Linguaggio e informazione, verità e falsità: il travisamento della natura informativa delle teorie

Un esempio di modello: la proiezione di un cubo
Un esempio di modello: la proiezione di un cubo

Di EZIO SAIA

In questa breve memoria intendo approfondire la natura informativa dell’enunciato predicativo come prima parte di un saggio che affronti l’intima natura assimilatrice del linguaggio. Assimilazione vuol dire rendere simile il dissimile e espellere ciò che non si può assimilare, vuol dire afferrare e perdere il mondo, vuol dire porsi agli antipodi di una concezione raffigurativa. Non rappresentiamo il mondo ma lo informiamo e, informandolo, lo assimiliamo. Preliminarmente parlerò di modelli e teorie per analizzare la loro natura informativa.

Sono modelli di un edificio sia 1) un plastico in scala, che 2) una serie di equazioni strutturali che ne descrivono le condizioni di equilibrio statico, ecc.

Accettata questa pluralità dei modelli si pone il problema del tipo di relazioni esistenti fra i vari modelli, e l’oggetto cui si riferiscono.  Se usiamo come modello per un edificio un plastico tridimensionale che ne riproduce in scala la geometria, da esso possiamo risalire alle misure dell’oggetto e così via. In sostanza seguendo le procedure codificate, possiamo porre certe domande e ottenere risposte.

Se le domande riguardano la tenuta di un solaio, non interrogheremo il modello plastico, ma un modello strutturale che, se adeguato, disporrà di procedure e calcoli che ci permettono di ottenere una risposta. Anche il modello strutturale non è però un modello totale (informazione completa). Non potrà informarci, ad esempio, né sul colore delle pareti né sul numero delle finestre. Ogni modello è, quindi, un’organizzazione di alcuni tipi d’informazione, ma non di tutti; teorie e modelli, sono sistemi organizzati d’informazioni progettati in funzione delle informazioni volute. Il complesso dei fini e delle disponibilità conoscitive ne determinano la struttura.

Questo è fondamentale: un modello non può contenere tutte le informazioni dell’oggetto di cui è modello. Il modello totale di un sistema è solo il sistema stesso: l’unico modello totale di un edificio è l’edificio stesso. Non si può risalire da un modello a un sistema nello stesso senso in cui non si può risalire da un plastico all’edificio originale. Modellizzare, teorizzare è, in certo senso, conquistare e perdere dove la perdita di informazioni è connaturata con la procedura per formarle. Il modello totale dell’oggetto, del sistema, del mondo non può essere che l’oggetto, il sistema, il mondo. Ogni modello, ogni teoria rivelano in quanto danno accesso a informazioni e perdono in quanto è la stessa procedura d’accesso a comportare perdita di altre informazioni. Che una conquista comporti una perdita è una caratteristica universale delle teorie e dei modelli. Se indichiamo con F la procedura che ci consente di passare da realtà, sistema, oggetto a un loro modello potremo scrivere che il modello è funzione del’oggetto di cui è modello secondo la funzione F ossia M = F(O).

 Dopo queste brevi osservazioni molti equivoci, molte conclusioni apocalittiche e totalizzanti possono svanire se si accetta l’ipotesi che le teorie, anche quelle “nobili” come la fisica e la chimica, sono modelli del mondo. Ci danno un modello fisico o chimico del mondo, consentono un uso del mondo, ma non descrivono il mondo. Non si può chiedere a questi modelli ciò che strutturalmente non possono dare. Assolvono il loro compito non fornendo “verità”, o tutte le “verità”, ma mettendoci in grado di ottenere quelle informazioni per cui sono stati costruiti. Non ha senso affermare che un modello plastico è “falso” perché non ci dà informazioni strutturali. Eppure, se in riferimento al piccolo “quotidiano” questa considerazione appare ovvia, non altrettanto ovvia appare nei riguardi delle scienze in generale. 

Il travisamento della natura informativa delle teorie porta, da una parte, a supporre che esse descrivano il mondo in maniera tale che, una volta pervenute a completezza e riunificazione, possano costituire un suo specchio completo e, dall’altra, spingono a identificare l’impossibilità dei modelli totali, con il ‘falso’. Le grandi illusioni e le grandi delusioni sono legate alle “capacità’” delle teorie. Di fatto è la loro natura funzionale e informativa a vietarci anche solo di pensare che una qualche loro riunificazione in un’unica teoria o, peggio, una loro congiunzione possa approdare al modello totale. Le teorie sul mondo, comunque formate, saranno sempre modelli di mondo, mai il mondo o il suo modello totale o la sua raffigurazione.

Questa realtà non viene spesso accettata. Di fronte alle teorie, l’atteggiamento filosofico è sempre stato condizionato dalle aspettative. La constatazione dell’esistenza di un qualche rapporto fra modello e modello e fra modello e realtà può spingere verso due diversi tipi di credenze circa la capacità di rappresentazione della realtà:

1) la capacità del modello di rispondere a certe domande può indurre a credere che sia in grado di rispondere a tutte le domande. Questo è il tipo d’illusione che porta ad identificare modello e realtà;

2) la perdita collegata all’attività teorizzante, l’impossibilità, per ogni singolo modello, di fornire ogni informazione può indurre a concludere che esso, intrinsecamente inattendibile, costituisca una rappresentazione falsa della realtà. Da questo secondo atteggiamento nascono i miti delle scienze precategoriali e dei linguaggi precategoriali visti come paradisi perduti, come mitici Eden dove ritrovare, quella comunione con il mondo che con il linguaggio “teorico” è andato perso. Non esistono né un linguaggio precategoriale né tantomeno una scienza precategoriale, anzi è nella natura informativa del linguaggio l’essere categoriale, il dare certe informazioni e il perderne altre. Teorie e modelli intervengono sull’oggetto con procedure di acquisizione che contengono i presupposti di una modificazione (di per sé sempre violenta) dell’oggetto, divenendone condizioni di formazione e di accessibilità, in contrapposizione alla natura passiva della raffigurazione.

Tutti questi errori nascono da una confusione fra il concetto di verità e quello d’informazione, fra il concetto di realtà e quello di totalità di informazioni e alla base di questi equivoci sta quell’ingombrante concetto di “verità” a cui si vuol sempre far approdare ogni pensiero.

Riemerge, dunque, il problema, appena accennato, dell’opposizione fra raffigurazione e informazione; un problema da cui ripartire per riprendere l’indagine cioè sulla natura della violenza, ma a questo punto mi fermo.

Passo ora agli enunciati predicativi dove si dovrà dimostrare che la forma “X è Y” è interpretabile come F(A)= b dove F è un segno di funzione.

L’informazione avviene mediante l’attribuzione di un predicato a un individuo. Questa attribuzione avviene attraverso il verbo essere, ma nel suo senso predicativo. Abbiamo bisogno del verbo essere per definire la predicazione, ma dobbiamo aggiungere che è un essere usato unicamente per la predicazione. Questo costituisce un circolo vizioso.

