Critica impura di un rinnovamento storiografico del Novecento: la scuola delle Annales. Prima Parte: la “dissipatio Humani Generis”

Marc Bloch e Lucièn Febvre
Marc Bloch e Lucièn Febvre

Di SONIA CAPOROSSI

Quando la scuola storiografica delle Annales, com’è noto, sorse in Francia intorno alla rivista Annales d’histoire économique et sociale fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucièn Fevbre [1], essa fu immediatamente caratterizzata da  una considerazione fortemente innovativa della ricerca storiografica. Questo senso di ricerca ed innovazione, infatti, concedeva sostrato al significato, nella teoresi e nella prassi, dell’attenzione rivolta da Bloch e Febvre nei confronti di branche del sapere, come ad esempio l’economia e gli studi sociali, che tradizionalmente erano quasi del tutto rimaste ai margini della considerazione storiografica in senso finalmente scientifico, laddove avevano trovato un posizionamento strategico, nel lungo secolo della storiografia di ascendenza idealistico – romantica, come semplici forme dello sviluppo progressivo dello Spirito in generale, ovvero, come propugnavano più tardi i positivisti in polemica con le variopinte hegelianità, in un campo di dominio permeato della più bieca e gradassa metafisica.

La direzione intrapresa era quella dell’ampliamento delle problematiche da analizzare per affrontare i processi storici in senso strutturale, o per meglio dire strutturalista, come verrà meglio a delinearsi successivamente nel marasma culturale degli anni Sessanta [2]; tuttavia, fin da subito i nuovi storici delle Annales operarono considerando parte integrante dell’indagine storica gli aspetti della produzione, della tecnologia, dei mezzi di lavoro, l’apertura a temi come le mentalità, la considerazione dei manufatti, la demografia, la vita quotidiana, la sessualità, l’alimentazione, le abitudini di consumo e chi più ne ha più ne metta, lanciando esche a cui abboccheranno le successive correnti psicosociostoricofilosofiche, in patria e fuori dai confini (prestabiliti). Campi di interesse nuovi divennero quindi ben presto anche le civiltà extraeuropee, in un ampliamento in senso globale e globalizzato, o forse meglio dire globalizzante, dei confini geopolitici, derivato dalla contemporanea intersezione con l’etnologia e l’antropologia culturale, ma soprattutto nel primo periodo delle Annales era viva la sollecitazione a colmare i ritardi rispetto alle scienze esatte e naturali: “ciò che premeva a Bloch […] era la rivendicazione della possibilità di una conoscenza critica, scientifica, dei singoli fatti storici”, laddove la figura con cui dialogare in tal senso, in primis e fin dal principio, era il Durkheim dell’Année sociologique. Mentre per il sociologo “la storiografia o non era scientifica, e allora rimaneva confinata, al limite, nell’aneddoto; o era scientifica, passibile cioè di comparazioni tali da condurre all’enunciazione di leggi, e allora si identificava con la sociologia” [3], per Bloch, al contrario, la scientificità del lavoro dello storico era una rivendicazione legittima senz’ombra di dubbio; ma proprio per questo, implicitamente, dava ragione allo stesso Durkheim: occorreva, per possederne un paradigma valido, uscire dal modello della storia dell’aneddoto.

Non consapevole di questa preliminare contraddizione nell’enunciato, il movimento delle Annales auspicava in questo senso il lavoro collegiale degli storici, i quali avrebbero dovuto avvalersi dei contributi interdisciplinari sulla base di una comune piattaforma interpretativa: si mirava insomma ad  ottenere una cooperazione internazionale a livello di ricerca, l’apertura all’attenzione di un vasto pubblico interessato ai problemi del presente e soprattutto il raggiungimento di “un lavoro comune con le scienze sociali, dalla geografia alla statistica, dall’economia politica alla psicologia e alla sociologia”, anche alla luce dell’importanza del fattore economico analizzato centralmente, per la prima volta, dalla storiografia marxista, caratterizzata dalla posizione di un problema, quello economico – sociale, di più vasto respiro [4].

