere del tutto come ‘classicismo’ (‘classicismi’). Non tanto il Gruppo 63, quanto la nozione che se ne ha ancora oggi, cinquant’anni dopo. E molto tempo è passato, après le déluge.

Detto questo per quanto riguarda l’impostazione epistemologica del saggio (si aggiunga soltanto, in extremis, l’estraneità a certi discorsi di ampio respiro di Savinio, inattuale ora come allora), le cinque monografie, prese una a una, sono chiare, spesso inappuntabili. La migliore è quella dedicata a Bianciardi, già apprezzata a suo tempo, in versione molto ridotta, sul Foglio. Ebbene sì, sul Foglio, che, come Liberal e Lo Straniero ha ospitato alcuni pezzi di Marchesini poi ri-montati in questo libro – e la polemichetta può avere di nuovo inizio… Anche se non ha direzione né scopo, stante la chiara militanza dell’autore…

I cinque pezzi che-non-nascono-in-modo-facile di Marchesini aspirano, con francescana semplicità, a una profondità di pensiero che, di nuovo, chiama in causa la funzione dell’intellettuale. Funzione, e non ruolo, come ribadisce sempre nelle prime pagine Marchesini, arrivando qui a pungolare certa generazione TQ affannatasi a ricercare visibilità mediatica per l’intellettuale d’oggi, senza prima essersi interrogata sul lavoro culturale da farsi.

Lavoro culturale e quindi – di nuovo – Bianciardi. È qui che a mio parere Marchesini sconta, e sconta in particolar modo i cinquant’anni che ci separano non soltanto da Pasolini (che l’autore ha meritoriamente evidenziato come continuatore ‘minore’ ed ‘eterodosso’ del lavoro contro l’industria culturale avviato dall’Immenso Grossetano… sempre dal pezzo sul Foglio…) o dal gruppo 63. I tempi della scuola di Francoforte sono, almeno in parte, inevitabilmente tramontati. E se Gramsci sale oggi in cattedra questo non è un problema, diversamente da quanto sostiene l’autore, perché, prima di tutto, il salire in cattedra non snatura per forza Gramsci, e poi lo snodo problematico vero riguarda l’avere archiviato Horkheimer e Adorno senza averli completamente attraversati.

Vi è poi il punto che più duole, che non è né vanto né difetto dell’autore. Marchesini si ritrova giocoforza a disegnare i ritratti di cinque intellettuali soli, non per forza contro, ma soli, e ciononostante civili. Tuttavia, le linee, come si è visto, esistono – resistono, sia tra gli autori citati che nell’universo intellettuale di Marchesini. Resistono, poi, in luoghi giornalistici ed editoriali impensabili. E questo fa buon gioco non tanto per il Paolo Nori di qualche estate fa, ma per la consapevolezza intellettuale dello stesso Marchesini, che con il testo Collaborazionismo (nella silloge Sala d’aspetto, Valigie Rosse, 2010) ha definito, con un acume scarsamente ripetuto, da altri la bizzarria della nostra situazione culturale.

Bizzarria, e quasi deserto, dove Marchesini spicca, non tanto contro Cortellessa, contro il gruppo 63, contro i TQ, ma da una posizione altra, che analizza, senza compiangerla (e compiangersi), la propria solitudine e indica in qualche punto fuori dal testo la necessità ancora resistente della solidarietà militante.

Se oggi les nouveaux intéllos précaires si dibattono nella mancanza materiale d’aria e di spazi, Marchesini fornisce, per il momento, una preziosa cronistoria intellettuale del Novecento italiano.

Invita a ripartire.


[i] Per non parlare poi di uno degli snodi principali della questione, toccato da Salvatore Fittipaldi in una conversazione Facebook a proposito del pezzo di Cortellessa… Osservando che la querelle con Marchesini è scaturita da una diversa valutazione dell’antologia einaudiana Nuovi poeti italiani 6, Fittipaldi ha scritto: “Quel che conta è constatare come la recensione subisca la stessa sorte del testo: parlare di tutto tranne che del contenuto del libro: per chi ci crede, rappresenterà qualcosa di mirabile e profondo. A tutti gli altri, scapperà da ridere”. Due frasi che sintetizzano al meglio l’altrimenti indefinibile qualità della critica letteraria che si esprime sui giornali e talvolta anche sulle riviste.