Del resto Frege, Russell e, sulle loro orme, il Wittgenstein del Tractatus distinguono fra:

1) ESSERE come identità,

2) ESSERE come predicazione,

3) ESSERE come esistenza (usato normalmente in maniera erronea.)

 mettendoci in guardia contro gli errori di analisi in cui si incorre confondendo i diversi significati.

Una possibile via d’uscita da questo vicolo potrebbe essere quella di interpretare il segno È predicativo come un segno di uguaglianza, ma come è possibile l’identità tra individui e predicati che sono termini categorialmente disomogenei? Cominciamo a esaminare alcuni precedenti storici.

Bradley giudicava inesplicabile la predicazione; da una parte, se la si considera un’asserzione d’identità, essa diviene fonte di contraddizioni, perché dichiara che sono uguali cose diverse e dall’altra, ancor più incredibilmente, si afferma che la predicazione si riduce all’incollaggio di un predicato a un soggetto. In un diverso contesto lo stesso problema compare già in Parmenide, nei  Cinici e nei Megarici. La proposizione:

IL CAVALLO CORRE VELOCEMENTE ossia IL CAVALLO È CORRIDORE è uno degli esempi proposti dal megarico Stilpone per illustrare il paradosso. Se, infatti, interpretiamo quell’È come un “uguale” allora l’enunciato diviene:

CAVALLO = CORRIDORE,

ma, poiché anche il cane è corridore, si ha:

CANE = CORRIDORE 

da cui transitivamente:

CANE = CAVALLO.

Da L’UOMO È BUONO si ricava che l’uomo è uno perché è uomo, ma è anche due perché è contemporaneamente sia uomo che buono. Una teoria che interpreta la predicazione come asserzione d’identità deve ovviamente superare paradossi di questo tipo.

Aristotele nella sua Metafisica distingue fra essere della sostanza e essere dell’accidente e l’impossibile identità categoriale. Duns Scoto sostenne l’univocità dell’essere proponendo a sostegno l’analisi della predicazione dove soggetto e predicato devono essere omogenei per poter esprimere un senso, presuppone un’interpretazione della predicazione come identità.

Se consideriamo i due enunciati:

1) SOCRATE (A) È GRECO (B)

2) L’AUTORE DI X (C) È L’AUTORE DI Y (D)

Duns Scoto avrebbe affermato l’univocità dell’essere di A, B, C, D, mentre Aristotele avrebbe negato quella fra A e B.

In sostanza Aristotele nega l’univocità dell’essere anche all’interno dello stesso enunciato; Duns Scoto, al contrario, l’afferma in riferimento a ogni enunciato. È però evidente che fra queste posizioni estreme possa esserci la posizione intermedia che afferma l’univocità all’interno del singolo enunciato e la pluralità fra enunciati diversi ed è proprio questa la via che consente di uscire dai paradossi.

Usciamo dal linguaggio corrente e consideriamo il linguaggio delle proiezioni ortogonali. In questo linguaggio (che non un linguaggio ma solo un sistema informativo perché non riesce a parlare di se stesso) noi eseguiamo operazioni di proiezione con le quali, per esempio, riusciamo a trasferire su più piani bidimensionali e mediante figure bidimensionali le stesse informazioni a noi accessibili in uno spazio tridimensionale.

Proiezione ortogonale di un cubo
Proiezione ortogonale di un cubo

Anche chi ha minime cognizioni del disegno tecnico, non ignora che è possibile rappresentare un parallelepipedo mediante due proiezioni su due piani (preferibilmente ortogonali); due proiezioni ortogonali individuano un cubo mediante due quadrati e, da questi due quadrati, possiamo ottenere tutte le informazioni geometrico-dimensionali riguardanti il cubo originario.

Quando vogliamo tradurre in lingua italiana le informazioni relative a una di queste operazioni e leggere una delle proiezioni, non diciamo:

IL CUBO È UN QUADRATO

anche se, effettivamente, siamo proprio di fronte a un quadrato che sta per un cubo, perché sarebbe come affermare che una figura a tre dimensioni è uguale a una figura a due dimensioni. Diciamo invece:

LA PROIEZIONE DI UN CUBO È UN QUADRATO

Dove il termine “la proiezione” non è un abbellimento stilistico o un’inutile precisazione, ma è un segno di funzione; più precisamente di una funzione che riassume tutte le operazioni codificate e normalizzate che consentono di ottenere da un cubo nello spazio a tre dimensioni un quadrato in uno spazio a due dimensioni.

L’espressione “la proiezione di un cubo” è l’applicazione della funzione “proiezione” all’oggetto “cubo”, applicazione che genera come valore la figura piana: proiezione di un cubo; è in quest’ottica che possiamo interpretare quell’“è” come un segno d’identità e considerare l’enunciato come un’asserzione d’identità del tipo:

 PROIEZIONE DEL CUBO  =  QUADRATO

Nello stesso senso si può analizzare l’enunciato:

SOCRATE È GRECO.

“Greco” sarebbe, così, interpretabile come il valore di una funzione applicata all’individuo “Socrate”; una metaforica “proiezione” dell’individuo “Socrate” sul piano della naziolità. In tal caso “la nazionalità” diverrebbe la funzione che applicata all’individuo “Socrate” genera il predicato “greco”.

Con questa interpretazione “la nazionalità di Socrate” apparterrebbe alla categoria logico-grammaticale del predicato e diventerebbe sensato asserire l’identità:

LA NAZIONALITA’ di SOCRATE = GRECA

senza incorrere nei paradossi cinici e megarici e evitando la necessità di un significato speciale del verbo “essere” come predicazione.

Il paradosso di Stilpone sparisce se esso viene riscritto come:

F(CAVALLO) = CORRIDORE

dove F è difficilmente esprimibile con un termine in lingua italiana, perché non esiste un termine che indichi la capacità di percorrere terreno più o meno velocemente. Quasi adatta sarebbe la funzione “L’andatura da”, ma il trovare o il non trovare questo termine non pregiudica l’interpretazione. Anche:

SOCRATE È GRECO e PLATONE È GRECO

se interpretati come asserzioni d’identità avrebbero generato l’enunciato paradossale:

SOCRATE È PLATONE

Nessun paradosso genera invece l’enunciato:

LA NAZIONALITA’ DI SOCRATE = GRECA

con:

LA NAZIONALITA’ DI PLATONE = GRECA

se non l’ovvia conseguenza che:

LA NAZIONALITA’ DI SOCRATE = LA NAZIONALITA’ DI PLATONE

Quanto al secondo paradosso anche se Socrate e greco sono uno e due, non così la nazionalità di Socrate e greco.

Questa interpretazione permette di evidenziare meglio gli aspetti dell’enunciato come calcolo semantico. Quando noi applichiamo la funzione “nazionalità” all’individuo “Socrate”, in effetti, applichiamo una procedura di calcolo. Non interessa se questo calcolo sia aritmetico o consista nella consultazione di un’enciclopedia, o in un accertamento empirico o in qualcos’altro ancora; l’importante è che si possa eseguire una procedura che permette di decidere. Non abbiamo bisogno di tutto l’enunciato LA NAZIONALITA’ DI SOCRATE È GRECA per decidere; in effetti, ci basta “la nazionalità di Socrate” per eseguire il calcolo è concludere, ottenendo il valore “greco” come risultato. Quando decidiamo sulla verità o sulla falsità dell’enunciato, in effetti, l’individuo Socrate non compare più; l’enunciato si riduce a una delle possibili uguaglianze di tipo a) o di tipo b):

a) GRECO = GRECO,

b) GRECO = TURCO

A fronte delle quali si può effettuare la constatazione che non può essere che di verità per il primo e di falsità per il secondo, considerando poi che dati a) e b) non può essere che sintattica e formale, essendo già stato definito l’accertamento semantico.