Gli anni Trenta segnano insomma l’inizio della fine della storiografia meramente politica o, come si sarebbe detto di lì a poco a mo’ di slogan, evenemenziale. La rivoluzione russa, la cavalcata spettrale del marxismo nei cieli d’Europa, i mutamenti sociali post-bellici, la presenza ossessiva dell’elemento economico a guidare la danza macabra durante e dopo la Prima guerra mondiale, in particolare la crisi economica nel ping pong planetario che ebbe inizio proprio nel 1929 e che finì per coinvolgere anche la Francia: tutto ciò comportò un avvicinamento fatale, un’attrazione ideocentrica degli storici francesi alle questioni economiche. Ad esempio, se pure i primi lavori di Bloch sono consacrati alla Francia capetingia con studi sui problemi della psicologia collettiva e delle mentalità [5], modalità di analisi e ricerca poi cadute nelle fauci impastoiate di ben più miserandi tuttologi e psicanalisti sessantottini, verso la metà degli anni Venti la sua attenzione si concentra sulla storia agraria medievale francese ed europea, tanto che nel 1931 insegna a Oslo storia agraria comparata e proprio in quel periodo pubblica l’opera che lo fa diventare il maggior storico-economista della Francia: I caratteri originali della storia rurale francese [6]. Ma le Annales conobbero anche altre linee di sviluppo, in cui le linee di demarcazione fra tendenze differenti si fanno abbastanza definite. Il secondo periodo delle Annales prende vita dopo la morte di Bloch nel 1944 [7] ruotando intorno alle figure di Febvre e Braudel e ad una grande istituzione di ricerca fondata nel 1947: la VI sezione dell‘Ecole pratique des hautes études, istituzione attraverso cui i due condirettori riescono ad affermare il movimento delle Annales anche in ambito accademico. Il terzo periodo invece ha inizio nel 1968 e ruota intorno alla figura di Jacques Le Goff il quale assume la direzione della rivista dando così inizio al periodo della cosiddetta antropologia storica.

Nonostante questa scansione in tre periodi caratterizzati da diversi indirizzi, giudicati solo apparentemente divergenti e in parte contraddittori, la Scuola delle Annales è stata considerata complessivamente una vera e propria svolta rispetto alla storiografia dell’Ottocento, la quale, a sua volta, declinava i propri parametri di analisi intorno a due grandi correnti contrapposte: lo storicismo romantico e idealista da una parte e il positivismo dall’altro, ambedue considerati mali profondamente radicati nel metodo d’indagine, da emendare con tutte le forze possibili. Nella storiografia ottocentesca il fenomeno storico era vissuto infatti come fare politico in senso pressoché esclusivo. Questa impostazione, probabilmente derivata dal sorgere, attraverso i moti rivoluzionari di ispirazione romantica, del concetto di nazione, permetteva ai nuovi storici di accusare la storiografia romantica di un certo descrittivismo astratto e sistematizzante: essa non faceva altro che scrivere la storia degli Stati [8] e così si imperniava intorno a un individualismo particolaristico che non consentirebbe analisi di più vasto respiro. Dall’altra parte si ergeva tuttavia il possente muro del positivismo, contro la cui “metafisica del fatto” le Annales si opporranno sempre fermamente, nella concezione del fatto che permane inerte senza l’intervento interpretativo dello storico e nella convinzione che il lavoro dello storico consista nel porre delle domande alle testimonianze in una considerazione della storia come problema e ricerca. Il tentativo di superare il descrittivismo elencativo positivista e la semplice erudizione ottocentesca doveva, per gli annalisti, farsi forte della convinzione che “la storia […] avrà il diritto di rivendicare il suo posto fra le forme di conoscenza veramente degne di sforzo, soltanto se ci prometterà una classificazione razionale e una progressiva intelligibilità, anziché una semplice enumerazione senza nessi a quasi senza limiti”; per questo occorre considerare la storia come oggetto di un “lavoro ragionato di analisi” e non come mera “pratica erudita”; l’esigenza era quella di superare, pur riconoscendone il valore, una visione della storia come “scienza dell’evoluzione umana” sorretta da un “ideale pan – scientifico”, che però, contraddittoriamente, escludeva dai suoi orizzonti il residuo delle “numerose realtà umane che apparivano disperatamente ribelli a un sapere razionale” chiamandole sdegnosamente “l’avvenimento”: era questo, secondo Bloch,  l’orientamento della scuola sociologica di Durkheim da rigettare in pieno [9].

