Di ALESSIO BARETTINI
Nel settembre del ’94 David Bowie si recava, insieme all’amico e produttore Brian Eno, al Gugging, un ospedale psichiatrico in Austria. Non si trattava di una visita di cortesia, ma di una ricerca, l’ispirazione che sarebbe servita per la composizione di 1.Outside, l’album che al pari di Station to Station e Blackstar esplora quello che arditamente potremmo chiamare il lato oscuro di David Bowie, con la differenza che 1.Outside riflette in modo approfondito sul concetto di arte e specificamente di arte alla fine del millennio.
Partiamo da lontano, da Joe the Lion, 1977, una canzone uscita nell’album Heroes. Siamo a Berlino. In quelle notti alcooliche Bowie e Iggy Pop assistono a una performance mitica, tenuta da un artista che si chiama Chris Burden e che si fa crocifiggere e legare sul cofano di una Wolkswagen e in questo modo si lascia trasportare (“Nail me to my car and I’ll tell you who you are”). Nell’album del 1995 Bowie riprende indirettamente quel discorso esplorando la definizione e il significato dell’arte nelle opere contemporanee, un’epoca ricca di performance eccessive, mirabolanti, pericolose. Ma questa storia, dal 1977 al 1995 non si è mai fermata. Bowie fa riferimento ad artisti dell’epoca di Burden, i castrazionisti viennesi, Nitsch e Ron Athey, e ad altri ancora che negli anni ’80 hanno esplorato e superato il confine, definendo ciò che si può considerare arte e cosa invece tende a non essere accettato come tale.
Lo fa con un pretesto, inventandosi, ancora una volta, un altro personaggio, il detective Nathan Adler, il cui cognome è un simpatico riferimento a un certo psicologo di fama mondiale. Ma Adler non è un detective normale, lui è direttore della Divisione Crimini Artistici perché in questo futuro prossimo, in questo noir metafisico, onirico e pulp, (siamo nella notte di Capodanno del 2000) gli artisti vanno ben oltre l’automutilazione, la castrazione o le ferite autoinflitte: uccidono, ma nel nome dell’arte.
C’è una fotografia, di quella visita al Gugging, scattata da Christine De Grancy, che ritrae Bowie e Eno completamente immersi nella visione di un disegno realizzato da uno degli ospiti permanenti della struttura. Non è il caso di perlustrare le radici comuni di arte e follia, ma vale la pena ricordare che pochi anni prima il fratellastro amato, Terry Burns, era morto scappando da Cane Hill, uno degli ultimi manicomi inglesi nel quale viveva da anni. Il suo amore per Terry era già venuto fuori nei primi anni ’70 e in canzoni come All the Madmen, The Bewlay Brothers e aveva trovato la sua chiusura in Jump They Say, del 1993, dedicata alla sua triste fine. Nella foto successiva della serie Bowie ha alzato la testa e sta sorridendo a Eno: i due sembrano convenire sulle sensazioni provate, la strada dell’album sembra essere tracciata. Poco prima di morire, senza spiegare apertamente nulla, David aveva scritto una mail a Brian, ringraziandolo e dicendo che sperava, un giorno, di continuare quell’album, che nelle intenzioni avrebbe aperto una trilogia.
1.Outside è un concept album. Era dai tempi di Diamond Dogs che non accadeva. Siamo davanti a un’opera sperimentale anche dal punto di vista musicale; le registrazioni corali, gli eco, le voci campionate, i molti effetti, le cavalcate di piano di Mike Garson, la batteria industrial, certe b-sides che affondano i nuclei musicali nei concetti di musica minimalista e ricorsività fino a raggiungere anche i 20 minuti.