Se indichiamo gli individui con lettere maiuscole A, B, C, i predicati con le lettere minuscole a, b, c, i termini astratti con segni di funzione F, G, H, avremo i possibili enunciati non relazionali:

1)  F(A)= b

2)  A = B

che ben mettono in evidenza:

a) come sia necessaria l’univocità dell’essere all’interno di ogni enunciato (Duns Scoto);

b) come questa univocità non possa essere estesa a tutti gli enunciati (Aristotele);

c) come con questa interpretazione l’enunciato predicativo sia un’asserzione d’identità e come, non rendendo necessario un uso speciale del verbo essere e dando un ben preciso significato ai termini astratti (di collocazione sempre difficile), quali la nazionalità, il colore, ecc. si abbia una teoria che funziona.

Molte le conseguenze di questa teoria: almeno immediatamente, si evidenzia come il linguaggio non sia passivo rispecchiamento ma attività sul mondo. Noi c’impadroniamo, mediante funzioni, degli oggetti e ne ricaviamo predicati, assimilando così fra loro due diverse categorie.  La forma generale è ancora quella dell’assimilazione che si riproduce frase su frase, teoria su teoria, modello su modello, formando una filigrana dalla struttura frattale.

22 pensieri riguardo “Linguaggio e informazione, verità e falsità: il travisamento della natura informativa delle teorie

  1. se poniamo è Socrate è greco , se scriviamo solo ” è Socrate” ha ancora un senso, se scriviamo solo “è greco” non sappiamo chi o cosa quindi ” greco” è una qualità di qualcuno. il problema è il verbo essere che da identità a Socrate, ma anche ad una sua qualità. L’identità di una qualità………… ?

      1. Nel mio articolo si parla solo dell’uso predicativo della copula e giustamente Critica Impura scrive “Attenzione, non confondiamo il piano esistenziale con quello predicativo.” per mettere in evidenza questo problema, posto in parte anche dal signor Filippo Massaroni.
        Penso che le questioni di esistenza siano altrettanto complesse e altrettanto importanti anche per la varietà degli enti di cui si dice l’esistenza; si parla, infatti, di esistenza delle persone, degli oggetti esterni, dei personaggi dei romanzi, degli oggetti (o dei concetti matematici) ecc.
        Vi sono quindi varie modalità di esistenza. Quella dei personaggi storici è diversa da quella degli enti teorici, da quella dei personaggi dei romanzi, da quella degli oggetti che ci circondano. In particolare quelli delle favole, dei romanzi di fantascienza, portano nella nostra cultura interi mondi, con leggi, spesso mutevoli e, in parte contraddittorie. Ma non sono simili le nostre esperienze quotidiane quando ci obbligano a entrare e uscire dai mondi presenti nella nostra società? La famiglia, il mondo delle legge e dei tribunali, la scuola, l’ambiente di lavoro, ciascuno con le sue leggi, col suo stile di vita, con le sue verità?
        Penso che le più delicate siano le esistenze delle grandezze teoriche e dei numeri Esistono o non esistono gli elettroni, i magneti elementari, gli dei, le fate, le regine,i maghi, la vis dormitoria ecc. All’inizio del secolo scorso l’esistenza o la non esistenza delle grandezze teoriche costituiva per l’epistemologia il problema principe
        Penso che la miglior risposta l’sabbia fornita Ramsey l’unico pensatore che Wittgenstein stimò tanto da citarlo nelle sue Ricerche Filosofiche. Secondo questo pensatore
        1) non è possibile esprimere le grandezze teoriche con definizioni esplicite
        2) possiamo senz’altro esprimerle una teoria nella forma.
        1) ( x, y, z) ( dizionario) & (assiomi)
        dove x, y, z sono variabili, prese in estensione, su cui non vengono poste condizioni.
        L’intera teoria andrebbe esposta come :”Esistono grandezze x, y, z che soddisfano alle definizioni del seguente dizionario e ai seguenti assiomi.” dove, ovviamente, dal dizionario e dagli assiomi le grandezze teoriche sono state eliminate e sono state sostituite con le variabili che compaiono sotto il segno del quantificatore esistenziale. La formula, suggerisce Ramsey, e’ formalmente simile a quella delle favole “C’era una volta….” in cui le frasi che seguono non hanno significato completo di per se stesse ( né lo potrebbero avere contenendo variabili ) e non sono proposizioni.
        Ramsey asserisce così l’equivalenza fra l’asserire che gli “elettroni” esistono e 1′ asserire la verità della teoria in cui il termine compare, mentre una dichiarazione di esistenza degli elettroni, separata dall’enunciato 1) non sarebbe decidibile perché priva di senso. In questo modo si definisce con precisione il senso della frase “l’elettrone esiste solo se la teoria elettromagnetica è vera”, con tutta l’ambiguità connessa col termine “vera”.
        Per completezza dico due parole su altri tipi di esistenza
        Esistenza degli enti matematici
        Sull’esistenza degli enti matematici, a pagina 66 del suo trattato La scienza e l’ipotesi, Poincarè afferma

        “Mill pretende che ogni definizione contenga un assioma, poiché per definirlo, si afferma implicitamente l’esistenza dell’oggetto definito…..non bisogna dimenticare che la parola ‘esistenza’ non ha lo stesso significato quando si tratta di un essere matematico o quando si tratta di un oggetto materiale. Un essere matematico esiste a condizione che la sua definizione non implichi contraddizione, sia in se stessa, sia con le proposizioni precedentemente ammesse.”