Questa necessità finisce per indirizzare Bloch e Febvre verso un nuovo ruolo dello storico che si assume come compito l’analisi del dato concreto, la ricerca del quid strutturale, l’interpretazione delle fonti le quali però, senza quest’intervento attivo e quasi rabdomantico, rimarrebbero mute. Scriveva infatti Bloch nel 1929: “i documenti restano monotoni ed esangui fino al momento in cui il colpo di bacchetta dell’intuizione storica rende loro l’anima”. Al di là della considerazione di soppiatto che l’argomento dell’intuizione storica è di matrice idealistica, proprio una delle tendenze a cui Les Annales volevano di fatto contrapporsi; esso tuttavia possiede, di vitale e nuovo, questo suo innestarsi indefesso sul lavorio filologico documentario. I documenti che lo storico deve interrogare sono, in effetti, svariatissimi: scritti teologici, medici, giuridici, dissertazioni politiche, atti amministrativi, reperti del folklore, dipinti, incisioni, cronache, chansons de geste. Lo storico prende le fonti, le passa al microscopio, le esamina, rende loro una ragione organica di vasto respiro; una ragione, un ordine razionale che oserei chiamare cartesiano e che cambia semplicemente nome: interpretazione. E’ questa un’idea della storia come percorso articolato da ricostruire in tutta la sua complessità, impostazione di pensiero la cui base culturale e politica è stata senza dubbio la vittoria democratica sul nazifascismo, che ha per ciò attraversato l’intero l’arco della cultura democratica europea dell’inizio del Novecento.

Infatti, come ricorda Ludovico Gatto, “gli avvenimenti legati ai due conflitti mondiali hanno contribuito a sviluppare il cammino e l’evoluzione del pensiero storico europeo” [10]. Il mestiere di storico, insomma, comporta la dimensione dell’impegno in prima persona nell’intenzione votiva di studiare il passato essendo totalmente coinvolti nel presente, in quella circolarità ermeneutica di presente e passato che è una delle tensioni più forti di chi avverte fortemente il richiamo dell’identità storica; e lo è, aggiungiamo, fin dai tempi, appunto, del romanticismo. Paradosso? Contraddizione? Andiamo avanti. Lo storico, specie secondo Bloch, deve tenere ben presente anche il problema epistemologico della legittimità della storia [11]. Egli sorregge sulle spalle responsabilità morali e civiche nei confronti del percorso della civilizzazione (un percorso lineare? Circolare? Ricorsivo?), e la testimonianza storica stessa ha il ruolo fondamentale del mantenimento della memoria, prerogativa di ogni futura civilizzazione; per cui se è vero da una parte che “la storia non dà giudizi morali”, come afferma Bloch, dall’altra è il suo stesso ruolo nel mondo ad essere dotato di un’intrinseca eticità: la storia non è la scienza del passato, bensì, come scrive Febvre, “è una delle scienze umane” in quanto insieme agli stati, alle nazioni, alle tecniche, alle leggi, alle istituzioni “il suo oggetto è l’Uomo; o, se si preferisce, gli Uomini” [12].