Lo stesso si può dire per l’aspetto narrativo, concettuale: la sua storia è un hypercycle, una sorta di narrazione paradossale. Si tratta di visualizzare un evento A che produce un B che produce un C che produce un D che ri-produce A. Ricorsività. Impossibilità di uscire da un meccanismo. Fenomeno chimico e naturale di autoregolazione utile a raffigurare certi processi, qui evidente riflessione paradossale sullo stato dell’arte contemporanea confinata a due passi dal nuovo millennio. Per comporlo Bowie si è avvalso di due strategie particolari: un software da lui stesso concepito, il Verbasizer, una sorta di rielaborazione del cut-up in cui Bowie inserisce alcuni elementi come personaggi, scenari, ambientazioni, tempi che vengono combinati in modo casuale dando vita a situazioni narrative interessanti. Il secondo sono delle carte situazione chiamate Strategie Oblique, ideate da Brian Eno e Peter Schmidt nel 1975 e da lui già usate con i suoi musicisti in precedenza. In sala prove Bowie e la sua band, pescavano queste carte, su cui c’erano indicazioni come “suona come un contrabbandiere che sta per essere catturato” o “sei a un concerto per l’indipendenza di uno stato africano”, utili dunque ad aprire gli orizzonti, ad ampliare l’immaginazione. Scrittura burroghsiana, quindi, già usata negli anni ’70 e qui ripresa.
Il resto potrebbe anche venire da sé, ascoltando l’album, i suoi umori altalenanti, la storia degna di un film gotico. Lost Highway, il film di Lynch tra i più alienati e alienanti della sua carriera conta nella colonna sonora un brano di questo album, I’m Deranged.
Cosa aggiungere, dunque?
Due cose. La prima sono le citazioni letterarie. Non è notizia dell’ultim’ora che Bowie fosse un lettore “forte”, uno che leggeva tanto e in modo variegato. Si potrebbero fare mille esempi, ma qui siamo su 1.Outside, e dobbiamo limitarci a citare alcuni titoli.
Innanzi tutto il titolo è già interessante perché richiama l’opera d’esordio di Colin Wilson L’Outsider.
Colin Wilson era un giornalista inglese e stava provando a diventare uno scrittore, quando, nell’Inghilterra degli anni ’50, si rende conto che la società è matura ad ospitare artisti nuovi solo se questi seguono metodi e strade proprie. Durante una di queste riflessioni nasce l’idea per uno dei libri di critica e di costume più importanti della cultura inglese. Il libro resterà il più importante fra i suoi, nonostante ne abbia scritti diversi altri dopo. L’outsider è per Wilson colui che vive ai margini della società come artista, che la società non riesce ad accettare totalmente, che vive scomodamente in essa. Nel saggio Wilson passa in rassegna decine di casi appartenenti al mondo dell’arte e della letteratura, personaggi inventati e reali, Nijinskj, Van Gogh, o gli eroi di Hemingway, di Camus, di Sartre, e cerca di realizzare il ritratto perfetto dell’outsider, attraverso una casistica complessa e quanto più possibile completa e sofisticata. L’analisi finale risulta riuscitissima. In sostanza non ci si può che porre fuori dalla società, in una posizione che il mondo dell’arte occupa da decenni.
Un’altra fonte di ispirazione seguita è senza dubbio Hawksmoor. Un romanzo dell’autore inglese Peter Ackroyd dedicato all’autore-architetto di alcune tra le chiese principali della città, costruite tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700. La narrazione procede incrociata, alternata tra la storia che vede l’architetto impegnato nella costruzione delle cattedrali e un presente in cui un detective dallo stesso nome deve risolvere dei casi seriali di omicidio che troveranno un epilogo solo nella spiegazione mistica che lega le due epoche.
Sia il romanzo che l’album sono disseminati di elementi dissonanti e devianti, terreno interessante per riflessioni e voli pindarici che dicono più di quel che mostrano: necessità, sacrifici, misticismo, omicidio, labirinti e trappole: una scrittura per un mondo che non c’è.
Un altro libro che va senz’altro citato in questo caso è L’assassinio come una delle Belle Arti, di Thomas De Quincey, un trattato ironico della metà dell’800 in cui si legge di una conferenza organizzata dalla fantomatica “Società degli Intenditori dell’Assassinio” e si analizza una carrellata di omicidi storici nel dettaglio e si traggono elementi estetici dalle varie ricorrenze.
Fosse per la sua larga faccia sorridente e oleosa, fosse per qualunque altra ragione, fatto sta che pensai a lui e decisi di cominciare a lavorare dalla sua gola d’altra parte, egli la portava sempre scoperta, – moda fatta apposta per eccitare i desideri.[1]
Lo scopo finale dell’assassinio considerato come un’arte è precisamente lo stesso di quello della tragedia secondo Aristotile, cioè “purificare il cuore per mezzo della pietà o del terrore.[2]
Il terzo libro cui ci si può riferire è stato citato dallo stesso Bowie. È il romanzo Notti al Circo, di Angela Carter, dove si può notare l’ansia del passaggio del secolo.