[ii] L’ambivalenza è spesso più nelle interpretazioni dei neo-pasoliniani che non ab origine: ne sono stato edotto da Paolo Desogus, giovane semiologo sardo di stanza a Bologna, che, nei propri studi, ha sempre evidenziato l’interesse e, talvolta, la condivisione di un approccio scientifico nella propria formazione intellettuale da parte del poeta, scrittore e cineasta di Casarsa.

16 pensieri riguardo “So(da)li e civili: Marchesini legge Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio

  1. C’è anche una questione di retroterra dall’Ottocento al Novecento: l’intellettuale, non solo in Italia, era esponente, maestro di un’ideologia (addirittura un partito, con Gramsci e Mussolini), cui si appoggia e da cui deriva il suo potere. Che oggi non ha, ne può avere – pur con l’onesta ambizione dell’ottimo Marchesini di essere per lo meno “solo” e “civile” – qundi competente e non altoparlante… – perchè il tessuto partitico, ideologico è dilaniato. Contano le strutture e pochi credono nell’influenza delle sovrastrutture. Che da solo l’intellettuale – nome collettivo – possa rimontare la china, non credo proprio. Nel tempo della “massificazione ideologica”, l’intellettuale originale era eretico. Vedi Bianciardi, vedi Fortini. Guardato un po’ così. Oggi, senza alcun potere – ecco perchè secondo me tanti “intellettuali” sono in vacanza, non leggono o vedono neanche quel che descrivono o criticano, sono così ansiosi – l’intellettuale è un solitario, un cane solitario, non un cane sciolto. Un po’ triste, alla ricerca compulsiva di visibilità. Marchesini e altri coscienziosi operatori e storici fanno un lavoro di ricucitura notevole. Leggo spesso Marchesini, per esempio, su vari giornali quotidiani. Notevole anche perchè, a differenza mi pare di Cortellessa detto senza particolare conoscenza del suo lavoro ma così a naso, Marchesini si pone dietro il suo saggismo. Non lo impone, lo propone. Grazie Mari!

    1. Ringrazio io per la lettura partecipe. Spero che i problemi dell’esplorazione del retroterra ma anche dei metodi e delle tattiche per risalire la china mi (e ci) rimangano sempre presenti.

  2. Devo dirti che mi piace, soprattutto, l’impegno tuo, di Matteo Marchesini e altri, tutti gli altri, che si dan da fare. Largo ai giovani è il mio motto, non per fare lo spiritoso, ma da quando ho compiuto 60 anni, non solo mi sono sentito un po’ spaesato, ma ho avvertito la bellezza, in senso plastico, puro, di poter leggere e apprendere da giovani maestri. Il dialogo delle
    generazioni assicura un lembo, se non proprio un retroterra. Un caro saluto!

  3. … anche su marte, nello scollamento onirico e nella strenua resistenza delle illusioni, resta una società letteraria, una partizione che ancora conta su presupposti e storie, formati credibilissimi e speciosissimi…
    Resta.
    Resta comunque irricevuta ogni proposta di una critica capace di levitare esponendo non altro, che esperimenti… Davvero senza dialettica – senza alcun solido terreno. Non si tratta di ancorarsi al testo, ossia al prius, all’interpretandum perché possano abbandonarsi, essere esclusi in una cattura capientissima, le chiacchiere giornalistiche… Se la oggidiana sistematizzazione dei discorsi e delle italiche situazioni letterarie è così descrivibile, per di più col beneficio di una nota a piede la quale registri una testimonianza di in-solite sedi del dibattito critico (e Salvatore Fittipaldi è uomo d’onore…), allora almeno verrebbe da chiedersi quanto sia solidale con tale crisi, con scadimenti tanto investigabili e appropriabili, l’esigenza di risalire la china… Perché se la sorgente del lavoro di intelletto e ragione è ancora la scissione, risalire ai retroterra rischia di congelarli nel loro stesso franare…!
    Tra la funzione e il ruolo, in questi inesausti aggiustamenti dell’attrezzo, c’è il copiaincolla – dai giornali alla televisione, dal web alle riviste scientifico-specialistiche – et coetera (appunto c’è altro, altre cose neutre di genere e non solo, citabili o meno – il che è lo stesso, oggi, per la citazione, per la sua sorte – entro il tele-mondo…).

    P.S.