Ora: sfortunatamente, si evince come la scuola delle Annales abbia voluto porsi, onorevolmente, da una parte a sostegno della presenza dell’Uomo nel pensiero contemporaneo: d’altra parte, tuttavia, in quel suo definirlo come “oggetto”, ben lungi dal restituirgli uno statuto ontologico come motore della storia, ha gettato il cemento su cui si sarebbero impiantate, di lì a poco, le maglie castranti dell’antiumanismo posteriore e dell’archeologia del sapere foucaultiana, così disumanizzante e reificante, con quella pretesa dell’autore di cogliere i rantoli agonizzanti dell’Uomo morente o gli echi umoristici di un Soggetto storico già deceduto. Di fatto, le cose sono andate così: per la Scuola delle Annales, specialmente da Braudel in poi, gli uomini, i singoli, gli individui, sono cominciati a scomparire, volatizzati, liquefatti in una sorta di dissipatio humani generis, annacquati nella salamoia della storia come “lunga durata” e “larghissimo spazio”: vedremo nella seconda parte, se avrete cuore di seguirmi, come e perché.

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[1] Il titolo della rivista variò poi nel 1946 in Annales. Economies. Sociétés. Civilisation e dal 1994 in Annales. Histoire et sciences sociales. Il movimento si articolò, com’è noto, in tre periodi fondamentali: 1929-1944, 1945-1968 e dal 1968 in poi, come specificato più avanti.

[2] Cfr. I. Fazio, Nuova Storia Culturale, in Cultural Studies, rivista telematica dell’Università di Palermo, pp. 2-3: “Anche la scuola francese delle Annales, che già dai suoi inizi si era caratterizzata per la ricerca di insiemi sociali e di sviluppi di civiltà di lunga durata che oltrepassavano gli steccati della storia politica e religiosa, in una seconda fase, dal dopoguerra in poi, si è orientata verso temi culturali. Forme simboliche e pratiche materiali venivano documentate in modo dettagliato. L’eclettismo interdisciplinare delle Annales si inquadrava in una cornice teorico metodologica di strutturalismo storicista. Dallo strutturalismo francese, sia linguistico che antropologico, traeva la concezione della storia  come insieme di strutture – dalle  credenze alle  pratiche economiche – che funzionavano in modo organico. Esse si modificavano lentissimamente, lasciando spazio quindi a un’enfasi analitica sui fattori di permanenza e sulle interazioni reciproche tra gli elementi della struttura. È facile comprendere quindi il legame di questo modello analitico con l’antropologia strutturalista. Infine, un terzo elemento accanto al lavoro degli storici sociali e degli animatori delle Annales portava la cultura, e in particolare quella dei gruppi subalterni, in primo piano nella storia e nelle altre scienze sociali: i movimenti sociali, generazionali, controculturali e antiegemonici di fine anni Sessanta premevano nel senso dell’apertura a temi di ricerca relativi ai gruppi dominati, come i neri, le donne, i popoli del cosiddetto terzo mondo la cui vita veniva alla luce nell’ambito del processo di decolonizzazione. La ricerca sociologica soprattutto dava attenzione alla cultura popolare e alla controcultura; la ricerca femminista cominciava a  legare mondi mentali e ambiti corporei; nascevano gli studi subalterni.”

[3] Così scrive C. Ginzburg nella Prefazione a M. Bloch, I re taumaturghi, Torino 1973, p. XII. Del resto, come sostiene M. Mastrogregori in A. De Bernardi e S. Guarracino, Dizionario di Storiografia, Milano 1996, “la struttura della rivista riprende quella dell’“Année sociologique” (1879) di E. Durkheim, e si è ipotizzato che Bloch e Febvre volessero riprendere, a favore della storiografia, il disegno durkheimiano di un’egemonia della sociologia tra le scienze sociali, elaborato all’inizio del secolo proprio contro la storiografia”. Durkheim in effetti opponeva allo studio del fatto individuale, irripetibile, quello delle determinazioni sociali, cui si attribuiva un ruolo essenziale in tutto lo sviluppo della società, e questo, di fatto, è il punto di partenza del discorso storiografico degli Annales fin dalla fondazione.