In tutta la confederazione il pubblico attendeva con ansia il suo arrivo, che sarebbe coinciso con quello del nuovo secolo.
Il diciannovesimo secolo, infatti, non è che un mozzicone semispento che verrà presto definitivamente schiacciato nel portacenere della storia. Siamo all’ultima, declinante stagione dell’anno del Signore milleottocentottantanove e Fevvers possiede tutto l’éclat della nuova era che sta per cominciare.[3]
Secondo elemento comune è il rapporto tra realtà e finzione che si genera per mezzo dell’arte. Protagonista del romanzo è infatti una donna con le ali che lavora per un circo: un giornalista giovane va a intervistarla e si trova suo malgrado coinvolto in un lungo viaggio, in un regno di confine costante tra realtà e finzione.
Sorrise tra sé al paradosso: in un’epoca interamente convertita ai valori terreni, un vero miracolo doveva camuffarsi da mistificazione se voleva essere preso sul serio.[4]
È un romanzo barocco, corale, a tratti ombroso, Notti al Circo, che indugia sull’avventura impossibile, sul gusto dell’ironia e dello scherno, sull’ingenuità e la rottura con la tradizione.
Del resto un po’ tutto l’album è oscuro, notturno. Complice il cut-up. In un punto di una delle registrazioni dei b-sides che costituisce le suites si ripete “Tu sei una permutazione, tu sei qualcosa di misterioso”, dove il concetto di permutazione è alla base del procedimento inventato da un altro poeta, l’amato Brion Gysin.
Inoltre dobbiamo guardare l’altro nucleo dell’album: il concetto stesso di arte: che cos’è un classico? Che cosa lo definisce? A quale costo? Quello che cataloghiamo immediatamente nell’etichetta di arte classica non è stata un tempo contemporanea come si legge nell’opera di Maurizio Nannucci posta sull’ingresso del Museo di Antichità di Berlino? E non è stata anche criticata, discussa, disprezzata proprio per questo motivo?
In più alcune corrispondenze potrebbero esistere fra i contenuti del concept e le riflessioni sulla morte dell’arte che l’album veicola, o meglio sullo stato dell’arte. Le incertezze sollevate sono senz’altro i frutti di un grande albero che porta con sé il passaggio del millennio, ma che contiene qualcosa di più oscuro, non perché peggiore ma perché non evidente e molto incerto: il futuro prossimo. Per questo l’immaginazione di Bowie e Eno ne colloca la storia solo 5 anni dopo. (I’m already five years older, I’m already in my grave) e per questo in questo caotico e ossessivo iperciclo c’è bisogno di ordine (Let me take you back where it all began), come nella mente del detective davanti a un caso così inestricabile come quello di Ramona Stone e compagnia bella. Mente, si badi, non risolutrice ma necessaria. Perché di soluzioni al caso ce ne sono, il detective Adler la trova, e via, la colpevole sia consegnata. Ma il problema di fondo rimane, la mente analitica può servire ma non risolvere, ed è su questo che si gioca 1.Outside, perché è fin troppo evidente che il limite (del secolo, dell’arte, del limite stesso), sta per essere superato in direzione ancora imprevedibili. È evidente che si gridava al “troppo” già con l’arte di Burden e dei castrazionisti, figuriamoci con quella della seducente Ramona che inietta sostanze coloranti dentro il corpo di un’adolescente. Eppure l’arte è sempre manifestazione dell’umano e del sociale, e allora sarà forse il caso di chiedersi se anche qua non ci siano riflessioni attualissime e necessarie da farsi.
I riferimenti artistici vanno ascritti sopratutto alle performance di Ron Athey (qui il S.Sebastiano https://www.youtube.com/watch?v=NQzI9oVOcT4), un autore che ha fatto dell’automutilazione ma, in questo caso sopratutto, del conficcarsi enormi aghi medici nella cute e pezzi di metallo nella testa, uno dei centri di questo discorso. Una delle motivazioni che muoveva Athey era l’epidemia di Aids che lo aveva colpito in prima persona. Le sue performance diventavano quindi, per chi andava a vederle, dei momenti in cui il gioco del rischio del contagio si faceva decisamente esplicito. Allo stesso modo l’artista Ramona A.Stone ha ucciso la ragazza Baby Grace proprio in questo modo, lasciando però che il sangue finisse per essere completamente uscito dal corpo, quest’ultimo poi esposto davanti alla porta del Museo di Arte Contemporanea sollevando la curiosità dei critici e ovviamente del detective Adler che, rivangando nella memoria, si ricorderà di Athey e di altri artisti berlinesi (e del cantante Bowie), e scoprirà una curiosa relazione fra quell’avanguardia, Ramona e Baby Grace.
