Di DAVIDE TOFFOLI
È un piccolo scrigno questa pubblicazione del 2020 della Nessuno Editore: Leopoldo María Panero, Contro la Spagna e altri poemi non d’amore, con la attenta traduzione di Antonio Bux e con una testimonianza di Ianus Pravo. Un’opera, uscita nel paese d’origine nel 1990, che incarna la visione nichilista e maledetta tipica dell’autore iberico. Potente ribellione contro ogni forma di potere. Amore e odio viscerali per un paese che lo ha ricambiato con l’isolamento e l’esclusione. Panero non ha mai risparmiato feroci stoccate: “Il capitalismo è una società ortopedica e produttrice di follia, che provoca schizofrenia in tutti i paesi del mondo. In Spagna ancora di più.”, oppure “La Spagna è una malattia mentale”. Si respira interesse per l’occultismo e per i culti esoterici, ma anche fortissime radici simboliche. Il maggior studioso di Panero, Túa Blesa, citando l’amatissimo Mallarmé, scrive che per ricordare il poeta iberico il miglior epitaffio possibile sarebbe: “la distruzione fu la mia Beatrice”. Questa raccolta è un gesto estremo di amore e morte dedicato alla Spagna.
Apre un testo che parla di Pedro de Valdivia, in Cile per preparare la strada a Pizarro, incarna il mito della spietata colonizzazione spagnola di fronte alla resistenza Mapuche di Lautaro: “E nella notte di Lautaro il dio castigliano / è meno di una vipera, il suo corpo / è un segno sbiadito nella neve”. Poi, in Inno alla corona di Spagna, tutta l’ironia possibile rivolta alla figura di Juan Carlos, sovrano formalmente a partire dal 31 marzo 1947, durante la dittatura militare del reggente Francisco Franco: “Sono solo un pagliaccio penzolante a una corda, / al cospetto di colui che illuminò la Spagna / e fece ardere il sole nella mano più pura”. E ancora versi ispirati all’oscuro e visionario Blake: “Sul marciapiede della paura vedrò passare un bambino / e a lui chiederò il mio nome, se rinascessi domani”. O il parallelo quasi horror tra l’eco di un racconto di Poe e il tentato golpe del colonnello Molina del 23 febbraio 1981: “E oggi, del 23 F., resta solo / la bava della bocca e della notte”.
Massoneria, separatismo basco… tutto attraversa questi versi di Panero che sgorgano da ogni sorta di ferita aperta, da ogni uomo caduto; ma sono impregnati anche di una forte attenzione al mito classico, Filide o Pan su tutti. È il selvaggio a provare a fornire uno spunto reale di sopravvivenza: “Che il toro ci salvi / e faccia un uomo dell’uomo / e l’oscuro cammino / della selva un sentiero. / Che il toro ci salvi, / perché promessa d’oscurità è l’oro della nostra saliva”. È poesia come resistenza alla statua del nulla, che scava nel mistero dell’uomo oltrepassando le rassicuranti certezze precostituite; è poesia come sogno creativo e vitalizzante: “Peter Punk è l’amore e Campanellino la sua principessa. / Su in cielo stanno cercando il segreto del nulla / tutti i Bambini Smarriti”.
Tutto si muove nella fenditura del baratro e al cospetto della caduta… “e col vino festeggiare la sua fine, la sua disfatta, / e nel vino gettarne le ceneri, berne sempre di più / così che brindando all’impossibile nessuno esista / per un istante, / questo ricerca il verso, il tremore della sua caduta”. Eracle, evocato col patronimico Alcide, dal potere quasi sciamanico, citando il Góngora de Le Soledades e di un’Arcadia densa di profonda meraviglia. Mallarmé, raccontato al cospetto del nulla, partendo da una condizione umana priva di trascendenza.
Mistero, enigma, contraddizione e dubbio sono il cuore pulsante dei versi di Panero: “oh, povero Mascherato deriso dagli uomini, / che colpa ha il pigmeo, l’elefante e la tigre / se l’Occidente è crudele / e nella selva sparano / sulla croce”. L’inferno del manicomio, l’immondo del fare versi quasi plasmando gli escrementi, affrontando l’incubo lasciandosene travolgere. Si cammina sul filo del rasoio.
La natura è materia e Panero la coglie nel suo lato più oscuro: è poesia che nasce dal rifiuto o dallo strappo, come negli splendidi versi dedicati alla leggenda guatemalteca di Maíz Blanco. Tutto è devastazione e disfacimento. Non esiste un luogo di assoluta serenità (“Sulla spiaggia della notte / mostravo i miei occhi alle sirene / che giocavano impunite col mio pene, / col fallo nel loro letto maleodorante / dove i sogni si disfano e la pietra / del pensiero cade a terra”). Tutto è un lento trascinarsi verso il nulla: “Com’è lunga la processione degli uomini verso il nulla, / fatta di grida e nitriti e fuoco negli occhi / e cenere che cade segnando il cammino, / inneggia all’abisso la pagina che scrivo, / si piega e si contorce tra le tue mani”.
Panero confeziona e colleziona monili da esporre nella sua “Bottega dello spettro”. Ogni fiore sopravvive all’uomo e lo divora impassibile, tra follia e magia: “Cos’è la magia, domandi / nel buio di una stanza. / Cos’è il nulla, domandi, / uscendo dalla stanza. / E cos’è un uomo, uscendo dal nulla / e tornando da solo alla stanza”.
Non c’è nobilitazione per l’uomo: c’è semmai la necessaria accettazione di un ruolo defilato e quasi inutile da comprimario. Tra naufragio e autodistruzione (“Balla finché la morte non chiama / sussurrandoti dolcemente di entrare, / di entrare nel regno del rock and roll”). Forse, dopo la morte e dopo la notte, resterà qualche voce: “Pioveva e la sera successiva alla notte / dei cospiratori, / il mondo non fu che cadaveri e pioggia / e voci di vecchie dame che parlavano nell’ombra”.
Panero non possedeva un’anima, ma uno stile, scrive Ianus Pravo ricordando un suo incontro a Las Palmas, dal quale l’autore si congedò recitando a memoria: “I’ vo come colui ch’è fuor di vita / che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia / fatto di zanne o di pietra o di legno, / che si conduca solo per maestria / e porti ne lo cuore una ferita / che sia, com’egli è morto, aperto segno”. Versi di Guido Cavalcanti, uno dei suoi poeti favoriti.
Una poetica densa di rimandi storici, di riferimenti mitologici che sembra franare in una sorta di enorme immondezzaio. Sfigura e deforma il già detto. Distrugge l’io-poetico, ma ogni pagina è un atto estremo di amore e di morte. I tratti sono espressionistici e l’immagine complessiva è quella di un’enorme maceria. L’esistenza è una rosa strappata, un fiore invertito del vuoto, dove non restano che le radici da cui uscire urlanti.