        Verità ed esistenza quindi, almeno per quanto riguarda la matematica, (secondo Poincaré) subordinate alla coerenza.
        Sull’affermazione di Poincarè non tutti sono d’accordo. Russell e Frege non lo erano benché non ammettessero neppure in linnea di principio l’idea di contraddittorietà entro il sistema della logica matematica. Del resto la coerenza, auspicabile all’interno delle singole teorie, non lo è per nulla fra le diverse teorie. Penso soprattutto alle teorie politiche dove la coerenza impedisce non solo la laicità ma anche una definizione di laicità ampia e accettabile.
        Personaggi dei romanzi
        Ben diversa l’esistenza dei personaggi dei romanzi. Ciò che sappiamo di costoro è solo quanto è presente nel testo. Null’altro esiste anche se siamo tentati di vedervi l’esperienza di vita dell’autore nel suo tempo, i suoi sentimenti le sue idee ecc. anche se vengono studiati i contesti, gli appunti, le eventuali altre stesure, i giudizi ecc. Ma appartiene in maniera incontestabile a Don Abbondio, a Emma Zunz, alla Balena bianca ecc. solo ciò che si legge nei testi di Manzoni, di Borges di Melville e nulla di più.
        Con questo non si intende negare l’infinita interpretabilità di un testo ma più semplicemente affermare che, mentre per il Garibaldi storico è possibile che si pervenga a sapere che il tal giorno pronunciò la tal frase, che in tal giorno indossò certi abiti, che alla tal riunione fu assente, le stesse domande non hanno senso se riferite a Don Abbondio o all’eroe del Tamburo di latta. Quel che sappiamo è ciò che gli autori hanno scritto nei testi o lasciano trasparire dalle parole dei testi; non sono, infatti, effettivamente esistiti in una realtà popolata di tracce, di segni, di testimonianze che consentano di svolgere indagini. Sono esistiti nella finzione del romanzo in cui noi lettori ci siamo immersi, supponendoli davvero esistenti, commovendoci con loro, approvandoli o disapprovandoli con sentimenti estetici e non, morali e non, per mantenendoli poi vivi nella nostra memoria e nella cultura collettiva e storica. Lo scrittore non ha scritto solo per noi quei romanzi. Essi fanno parte del magico arabesco che unisce gli uomini e le generazioni.
        Purtroppo si non può certo essere esaurienti su un argomento così complesso

    1. Interpreto la critica di Filippo Massaroni in parte come una rivendicazione del significato di essere come esistere (“SOCRATE è” ha significato in quanto ha significato Socrate esiste, mentre non lo stesso si può dire di GRECO), in parte come una critica alla teoria proposta di considerare un predicato come ciò che una funzione (procedura, processo) produce.
      Rinvio la risposta alla prima critica a quella più esplicita posta da Critica impura, (Attenzione, non confondiamo il piano esistenziale con quello predicativo) e passo alla seconda.

      L’identità della predicazione è da sempre problematica Micidiali furono gli attacchi portati da Bradley che riassume le situazione con queste parole
      Non sembra possibile sottrarsi all’antico dilemma secondo il quale se si predica ciò che è differente, si attribuisce al soggetto ciò che non è e se si predica ciò che non è differente, non si esprime assolutamente nulla (Apparenza e Realtà, Rusconi. p. 158)
      La conclusione di Bradley, pur tenendo conto dell’evidente confusione fra variabile (incognita) e costante (nota), è ancora la conclusione attuale. (la signora Caporossi evita con sagacia la trappola con due variabili e intelligentemente usa l’espressione X=Y)
      Stando così le cose, con la teoria esposta, mi proponevo di eliminare le anomalie esposte da cinici e megarici, distinguere le accezioni del verbo essere ed eliminare, in conformità al rasoio di Occam, l’inutile uso dell’essere come predicazione che, come insinua, tra gli altri, anche Bradley, “incolla una qualità” a un qualcosa (Non potendo asserire l’identità fra soggetto e predicato ( SOCRATE non si identifica con GRECO così come la proiezione di un quadrato non si identifica con un cubo cos’ come un edificio non si identifica con una sua fotografia) non può che inventarsi l’attribuzione e l’accezione del verbo essere come attribuzione.
      La teoria mette in evidenza le proposizioni come modello e, quindi, ASSIMILAZIONI. Col linguaggio noi perdiamo e conquistiamo il mondo. Perdita e conquista sono profondamente connaturate: non diversamente dal contadino che trasforma il bosco in un orto assimilando il bosco al suo uso, il linguaggio colonizza il mondo e prefigura un destino di perdita e di conquista, di illuminazione e di annullamento: Noi, anche col linguaggio, non guardiamo o raffiguriamo il mondo ma lo mangiamo, lo trasformiamo, lo assimiliamo ed espelliamo ciò che assimilabile non è.

      Oggetti e fatti non sfuggono al processo. Guarda caso essi corrispondono linguisticamente a nomi e proposizioni. Nel lungo cammino di assimilazione fatti e oggetti da una parte e nomi e proposizioni dall’altra, sono andati convergendo e assimilandosi reciprocamente. Non esistono cose, fatti o stati di cose. Cose e fatti sono modelli d’uso informatizzato del mondo. Il mondo è un linguaggio informatizzato e il linguaggio è un mondo incarnato.
      Nel linguaggio è prefigurato il destino di tirannia e perdita come nell’interazione uomo mondo si genera in continuazione l’assimilazione mondo linguaggio.

      Nel suo saggio On Denoting del 1905 Russell propone che la bontà di una teoria sia giudicata dalla difficoltà che risolve; quella da me esposta non risolve solo le obiezioni megariche, ciniche e i possibili dubbi riguardo al corretto uso del termine essere ma riesce ad assegnare uno statuto logico e un senso a proposizioni del tipo “La neve è mammifera” in precedenza giudicate insensate, ingiudicabili e quindi né vere né false

      A lungo la filosofia del linguaggio s’è interrogata su frasi del tipo “La neve è mammifera” o “Questa pietra sta pensando a Vienna” un famoso esempio discusso da Carnap ed è sempre stata decisamente propensa a considerarle semanticamente insensate entro un suddivisione che suddivideva le proposizioni in sensate o insensate, le sensate in vere o false, le false in sintatticamente o semanticamente false secondo uno schema di questo tipo
      proposizioni:sensate vere, sensate false; false sintatticamente, false semanticamente; proposizioni insensate.

      E inseriva le frasi del tipo “Questa pietra è mammifera” fra le insensate mentre con la teoria da me proposta è possibile considerarle sensate e false.
      La dimostrazione, intensionalmente complicata, estensionalmente è molto semplice. Se si considera che:
      la classe delle PIETRE è subordinata a quella di ENTITÀ INANIMATE
      la classe delle MAMMIFERI è subordinata alla classe delle ENTITÀ ANIMATE
      il che porta a concludere che ESISTE ALMENO UN’ENTITÀ ANIMATA NON ANIMATA, proposizione palesemente falsa perché contradditoria e concludere che le proposizioni del tipo “LA NEVE È MAMMIFERA” non sono insensate ma false.

      Ezio Saia

  2. Se l’unico modello totalmente esaustivo di qualunque oggetto, fisico o mentale, può essere solo l’oggetto stesso, ne discende che qualunque proposizione su di esso può essere solo parziale. Per questo l’unica possibilità di accedere ad una rappresentazione sempre più ampia della realtà risiede nell’interconnessione delle menti e dei saperi. Questo processo di integrazione dei modelli caratterizza la storia umana fin dai primordi con l’uso del linguaggio e poi con la scrittura, e oggi, grazie alla tecnologia, lo vede attuarsi e ampliarsi in modo esponenziale. Tutto questo, però ci porta a una situazione paradossale: la necessità di abbattere i confini tra le infinite rappresentazioni si scontra con la possibilità del loro rimescolamento caotico, consentito proprio dalla potenza degli strumenti di cui disponiamo. Ecco perché rimettere i puntini sulle i della struttura degli enunciati, come si fa in questo bellissimo articolo, è ancora indispensabile.