    Lo Heidegger dei Contributi (male curati da Volpi & co. presso Adelphi…) si serve di una finta paratassi, di matrice hoelderliniana (e avvistamento pure adorniano), che indulge al ‘ciononostante’, al tuttavia’ – al ‘ma’ (Aber)… La grammatica delle finta democraticità (democrazia e olocrazia e omologazione e omogeneizzazione e così arbasinianamente-pasolinianamente procedendo – e ciò che procede, come nella programmazione reclamistica o computeristica, oggi accade anche… Dopo la fine del postmoderno…).
    Ma – comunque questo Heidegger è dichiaratamente catastrofico – è un affondare, la postura che sfalsi e smarchi, scompagini appena e rimoduli… Fuori, il testo esibisce un certo rifugiarsi certo in particolarissimi tagli d’Apollo, o giù di lì.

  4. … Le bizzarrie dello spazio sì, sono credibilissime di più delle circensi galoppate dei testi umani sulla spianate di Fb e nella rete estesa. Poi è la volta qui sulla Terra, della bella mostra di testi prodigiosi; il prodigio è spesso nell’interpretazione. Si tratta di un mecenatismo virtuale, autocompiaciuto, ché di fatto la fattura poetica dei testi- a pressione caduti dallo spazio- è cosa riciclata dall’obliosfera terrestre.

  5. Prendiamo uno degli ultimi, nostri prodotti letterari etichettato come romanzo, Siti e il suo resistere che non serve a niente… Giuseppe Genna, con una certa (his est crux…) ragione credo, si chiede (su Fb): E’ dove si annida la letteratura in Siti ciò che mi interessa, è sbalzare quel libro lì…
    Io su Fb, rispondevo così: Irene era scattosa, spazzava il cortile come se strofinasse la ramazza sul grugno d’un nemico; sfoggiava una scollatura meno invitante, un grembiulaccio da pezzente. (p. 81)

    Accarezzando le cicatrici, perdona il proprio corpo e si riconcilia con lui. Lo sperimenta apparendo come un fantasma in questo o quel gruppo e verificando ogni volta che, ormai smaltita la sorpresa, tendono a non farci più caso; non vedono l’alone del suo vecchio ingombro marcato con l’evidenziatore. La voce gli è cambiata, si è fatta più cauta. Come quando, dopo che un allarme ha suonato a lungo, il silenzio pesa sui timpani e li schiaccia, così il peso dell’attuale leggerezza spesso lo inibisce e lo mette in soggezione (p.85)

    Sono venute al nostro tavolo, sarebbe stato facile; si strusciavano coi jeans, mostravano i seni chinandosi. Come le campane d’oro rovesciate in fondo al vialone; per aggirare l’embargo ci eravamo appoggiati alla Swift di Anversa, s’era deciso di shortare le Sumitomo ma era esploso il deposito di sostanze chimiche e Sao sosteneva fosse di malaugurio. <>; sulle soglie le donne fumavano strani sigari rossi, accasciate con le braccia tra le ginocchia. (p.265)

    … come se un’allitterazione, una similitudine, una sequenza indecidibilmente descrittiva e narrativa, potesse resistere al mero procedere, alla povertà d’evento, o a una confusione non caotica…

    ………………………..

    Questa mia risposta, allora data in forma di commento feisbucchiano e, quindi, ancora per poco leggibile archiviata da Fb Diario… – è una risposta oziosa. Forse giustificabile se risalisse a una situazione del letterario di qualche anno e anno fa…

    Eppure…

    Giuseppe Genna commentava nei termini sopra riportati, un pezzo di Saviano pubblicato da La Repubblica, e lo introduceva così: Spiegare la differenza specifica tra “Resistere non serve a niente” di Walter Siti e questo articolo riassuntivo di Roberto Saviano. Parlare di mimesi, di retoriche, di immaginarii. Poi accennare al parallelo respingente, e impermeabile a questa distanza, con “Cosmopolis” di Don DeLillo. Ciononostante Siti vince il prossimo Premio Strega.

    Ora chiedo: cos’è questo oggidiano immanarsi dei logoi critico-letterarii? Fa sistema? Fa conversazione? Fa civiltà? (Colla solita avvertenza: prescindendo dai gusti e dai soggetti – ogni riferimento a persone…è puramente casuale!!!).