[4] Fu J. Jaurès, coi suoi volumi sulla Storia socialista della rivoluzione francese (1900), che indusse gli storici francesi dei periodi successivi a prestare maggiore attenzione ai fatti socio-economici, influenzando per esempio storici del calibro di G. Lefebvre. A testimonianza dell’accresciuta importanza del fattore socio – economico nell’interpretazione storica basti pensare che nel 1927 (due anni prima della pubblicazione del primo numero degli Annales) Mathiez, il maggior storico della rivoluzione francese durante il primo trentennio del secolo, aveva pubblicato la sua migliore opera socio-economica: Il carovita e il movimento sociale sotto il Terrore.

[5] Stiamo parlando de I re taumaturghi , opera che venne pubblicata nel 1924 e all’interno della quale si fa strada un’idea di psicologia e sociologia storica incentrata sulla definizione delle “représentations collectives”. Il sostenitore più fervido della psicologia storica fu Febvre, a cominciare dal saggio del 1938 Une vue d’ensemble: historie et psychologie.

[6] Negli anni 1939-40 appare quello che può essere considerato il suo capolavoro: La società feudale.

[7] Già cinquantenne, Bloch si arruolò doverosamente, col grado di capitano, contro i nazisti. Nel 1940 fu in quelle unità francesi che riuscirono a imbarcarsi a Dunkerque per l’Inghilterra, da dove poi rientrò in Francia, ma dopo la capitolazione non potette più insegnare alla Sorbona e per qualche tempo esercitò in provincia, contemporaneamente gettando su carta il manoscritto dell’Apologia della storia, che rimase incompiuta e fu pubblicata postuma da Febvre con alcuni ritocchi. L’autore aveva dovuto nascondersi, perché ebreo, sotto il regime di Vichy, e del resto era ben nota la sua avversione all’hitlerismo razzista. Divenuto nel 1943 uno dei comandanti della cintura lionese della Resistenza, fu arrestato dalla Gestapo nel 1944 e fucilato il 16 giugno. Come ricorda Le Goff nella sua Prefazione all’Apologia della storia, Bloch “Fu una delle vittime di Klaus Barbie”. Durante tutta la guerra Febvre, rimasto a Parigi, volle con tutti i mezzi possibili mantenere in vita le Annales, la cui periodicità era divenuta, per forza di cose, saltuaria. Come abbiamo già ricordato, nel 1946 i fascicoli ricominciarono ad apparire sotto un nuovo nome, Annales. Economies-Sociétés-Civilisations, redatti dal solo Febvre. Terminata la guerra, la storiografia francese riprese con nuovo vigore, tanto che la pubblicazione, nel 1949, del libro di F. Braudel, Il Mediterraneo e il mondo mediterraneo all’epoca di Filippo II, costituì allora un avvenimento eccezionale. Basti pensare che la sua elaborazione richiese circa quindici anni e che grazie a questo lavoro Braudel venne riconosciuto come uno degli storici più importanti d’Europa, a causa delle novità impellenti del suo lavoro, il quale invertiva volontariamente l’importanza dell’oggetto studiato, il Mediterraneo, a scapito della figura individuale di Filippo II, e per la scansione triadica del tempo storico, concetto problematico di cui si parlerà più avanti.

[8] Chabod si occuperà del concetto di nazione in una serie di lezioni tenute all’università Statale di Milano nell’anno accademico 1943-1944 e poi raccolte e pubblicate a cura di A. Saitta e E. Sestan (L’idea di nazione, Roma – Bari 1961). Lo storico valdostano si era occupato, fin dal decennio precedente, dell’idea d’Europa dal punto di vista del divenire storico della coscienza europea e dello svolgersi dell’idea di nazione, proprio in quegli anni in cui la sua degenerazione in nazionalismo si era resa evidente in seguito al tragico accadimento delle due Guerre Mondiali.