  3. « Questo è fondamentale: un modello non può contenere tutte le informazioni dell’oggetto di cui è modello. Il modello totale di un sistema è solo il sistema stesso: l’unico modello totale di un edificio è l’edificio stesso[…] Il modello t
    otale dell’oggetto, del sistema, del mondo non può essere che l’oggetto, il sistema, il mondo. Ogni modello, ogni teoria rivelano in quanto danno accesso a informazioni e perdono in quanto è la stessa procedura d’accesso a comportare perdita di altre informazioni.»
    Perfettamente d’accordo, solo che io non chiamo modello totale l’edificio stesso. Io lo chiamo “processo”. http://www.archetipisimboli.com/blog/2012/08/30/principio-e-funzione-processo-e-modello

  4. Devo rileggermelo meglio.Perché ci sono delle cose che dice che mi pare vadano contro consolidate teorie standard della semantica. Però forse queste stravaganze potrebbero essere collegate ad un tipo di logica idealista e quindi essere interessanti per altri versi. Cito due stranezze: 1- che il nesso predicativo sia una sintesi di identificazione (forse è così in Kant, Hegel, Husserl, Gentile) ma non lo è in Frege e nella logica moderna, per cui la predicazione è una funzione aletica, e non è una funzione oggettivante, o sia non produce oggetti categoriali, contenuti informativi, o modelli, ma ha semplicemente una applicazione corretta o scorretta secondo regole ad un argomento, che è l’unico oggetto di cui si possa parlare nella predicazione.2- collegato al primo punto, veramente strano, risulta che il valore di una funzione predicativa non sia la verità ma un predicato che sostituirebbe l’oggetto individuale. E tanto lo sostituisce che il calcolo semantico viene interpretato come un’algebra dei predicati con l’identità. Ma questa non è più la logica predicativa del primo ordine, perchè banalmente, non quantifica più su individui e non ammette perciò neanche valori di verità per funzioni, ma oggetti di ordine superiore, le categorie. Volendo poi fare un esempio, è vero che un modello non è l’oggetto, come un predicato non è un individuo, ma la conoscenza rimane sempre sotto l’ordinamento aletico, veritativo, perchè se posso sempre fare del predicato un oggetto categoriale di ordine superiore e porne i nessi di implicazione e d’identità con altri predicati tramite un calcolo algebrico, poi quando devo parlare del reale e non del modello devo decidere sulla verità della sua applicazione. Comunque da rileggere e approfondire, perchè queste sono il genere di cose su cui si può arrivare a chiarezza.
    Rosario Gianino

  5. Il problema, secondo me, è nel fondo copulativo del verbo essere, Rosario. Il verbo essere occorra pensare e ripensare, non l’identificazione che è già di per sé un salto nella categoria. Non so se mi sono spiegata.
    Sonia Caporossi

  6. Appunto che alla predicazione occorra la copula lo si pensa in logica idealista, cioè in quella logica che da Kant ad Husserl compreso Hegel e Heidegger pensa che alla predicazione occorra una terna di elementi due oggettuali ed il terzo veramente categoriale e portatore di tutte le modalità categoriali, l’elemento sintetico, l’essere. Ma la novità di Frege è che la predicazione si applica all’individuo senza bisogno di alcun verbo essere, senza sintesi e senza categoria sintetica, solo perchè è una funzione insatura ad un posto. Penso così. Predicare non è cogliere l’essere così e così di qualcosa, questo sarebbe già predicare di un predicato, dire che è, costituire uno stato di cose, ma semplicemente dire di qualcosa il vero o il falso.
    Devo questa idea della predicazione alla lettura di Ernst Tugendhat. In ogni caso, a parte la chiarezza con cui l’ho potuto dire, una cosa è certa, è assolutamente bizzarro affermare che nel nesso predicativo non è questione di verità ma di identità. E’ una cosa da eretici. Da impuri assai ! 😉
    Comunque si è capito che mi è piaciuto l’articolo !
    Rosario Gianino

    1. Ma precisamente il dire di qualcosa il vero e il falso non si applica che per il tramite di un’attribuzione surrettizia della funzione copulativa per la quale qualcosa è vero e falso, ed allora regrediamo indefinitamente alla ricerca del quid (questo davvero idealistico) che ci consenta di predicare il vero e il falso di quicquid. Predicare non è cogliere l’essere (sarebbe la terza sua funzione esistenziale, di cui qui non si parla), perché l’essere così detto sarebbe categoria, tuttavia l’essere è anche predicativo. A ben guardare Saia non dice che nel nesso predicativo non è questione di verità ma di identità. Dice che Frege – Russell – il Wittgenstein del Tractatus affermano tre possibilità: essere come identità, essere come predicazione, essere come esistenza, e si sofferma a parlare del primo. A mio parere, fa bene ad approfondirlo: perché a mio modesto avviso la natura intrinsecamente tautologica del linguaggio affermata da Wittgenstein si basa proprio su questo spostamento indecidibile fra predicazione e identità. Cioè, la mente umana non sa rendere ragione della predicazione che, molto spesso,si manifesta all’atto sotto un presunto aspetto identitario, il quale, a sua volta, bada bene, non consiste nell’uguaglianza, bensì pertiene ad un complesso concetto di assimilazione, che sicuramente deve essere ulteriormente approfondito, ma che io personalmente (non so Saia che cosa ne pensi) faccio risalire alla natura sostanzialmente analogica e costruttiva del linguaggio. Per questo, questo trattato di logica formale avvalora notevolmente, forse senza saperlo, la teoria in cui credo fermamente, di natura eminentemente estetica, del linguaggio come strumento (tratta dal Wittgenstein delle Ricerche Filosofiche); e pensa che Saia mi ha mandato il suo scritto in risposta al mio “Fatti e interpretazioni” proprio per dire che non era d’accordo con questa concezione, che secondo lui il linguaggio non è strumento, ma un sistema informativo: non s’è reso lì per lì conto che per me e per l’estetica pari sono!
      🙂
      Sonia Caporossi

  7. Emanuele Severino non la penserebbe proprio così e ci ha costruito tutto un sistema monolitico, una rete o trappola per topi, dove una volta entrati non si esce più. E non la pensava così Pierre Boutang con il suo Ontologie du secret. Mi sembra, correggetemi, che sulla natura analogica del linguaggio non si sia detto e fatto abbastanza, oppure sono io ad essere poco informato. Ricordo sopratutto Enzo Melandri con La Linea e il Circolo.
    Emanuele Giordano

    1. Di Melandri on ho letto LA LINEA E IL CIRCOLO ma solo L’Analogia, la proporzione la simmetria e mi è piaciuto, anche se naturalmente non sono d’accordo su tutto. comunque ce ne fossero tanti di Melandri! Dal concetto di analogia sono convinto che ci si possa spingere molto avanti in quell’indagine sulle componenti analogiche
      che sembrano anche interessare molto alla signora Caporossi. L’analogia è una figura che confina non solo con il modello, la raffigurazione e la simulazione ma anche con la modulazione e con la metafora
      Grazie del commento al mio articolo
      Ezio Saia