Athey dichiarava che era consapevole che le sue performance provocassero svenimenti e reazioni di disgusto, ma non gli importava granché, e sapeva che vederne la riproduzione in video non può essere la stessa cosa. Chi vuole può leggersi qui una intervista del 2014 uscita su Vice e realizzata da Amelia Abraham (https://www.vice.com/en/article/vdpx8y/ron-athey-performance-art-amelia-abraham-121) dove perlopiù si può riflettere su come veicolare certi messaggi e certa sensibilità nel mondo dell’arte sia inevitabilmente collegato con la volontà di far reagire il pubblico (épater la bourgoisie?) e pertengono a un attivismo dell’autore ma che in senso più ampio si ricollegano proprio a quella definizione dell’arte che per autoconfermarsi deve sempre fuggire da sé stessa. Nel Diario di Nathan Adler accluso al cd si legge:
Le braccia della vittima erano ridotte a puntaspilli da 16 aghi ipodermici che le pompavano dentro 4 conservanti principali, sostanze coloranti, fluidi da trasporto di informazioni memorizzate e altra roba verde.[5]
Col diciassettesimo ed ultimo vennero estratti tutto il sangue e i liquidi. L’area dello stomaco fu slabbrata con cura e gli intestini rimossi, sbrogliati e rilavorati a maglia così come si presentavano, in una piccola rete o tela e appesi tra i pilastri del luogo del delitto, l’ingresso principale del Museo di Parti Moderne di Oxford Town, New Jersey. Gli arti di Baby furono poi recisi dal torso.[6]
Viene in mente la performance Cut Pieces, di Yoko Ono, 1965, dove l’artista, inginocchiata, lasciò che il pubblico si avvicinasse a lei e tagliasse con un paio di forbici pezzi di vestiti, via via, in modo sempre maggiore. Certo, quella fu una perfomance che intrecciava la storia dell’arte con la storia della percezione del corpo femminile, ben calata in un’epoca storica specifica e con un messaggio sociale esplicito, ma come ogni colpo andato a segno noi possiamo collegare un senso con altri campi di riflessione, di azione, di paradigma.
Che sia una riflessione sull’arte lo dimostra, in più, l’elenco di artisti contenuto nel diario di Nathan Adler, il breve libretto che accompagna l’album con i pensieri del detective durante la ricostruzione del caso. In poche pagine Bowie cita i seguenti artisti: Mark Tansey, Paul Potter, Damien Hirst, Hermann Nitsch, Chris Burden, Ron Athey, Mark Rothko, Guy Bourdin, Man Ray, Lewis Carroll.
Ecco che mettendo insieme questi nomi, al di là del racconto di Bowie/Adler che compongono, l’uno l’album l’alter la risoluzione, rappresentano un’evidente ricerca di definizione identitaria, forse non solo dell’arte, ma del soggetto creativo e del destinatario della fruizione artistica, fino alla vittima, Grace, il sacrificio compiuto di anni di sperimentazioni artistiche, una ragazza che potrebbe essere la figlia stessa di Ramona.
1.Outside è l’opera più estrema di Bowie, non solo per i contenuti, ma per il suo coraggio. È un’opera totalizzante che ingloba l’ascoltatore, ma non gli chiede nulla: lo prende con sé e lo porta in un territorio altro. Solo Blackstar possiede la stessa forza.
[1] Thomas De Quincey, L’Assassinio come una delle Belle Arti, Traduzione italiana di Massimo Bontempelli, Istituto Editoriale Italiano Milano – 1920 ca., ed. digitalizzata
[2] De Quincey, Ivi
[3] Carter, Notti al circo, Feltrinelli, 1985, p. 12
[4] Carter, ivi, p. 19
[5] Il Diario di Nathan Adler, 1. Outside
[6] ibid
Un pensiero su “1.Outside: il lato oscuro di David Bowie e i limiti dell’arte contemporanea”