Giorgio Agamben, amicizia e filosofia

Giorgio Agamben

 

Di GIORGIO AGAMBEN *

L’amicizia è così strettamente legata alla definizione stessa della filosofia, che si può dire che senza di essa la filosofia non sarebbe propriamente possibile. L’intimità fra amicizia e filosofia è così profonda che questa include il philos, I’amico, nel suo stesso nome e, come spesso avviene per ogni prossimità eccessiva, rischia di non riuscire a venirne a capo. Nel mondo classico, questa promiscuità e, quasi, consustanzialità dell’amico e del filosofo era scontata ed è certamente per un intenzione in qualche modo arcaicizzante che un filosofo contemporaneo – al momento di porre la domanda estrema: “Che cos’è la filosofia? – ha potuto scrivere che questa è una questione da trattare entre amis.

Oggi la relazione fra amicizia e filosofia è, infatti, caduta in discredito ed è con una sorta di imbarazzo e di cattiva coscienza che coloro che fanno professione di filosofia provano a fare i conti con questo partner scomodo e, per così dire clandestino, del loro pensiero.

Molti anni fa, io e un mio amico, Jean-Luc Nancy, avevamo deciso di scambiarci delle lettere sul tema dell’amicizia. Eravamo persuasi che questo fosse il modo migliore di avvicinare e quasi “mettere in scena” un problema che sembrava altrimenti sfuggire a una trattazione analitica. Io scrissi la prima lettera e aspettai non senza trepidazione la risposta. Non è questo il luogo per tentare di comprendere per quali ragioni – o, forse, fraintendimenti – l’arrivo della lettera di Jean-Luc significò la fine del progetto. Ma è certo che la nostra amicizia – che nei nostri proposti avrebbe dovuto aprirci un accesso privilegiato al problema – ci fu invece di ostacolo e ne risultò, in qualche modo, almeno provvisoriamente oscurata.

È per un analogo e, probabilmente, consapevole disagio che Jacques Derrida ha scelto come leitmotiv del suo libro sull’amicizia un motto sibillino che la tradizione attribuisce ad Aristotele e che nega l’amicizia nello stesso gesto con cui sembra invocarla: o philoi, oudeis philos,”o amici, non vi sono amici”. Uno dei temi del libro è, infatti, la critica di quella che l’autore definisce la concezione fallocentrica dell’amicizia che domina la nostra tradizione filosofica e politica.

Quando Derrida stava ancora lavorando al seminario da cui il libro è nato, avevamo discusso insieme di un curioso problema filologico che concerneva appunto il motto o grillo in questione. Esso si trova citato, fra gli altri, in Montaigne e in Nietzsche, che lo avrebbero tratto da Diogene Laerzio. Ma se noi apriamo un’edizione moderna delle Vite dei filosofi, nel capitolo dedicato alla biografia di Aristotele (V, 21), non troviamo la frase in questione, bensí una in apparenza quasi identica, il cui significato è tuttavia diverso e assai meno enigmatico: oi (omega con iota sottoscritto) philoi, oudeis philos, “colui che ha (molti) amici, non ha nessun amico”.

Una visita in biblioteca fu sufficiente a chiarire il mistero. Nel 1616 appare la nuova edizione delle Vite curata dal grande filologo ginevrino lsaac Casaubon. Giunto al passo in questione – che ancora nell’edizione procurata dal suocero Henry Etienne recitava o philoi (o amici) – egli corresse senza esitare l’enigmatica lezione dei manoscritti, che diventava cosí perfettamente intellegibile e, per questo, fu accolta dagli editori moderni.

Poiché avevo subito informato Derrida del risultato delle mie ricerche, rimasi stupito, quando il libro fu pubblicato col titolo Politiques de I’amitié, di non trovarvi alcuna traccia del problema. Se il motto – apocrifo secondo i filologi moderni – vi figurava nella sua forma originaria, non era certo per una dimenticanza: era essenziale, nella strategia del libro, che I’amicizia fosse, insieme, affermata e revocata in dubbio.

In questo, il gesto di Derrida ripeteva quello di Nietzsche.

Quando era ancora uno studente di filologia, Nietzsche aveva incominciato un lavoro sulle fonti di Diogene Laerzio e la storia del testo delle Vite (e quindi anche anche l’emendamento di Casaubon) doveva essergli perfettamente familiare. Ma la necessità dell’amicizia e, insieme, una certa sfiducia verso gli amici era essenziale alla strategia della filosofia nietzschiana. Di qui il ricorso alla lezione tradizionale, che già ai suoi tempi non era più corrente (l’edizione Huebner del 1828 ha Ia versione moderna, con l’annotazione: legebatur o philoi, emendavit Casaubonus).

* Da Giorgio Agamben, L’amico, Nottetempo Edizioni 2007.

 

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