  8. Ripeto, la relazione predicativa non è relazione d’identità, che altrimenti dovrei dire che l’oggetto del termine singolare è lo stesso dell’oggetto del termine predicativo. E questo che sta alla base della visione standard di Frege. Almeno Saia dovrebbe affrontare la questione. Non può ignorarla. Non può ignorare che tutto la filosofia analitica usa nozioni diverse che probabilmente corrispondono a soluzioni diverse al problema del significato del verbo essere. Per Severino, poi, la relazione d’identità non è relazione di un termine con se stesso ma di una relazione con se stessa, così presuppone sempre la differenza tra i termini predicativi (A è B). In Severino è la struttura predicativa ad essere eterna, non le sue componenti singolarmente prese, gli oggetti. Questi sono eterni perché assicurati nella struttura che li collega, l’essere, ma questa non li identifica, altrimenti avremmo la contraddizione. La rivoluzione di Frege è aver deciso che quando dico qualcosa di vero o di falso, sto solo applicando una regola rispetto ad un oggetto, non sto cogliendo l’essere predicativo o indentitario di alcunché., verifico la correttezza di una attribuzione. Questo non significa che stia cogliendo l’esser in un certo modo di qualcosa. Questo coglimento (l’intuizione categoriale di Husserl o la sussunzione categoriale di Kant) che presupporrebbe che io giudicando abbia a che fare con oggetti astratti dentro cui si dispongono gli oggetti concreti, è in logica moderna considerato non solo uno psicologismo cognitivo ma persino un errato modo di analizzare la predicazione. In una predicazione c’è solo l’oggetto concreto, non c’è un esser così. Proprio perché l’esser così, il concetto, è una funzione e non una oggettualità. Posso far diventare la funzione un oggettuale, ma perché la costituisco linguisticamente in un ordine predicativo di secondo grado in cui parlo dei concetti e non degli oggetti. Ma questo tipo di predicazione è un suo caso non la natura della predicazione. La predicazione non può assimilare i due termini in cui funge, perché i due termini sono di natura ontologica diversa. L’uno è un oggetto l’altro è un concetto. La predicazione è primitiva, la sua dualità è primitiva. Che la predicazione debba essere identificazione nel senso di una assimilazione, quindi che le soggiaccia alla struttura lineare una autopredicazone o un circolo (Io=Io) mi pare sia tradizione platonica (non a caso forse si parla di modelli) di una morfologia del pensare (che continua in Kant, Hegel, Husserl – qui con qualche distinguo importante). Ma la tradizione logica aristotelica (tutta l’analitica e la logica simbolica) tiene fermo il “ti kata tinos”. Si parla di qualcosa (l’oggetto) sempre secondo un suo rispetto o aspetto, per cui quando lo si “identifica” non lo si modellizza o esemplarizza o sussume categorialmente, ma semplicemente lo si “individua” o “indica” come argomento disponibile ad una specificazione o caratterizzazione che segue una regola. Questa regola non è l’identificazione. Altrimenti dire che “la penna è rossa” vorrebbe dire “La penna è questo colore rosso della sua superficie, mentre vuol dire “E verò che la penna è rossa”.
    Se ho detto qualche corbelleria accetto volentieri di essere corretto. L’argomento è difficile e richiede studio, ed è di grande interesse. Ho scritto ora estemporaneamente quello che si è sedimentato nelle varie letture.
    Tutto il problema della verità, sottratto alla necessità di pensarlo come affermazione di un assiomatico principio di autoidentità della cosa con se stessa, è già in Frege sottratto al problema di una Vorstellung assimilatrice o analogica. Il Mare del Nord è quello che differenti sensi indicano o su cui differenti sensi puntano. Ma i sensi non puntano, indicano, si riferiscono al Mare del Nord perché ne proiettano analogicamente alcune caratteristiche. Si riferiscono al Mare del Nord perché mantengono alcune regole di applicazione funzionale. Per rendere conto di queste regole non bisogna per forza pensare ad una teoria della raffigurazione plastica o strutturale. Il linguaggio dovrebbe essere immagine proiettiva delle cose. Ma non è necessario. La verità non è una immagine del mondo ma una apertura del mondo. La verità non rappresenta il mondo ma mi permette di incontrarlo. I termini singolari devono avere un rapporto semantico con la realtà, nel nesso predicativo. Quando dico che “Quello è il Mare del Nord” non sto parlando di un modello, di un esemplare, di una rappresentazione, ma proprio della cosa lì fuori, secondo regole del mio sistema di Senso. Quindi direi che se si vuole comunque pensare che il sistema dei sensi, dei postulati di significato, delle attribuzioni, sia un sistema proiettivo e modellizzante, bisogna sempre ammettere che il rapporto di applicazione del modello alla realtà sta sotto un ordinamento vero-falso, corretto-scorretto e non assimilabile/non assimilabila, analogico. Analogico può essere l’ordine categoriale in cui parlo delle cose, ma il mio parlare di qualcosa o è vero o è falso. Cioè o si applica a una cosa o no. Non credo che si può sostituire l’analogia alla logica della verità. Appunto perché la verità non è l’autoidentità della cosa ma il nostro riferirci alla cosa.
    Rosario Gianino

    1. Comunque io non direi che Frege non consideri il fattore copulativo del verbo essere; in Concetto e oggetto mi sembra che lo tematizzi e lo distingua dal quantificatore esistenziale in modo che poi verrà messo in crisi da Russell. O forse non ho capito bene che cosa volevi dire tu, spiegami.
      Sonia Caporossi

  9. Ok Grazie. So che Frege ha dedicato al verbo essere una analisi, si trova in “Dialogo con Punjer”. Un esame di questo si trova in Monticelli, “Esercizi di pensiero”. La copula come quantificatore esistenziale (esiste qualcosa che…) è un modo di vincolare la variabile predicativa ( qualcosa è verde) in modo che ne esce (c’è qualcosa che è verde), ma non spiega il nesso predicativo (qualcosa è verde). Giusto. Ora questo nesso predicativo non è una identificazione, ma una relazione di appartenenza di un oggetto ad una classe (in termini estensionali) o di caratterizzazione di un oggetto in termini intensionali che viene simbolizzata facendo sparire il verbo essere è mettendo al suo posto la funzione V(x) (x è verde) che è diversa da N(x) (x è nero). Se intendiamo con f(x) l’essere in un certo modo di qualcosa, questo ha come valori non l’identità dell’oggetto ma il valore di verità della funzione; f(x)= il vero/il falso è la forma della proposizione predicativa. Il segno d’uguale non fa corrispondere ad un oggetto il risultato dell’applicazione della funzione , ma alla verità. Invece a me pare di capire che per Ezio f(x) = l’oggetto individuale.
    Rosario Gianino