  6. Apoditticamente, occupa la scena, a questo punto del discorso, una specie di retorica del ragionamento, così da lasciare inorriditi. E col metodo dei “perché” si può arrivare alle condizioni incondizionate, si può giungere al punto in cui l’umanità collassa in forme ricorsive; e tanto più la coazione s’avvita su sé stessa, tanto più si disumanizza, in forme strutturali di discorsi cibernetici e difettosi. Un narcisismo violento e autoreferenziale, che rischia di perdere di vista la destinalità di questa o quella prosa, di questa o quella poesia, e di asservirsi ad interessi altri. Questa generazione giovane – già loro sono, già siamo nelle tombe – di prodigi, questa possibilità democratica di potere dire, scrivere, confutare, soverchia il contenuto, e lo indirizza verso la nudità, verso l’esposizione a crudo nella stampa a occhio e croce, a occhi e senza croce. Delizia sparsa a compartimenti stagni. Del resto, forse, feticisticamente, si ricerca appunto la maniera di esporsi, in queste vetrine mediatiche così asetticamente studiate; ché la televisione è volgare ormai, è massificazione degli zombie spettatori, bovinamente in ascolto.
    In Grecia l’arte della interpretazione (hermeneutike techne) designava l’attività del portare messaggi degli dei agli uomini. In questo senso – per cui l’ermeneuta è un angelo, cioè letteralmente, un messaggero attestato da Platone, essa appare connessa con l’interpretazione degli oracoli e, almeno in parte, con la poesia, giacché anche i poeti sono messaggeri degli dei; e qui si interpreta dunque, la validità dell’oggetto-parola-scrittura- e del mezzo e della validità o meno di quest’ultimo. L’interpretazione si pone così come una forma
    primaria della conoscenza. Del resto la specificità della tensione formativa è insita nel
    congegno e ci si orienta ad una costante revisione-decostruzione-ricostruzione. Umani sì, gli accenti, le prassi, le cadute.
    A partorire menti dalle menti siamo bravi.
    Come effimera appare la rete; quasi un Aldilà vivificato e vivificante, una massa neuronale immensa e immota. Annichilente nella misura in cui non si è poeti per davvero. Perché chi ha scintille dentro a nulla assurge, senza sforzo, senza ambizione alcuna; quel nulla in cui poi tutto si compie all’improvviso: in cui Idea si compie. Si scrive all’insaputa a volte di sé stessi. Si arriva a cime remote ed intime. E spesso nulla si intende, se non il lustro delle stagioni e le lune dimezzate di un certo angusto cielo.

    1. Sì, però, a meno di non voler andare contro chiunque si esprima criticamente sulla rete (e non sarebbe che reduplicarne goffamente le presunte movenze in modo alquanto nichilista, cioraniano e quindi peggiorato), c’è critico e critico, giovane e giovane, prodigio e prodigio.
      Non foss’altro che questa vostra tirata critica sulla critica non tenet rem rispetto all’articolo; che è su Marchesini, volendo, giovane sì, prodigio non so, bravo mi pare; articolo che tange, solo tange, e per motivi argomentativi, il discorso “polemiche letterarie” riguardo la nota di Cortellessa, polemiche che già da molto, a noi personalmente di Critica Impura, hanno sfrantumato l’orbe marziano (e marziale) e dalle quali lungi da noi trarre spunto e sostentamento: ben altre figure di nomea e meno, troppo spesso, “ci si accampano”; nondimeno, anche in alcuni commenti facenti capo ad utenti di questo blog. In questa pagina addirittura, si fa polemica stigmatizzando (gerundio strumentale) la polemica, si palesa narcisismo stigmatizzando (gerundio strumentale) il narcisismo letterario; che pure esiste in generale, che pure è un male, ma che qui, da noi, è ben dura da rintracciare per natura, perché l’impurezza, vedete, è forma mentis che non consente l’autocompiacimento fine a se stesso, nell’attivismo indefesso (e disinteressato) del nostro lavoro culturale. E allora, a parte lo stridere, quello sì, veramente inorridente del senso logico in tutto ciò, sorge la famosa querula domanda:
      ma tutto ‘sto discorso vostro che c’azzecca con il contenuto ed il senso dell’articolo?
      Sonia Caporossi