[9] M. Bloch, Apologia della storia, Torino 1970, pp. 28 – 31.

[10] Ludovico Gatto (Prefazione a H. Pirenne, Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo, Roma 1991, p. 8 ) ricorda il valore dell’impegno concreto dello storico e della sua immersione nel presente facendo un riferimento alla figura maestra del professore belga: “Pirenne […] per l’atteggiamento coraggioso e patriottico verso la sua università di cui volle difendere il patrimonio culturale e materiale, nel 1916 venne deportato in Germania. Così fu però anche per Fernand Braudel, durante il secondo conflitto mondiale, tradotto nei campi di prigionia tedeschi di Magonza e Lubecca”. Come si sa, ambedue gli studiosi, per alleviare le sofferenze della prigionia, organizzarono corsi di storia fra i detenuti e scrissero materiale, in quasi totale assenza di documenti e possibilità di ricerca, che sarebbe poi servito ai loro rispettivi capolavori Storia d’Europa dalle invasioni al XVI secolo e Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II.

[11] “Papà, spiegami a che serve la storia”. Cosi, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è molto vicino, interrogava suo padre, uno storico. Vorrei poter dire che questo libro rappresenta la mia risposta, perché non credo ci sia lode migliore, per uno scrittore, che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità tanto elevata è privilegio di alcuni rari eletti. Tuttavia la domanda di quel fanciullo, di cui sul momento non riuscii gran che bene a soddisfare la sete di sapere, la conserverei volentieri qui, come epigrafe. […] Il problema ch’essa pone, con la sconcertante dirittura di quell’età inesorabile, è, né più né meno, quello della legittimità della storia. […] e tuttavia la storia, alla quale ci richiama un’attrattiva quasi universalmente sentita, non potesse dimostrare altrimenti la propria legittimità; se non fosse insomma che un piacevole passatempo, […] meriterebbe davvero la fatica che spendiamo per scriverla? […] O dovremo sconsigliare lo studio della storia agli ingegni suscettibili di un miglior impiego, oppure la storia dovrà dimostrare di avere le carte in regola come conoscenza” (M. Bloch, Apologia della storia, cit., pp. 23-27).

[12] L. Febvre nel Profilo di Marc Bloch preposto all’edizione parigina dell’Apologia della storia del 1949 nell’ed. italiana a cura di G. Araldi , Torino 1970, p. 5.

4 pensieri riguardo “Critica impura di un rinnovamento storiografico del Novecento: la scuola delle Annales. Prima Parte: la “dissipatio Humani Generis”

  1. Meraviglioso punto d’osservazione. E’ già lodevole di per sè la scelta del tema affrontato in questa analisi, dal momento che spesso nello studio storiografico si è volutamente trascurato il passaggio cruciale dall’Uomo in quanto attore all’Uomo in quanto fruitore della sua stessa opera. E’ proprio questo l’aspetto che caratterizza un certo passaggio a Foucault e ad una prospettiva in cui l’Uomo è disumanizzato e forse depersonalizzato, in un senso plastico di questa parola, stacco “evolutivo” (o involutivo?) che ricorda quel passaggio storico, effettivo, dalla manualità umana che si serve dei mezzi della Natura intesa come sistema biologico, alla macchina, che si serve ripetitivamente di ciò che l’uomo fornisce come suo mezzo e che diventerà suo stesso prodotto soverchiandone le leggi della generazione.

    1. Questioni che ormai hanno travalicato il poststrutturalismo…Problemi del postmoderno: problemi postmoderni…Ah, ma è già finito anche questo, pare che adesso si chiami “transmoderno”: i filosofi non sanno più che categoria inventarsi.

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