    1. Sì, finché però non arriva qualcuno che comincia a ragionare sulle classi in termini di insieme di insiemi che appartengono a se stessi, tale che non si sa più se appartengono o meno a se stessi: l’antinomia di Russell, insomma. Ed anche se quella estensione è solo una interpretazione di quella relazione e non coglie tutto, tuttavia tramite essa si manifesta un inghippo proprio sul piano del nesso soggetto – attribuzione ad una classe. Che è precisamente ciò che fece prendere un colpo a Frege quando ricevette la formulazione dell’antinomia di Russell. Il fatto che non colga tutto non è un handicap, a mio parere; infatti, proprio per questo, paradossalmente, mette in crisi l’asserzione di qualsiasi tavola di verità, perché le tavole di verità pretendono applicabilità universale. Fatto sta che Frege, dopo ciò, dovette rivedere la sua filosofia.
      Sonia Caporossi

  10. Sì, ma infatti il nesso predicativo è prima delle sue interpretazioni logiciste; ha un campo di problematiche suo che riguarda la differenza semantica tra termini singolari e termini predicativi, o concetti o funzioni.
    Rosario

    1. Se è vero che il nesso predicativo citato da Rosario “è prima delle sue interpretazioni logiciste” forse è anche vero che, come traspare dal discorso della signora Sonia Caporossi, l’ascesa dei tipi, degli ordini o dei ranghi ecc. è qualcosa che va al di là della logica del logicismo, di Frege e di Russell e costituisce un vero e proprio di comprensione del mondo.
      Se la varietà e molteplicità delle teorie ‘sotto i vari punti di vista’ costituiscono una proliferazione orizzontale di teorie e di verità, a questa proliferazione orizzontale si aggiunge un perfido meccanismo che complica all’infinito il problema.
      Il meccanismo è questo: si costruisce una teoria sul mondo e ci si chiede se è vera; per rispondere a questa domanda bisogna, però, sapere cosa si intende per “verità” e quindi avere una teoria a questo riguardo. In tal modo avremo non più una sola teoria, ma due ed entrambe dovranno, essere giustificate da altre teorie e queste, a loro volta da altre. In fondo la teoria di Tarski produce questo meccanismo; costruisce una semantica per il concetto di “verità” e ottiene come risultato una gerarchia ascendente senza fine di linguaggi, ciascuno con il suo concetto di verità. Ognuna di questa verità verrà definita, sempre, nel linguaggio di ordine superiore rispetto al linguaggio cui si riferisce. Il risultato sarà, non una definizione, ma un sistema di definizioni che, in definitiva, non definisce.
      Tutto ciò è implicito nella forma generale di un paradigma (vincente nell’evoluzione ma inadeguato) di occuparci del mondo. Un paradigma gerarchico nel suo infinito ascendere che poggia sull’agire di un soggetto e sul patire di un oggetto o viceversa. Quello che voglio dire è che il paradigma prevede che
      qualcosa succede perché qualcosa lo provoca
      così si generano le “antinomie” del motore immobile che muove se stesso, della causa che causa se stessa e così via. Così si generano tutte le fughe l’infinito troncate abusivamente. Tutte antenate di teorie come quelle dei tipi di Russell e della verità di Tarski. Un paradigma gerarchico è illimitato e sta a quello circolare come il cilindro (di per sé è illimitato e bisogna troncarlo per dargli un tetto e una base) sta alla sfera.

  11. Risposta alla signora Caporossi e al Signor Gianino
    Il signor Gianino dice “ora questo nesso predicativo non è una identificazione ma una relazione di appartenenza di un oggetto a una classe” e su questo ragionamento in termini di logica e di classi come estensioni di concetti sono d’accordo.
    Dire “QUESTO È b”, equivale nel linguaggio che noi usiamo e che i logici hanno formalizzato equivalente al sintagma “APPARTIENE ALLA CLASSE DEI b”
    Gianino dice anche che interpreto QUESTO È ROSSO come un’identità, e anche questo è vero purchè sia chiaro che l’identità a cui mi riferisco non sia “QUESTO = ROSSO ma IL COLORE DI QUESTO = ROSSO
    Detto ciò faccio ancora notare come l’essere come identità incorre nei paradossi megarici: così
    IL CANE È VELOCE
    IL CAVALLO È VELOCE
    Se interpreto è come un =
    genera
    CANE = VELOCE
    CAVALLO = VELOCE
    e per la proprietà transitiva del segno =
    CANE = CAVALLO
    Se li traduco come suggerisce Frege nella lingua estensionale delle classi (logica + segno ) ottengo
    IL CANE APPARTIENE ALLA CLASSE DEI VELOCI
    IL CAVALLO APPARTIENE ALLA CLASSE DEI VELOCI
    E componendoli
    CANE E CAVALLO APPARTENGONO ALLA CLASSE DEI VELOCI
    ma non l’enunciato paradossale
    CANE = CAVALLO
    Ugualmente per la tesi da me proposta
    LA CORSA DEL CAVALLO È VELOCE
    LA CORSA DEL CANE È VELOCE
    Producono
    LE CORSE DEL CAVALLO E DEL CANE SONO VELOCI
    ma non
    CANE = CAVALLO
    Entrambe le interpretazioni evitano i paradossi e, se come asserisce Russell una teoria si giudica anche dalla capacità di risolvere i paradossi, dobbiamo concludere che sia quella menzionata di Giannino che risale a Boole-Frege sia quella che propongo risultano adeguate.

    A lungo la filosofia del linguaggio s’è interrogata su frasi del tipo “LA NEVE È MAMMIFERA” o “QUESTA PIETRA STA PENSANDO A VIENNA” ( questo è il famoso esempio discusso da Carnap) ed è sempre stata decisamente propensa a considerarle insensate entro una classificazione che suddivideva:

    LE PROPOSIZIONI IN SENSATE E INSENSATE
    LE PROPOSIZIONI SENSATE IN PROPOSIZIONI VERE O FALSE

    e inseriva le frasi del tipo “QUESTA PIETRA È MAMMIFERA” fra le insensate mentre sia con la teoria da me proposta sia con quella di Gianino è possibile considerarle sensate e false.
    La dimostrazione, intensionalmente complicata, estensionalmente è molto semplice. Se si considera che:
    la classe delle PIETRE è subordinata a quella di ENTITÀ INANIMATE
    la classe delle MAMMIFERI è subordinata alla classe delle ENTITÀ ANIMATE
    si può derivare che ESISTE ALMENO UN’ENTITÀ ANIMATA NON ANIMATA, proposizione palesemente falsa perché contradditoria e concludere che le proposizioni del tipo “LA NEVE È MAMMIFERA” non sono insensate ma false.

    Dal punto di vista dei paradossi entrambe le teorie si comportano bene e a questo punto la scelta (ammesso che sia necessaria) diventa una questione di filosofia del linguaggio. Perchè la scelta di quel modello di predicazione? 1) Perchè al di là del non richiedere un uso speciale del verbo essere, al di là di assolvere al rasoio di Occam, mi pare quella assolutamente più aderente al nostro agire nel mondo. 2) Perché è coerente con una filosofia votata a chiarire la natura delle teorie come modelli a partire dal più semplice enunciato, fino alle teorie più sofisticate.

    In una replica non si può certo illustrare una filosofia mi limiterò quindi a toccare qualche punto che possa almeno far intravedere i vari perché.