  7. Sfuggono anche a me certi nessi, mentre salta all’occhio il paradosso di una critica raddoppiata, insistita, distruttiva, e in fondo (mal) nichilista.
    Può darsi, come segnalava Vladimir D’Amora, che invece di entrare nell’orizzonte dell’umanità, queste poche righe su Marchesini entrino più direttamente nell’orizzonte della società letteraria, ma questo non è negativo di per sè, a meno di non credere in artisti-monadi, come anche qui si è fatto, nei commenti… Si tratterebbe infatti, per altri versi, di quella stessa solitudine dell’intellettuale alla quale lo stesso Marchesini, come dicevo, mostra di non credere fino in fondo. (Nè credere nè obbedire, fuori da ogni larvata accusa di fascismo, o texanismo). E in questo, come scrivevo, il nome di Cortellessa o dei TQ non è certo casuale, ma non è neanche l’unico metro di giudizio, non è il confronto che cerco di instaurare.
    Può darsi anche che qui si sia suggerita una strana partizione delle arti liberali e della scrittura, dove si recuperano interpretazioni più profonde nei libri cartacei, frequentando – ma allo stesso tempo disdegnando – i blog, o Facebook, cercando un prodigio che invece “è solo nell’interpretazione” (e ci mancherebbe, altrimenti: quale critica?). Ma perchè questo ritorno al libro sarebbe poi un percorso illegittimo? Quale la via, immagino a questo punto ascetica, per la salvezza?
    Di proposte non si parla, ed è facile vedere una generazione già morta quando gli attacchi mortali (che certo non riguardano questo o altri blog, ma attengono ad altre questioni, più stringenti) nonchè i suicidi sono resi opachi da questioni che sembrano filosofiche, ma sono di lana caprina

  8. Preferisco pensare che il senso degli interventi precedenti voglia mettere piuttosto in evidenza la fatuità del modo di porsi della polemica letteraria, che perde di vista inevitabilmente sempre il senso della critica in quanto tale.
    Saluti
    M.

    1. Proprio oggi a riguardo leggevo un commento di Davide Castiglione all’articolo integrale di Cortellessa apparso di nuovo su Le Parole E Le Cose, che mi piacerebbe ricopiare anche qui in un breve estratto, perché esaustivo e cogente come nessun’altro finora è stato, a mio avviso, nonostante la brevità:
      “Incredibile che tutti gli articoli ruotino attorno alla polemica e nessuno affronti di petto i testi. Forse anche i grandi critici devono sottostare ai dettami giornalistici? sta di fatto che l’antologia sembra un pretesto per parlare d’altro. Invece basterebbe chiedersi: sono valide le voci raccolte? E, a questa domanda, oltre che rispondere anche argomentare. Scriverò presto su quest’antologia, comunque, perche’ e’ incredibile che non vengano mai interrogati i testi: e la letteratura non corrisponde ai discorsi sulla letteratura.”
      Il problema, ho replicato io, è proprio il fatto che spesso la critica, per scannarsi a vicenda, perde di vista la propria funzione ermeneutica del testo. Il testo, signori: il testo prima di tutto.
      Sonia Caporossi

    2. Non penso che i commenti precedenti si limitino a segnalare questa piccola, dimenticata ovvietà. Sia i commenti sia, nella sua pochezza, il mio post evidenziavano già questo – importantissimo – fatterello.
      Eppure mi è sembrato corretto rispondere agli argomenti che sono stati esposti, aldilà dell’ovvia e naturale constatazione sulla fatuità delle polemiche letterarie, per vedere di cosa realmente si sta parlando.
      Ad esempio: perchè questa polemica letteraria, che avrei avviato io, qui, prende le mosse da un articolo di Cortellessa, per poi parlare d’altro (il libro di Marchesini)? Semplicemente perchè lo stesso ha fatto, in precedenza, l’articolo di Cortellessa, rispondendo al pezzo di Marchesini, parlando poi d’altro (senza riuscire con questo ad articolare un discorso critico completo, e non vago e ammiccante, sulla poesia corporale/del corpo).
      Non sarà che le stroncature, nella ‘critica letteraria giornalistica’, come quella di Marchesini, non hanno ragione di essere, e vanno censurate? (E a quel punto: chi difende la società letteraria di chi? Chi censura la polemica di chi? Interessante anche questo, prima di chiudere la finestra del blog, aprire la finestra e pensare ad altro).
      Cordialmente,
      L.

      1. Sì, però secondo me non è polemica fine a se stessa, questa tua; anzi, non è punto polemica. Al contrario, è un voler mettere i punti sulle i e cercare di togliere quelli sugli iota, per tirare le somme e tornare a monte della questione critica per far sì che non si perda. Un po’ come cercai di fare io con l’articolo “sistematore” riguardo la polemica Carabba / Ostuni (che infatti molti travisarono: https://criticaimpura.wordpress.com/2012/03/21/liberare-la-poesia-ma-da-che-cosa-la-polemica-fra-carlo-carabba-e-vincenzo-ostuni-facendo-il-punto/ ).
        Nei commenti su LPELC, Lorenzo, citavo questo tuo articolo su “Soli e civili” come esempio di critica che s’attiene, sostanzialmente ed esemplarmente, al testo; e Castiglione annuiva.
        Sonia Caporossi

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