    A) Ciò che noi chiamiamo mondo è un prodotto d’interazione. L’Interazione fra individui, aggregazioni di individui e mondo esterno ha fatto emergere il mondo e il linguaggio in un rapporto di continuo interfacciamento.
    Noi parliamo del mondo come se esistesse un mondo esterno vergine a nostra disposizione, ma in realtà la continua interazione ha prodotto una modulazione della realtà e l’emergere di un linguaggio che tendono all’isomorfismo. Noi parliamo tranquillamente di fatti e oggetti del mondo come mattoni del sistema mondo, rispecchiati nel sistema linguaggio da proposizioni e nomi, ma questa corrispondenza non è casuale. Mondo e sistema informativo sono cresciuti e crescono l’uno colonizzando l’altro.
    Il nostro mondo è in un certo senso un linguaggio incarnato e il nostro linguaggio è un mondo colonizzato dall’informazione. Noi abbiamo assimilato il mondo colonizzandolo col linguaggio, così come il contadino assimila il bosco tagliando gli alberi e trasformandolo in pascolo per le sue pecore o in orto per i suoi ortaggi. Nel linguaggio è prefigurato il destino nostro e del mondo. Un destino di colonizzazione, di conquista e di perdita.

    B) Ha ragione Gianino quando, a proposito della mia teoria, dice che “un modello non è l’oggetto come un predicato non è un individuo”. Ciò che ho proposto è proprio che tra un predicato e un individuo esistano le stesse relazioni che tra un edificio è il suo modello.
    Ha ragione anche quando sostiene che la logica proposta non è quella di Frege ma forse in un senso diverso da quello che lui intende. Categorie? Perchè no! L’importante è non limitarle ma estenderle al generale concetto di Funzione.

    C) Quando parlo di Funzioni, di oggetti e di predicati non parlo il linguaggio della logica o almeno non nel senso con cui ne parlavano logici come Carnap, Frege, Russell. Non parlo solo di funzioni F che applicate a oggetti ci danno predicati e neppure solo di procedure linguistiche ma di insiemi di operazione strutturate che operano su un qualcosa per trasformarlo, come fa, ad esempio una cuoca quando lavora patate e dopo averle pelate, affettate e fritte, ci restituisce patatine fritte o come fa un geometra che,misurata una casa, ce la rappresenta con una serie di disegni; ad esempio, quattro viste dal’esterno e un certo numero di piante e sezioni.

    D) Anch’io mi sentivo un logico ma l’entusiasmo, per ciò che mi sembrava lo svelamento di una verità s’è affievolito. Frege, Russell si sentirono obbligati a negare la liceità di espressioni come:
    ESISTE L’ESSERE, ESISTE IL NULLA, ESISTONO COSE CHE NON ESISTONO
    Questi limiti al linguaggio, che allora mi parevano giusti rimedi a una malattia, oggi almeno in parte, mi sembrano vioncoli artificiali alla capacità del linguaggio di svolgere le sue funzioni comunicative anche in presenza di concetti e significati più o meno vaghi, più o meno incerti, più o meno definiti.
    E) Puntualizzo inoltre che non voglio usare o appellarmi al “linguaggio comune” ma semplicemente a “il linguaggio”.(Wittgenstein non parlerebbe di “il linguaggio” ma parlerebbe di giochi linguistici, comprendendo in questi giochi anche il linguaggio della logica. Penso che Wittgenstein, nelle Ricerche filosofiche che nella Grammatica filosofica e nelle Osservazioni sui fondamenti della matematica, equivochi sul termine “linguaggio”)
    Ritengo che per una corretta comprensione del linguaggio siano importanti Frege, Russell, Wittgenstein ma anche, ad esempio, i meno conosciuti Meinong e Ramsey, il primo per la sua decisa presa di posizione a favore dell’esistenza di entità come il quadrato rotondo, il secondo per la sua teoria delle definizioni esplicite e per la formula che porta il suo nome.
    Con la prima asserisce non solo l’impossibilità di definire correttamente le grandezze teoriche con definizioni esplicite, ma anche il sicuro danno che ne sarebbe derivato per lo sviluppo stesso delle teorie che sarebbero risultate tanto più recalcitrante a evolversi quando più stringente fosse risultato il complesso delle definizioni esplicite.
    Con la seconda dimostra come sia possibile compendiare tutta una teoria in una formula (detta formula di Ramsey) in cui non compaiono grandezze teoriche ma solo variabili di cui si asserisce l’esistenza. Non meno importante risulta la circostanza che non sia possibile asserire alcuna proposizione singolare se non in congiunzione logica con l’intera teoria
    La questione delle definizioni esplicite, quella delle grandezze teoriche, la tesi ampiamente documentata di Pap dell’impossibilità di suddividere i predicati in teorici e osservativi così come argomentato da Carnap, mi confermano nella convinzione che il linguaggio sia preteoria. Che non esistano solo teorie e non-teorie ma vari gradi di forme e preteorie intermedie.
    Preteorie sono ad esempio il linguaggio e la matematica.
    La matematica da un certo punto di vista è un corpo unico, coerente interconnesso con i suoi enti e i suoi teoremi, dall’altro un insieme di tecniche, di linguaggi, di eresie. In ogni caso con i numeri, le funzioni, gli algoritmi matematici esprimiamo la fisica e in generale la scienza le cui varie discipline ci appaiono tanto più progredite e affidabili, quanto più riusciamo a matematizzarle.

    F) Molto importante mi pare la questione del rapporto fra componenti analogiche e componenti digitali del linguaggio posta soprattutto dalla signora Caporossi ma essendo in grado di trattarne solo con l’aiuto di grafici e disegni non posso che rinviare a un articolo.

    1. L’errore, quando si parla di “essere” è confondere i differenti piani semantici cui “essere” rimanda; cronologicamente non meno che succintamente essi sono: 1) “essere” come nome del tempo [«Un verbo è ciò che in più significa il tempo» Aristotele, De Interpretatione, 3, 16b, 6 o ancora:«L’essere non è essere di niente, infatti ciò che è non è un genere» Analitici Secondi, B7, 92b, 13-14; concezione ripresa pedissequamente o quasi da Kant: «Essere, manifestamente, non è un predicato reale, cioè un concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa» Critica della ragion pura, p. 380]. 2) “essere” come affermazione a partire dall’analisi dei sillogismi operata dalla Scolastica con l’introduzione della “copula” [Se A è vera, se B è vera allora anche C lo è ecc.] e dunque come giudizio [si veda Rickert dove essere è pensare e pensare, oltre Parmenide, è già giudicare]. 3) “essere” come identità [Frege e Russell ecc.]; 4) “essere” come esistenza [già confutato da Abelardo con la dimostrazione per absurdum: se affermo che “Socrate è” e sottintendo ad “è” un “è esistente” devo poter sostituire nell’enunciato “Socrate è” con “Socrate è esistente esistente” ecc.].
      Analogamente non devono confondersi funzioni logico-sintattiche con questioni di ontologia. Il paradosso di Russell è facilmente risolvibile dal punto di vista linguistico. E, purtroppo, troppo spesso l’ontologia non si riduce ad altro che mistificazioni linguistiche.
      Grazie dell’ospitalità.

      L.

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