Di STEFANO BONOMI
- Introduzione
- Pensiero, pensiero errante e parola
- Matematica e inconscio, discesa e culto vivo
- Dal sogno al segno
- Sui limiti della ragione e l’attrito
- Machina
- La sofferenza come veicolo dell’intelligenza
- Dall’umiltà all’ispirazione: l’uomo come fine
- Dalla noia del genio alla sensualità dell’intelligenza
- La cosa in sé nella dimensione storico-temporale
Introduzione
Nel mio saggio dimostrerò che anche l’homo oeconomicus è un superuomo. Quando un amico mi fece leggere Parerga e paralipomena di Schopenhauer ero solo… nel delirio quell’amico era Nietzsche. Come esperienza non ci poteva essere niente di più grandioso. Lo spirito, a quanto pare, ama sdoppiarsi e la nostra identità resta indefinita, capace di assumere dentro di sé più di un singolo io. Il poeta non porta con sé un nome, e così a colui che ama varcare i limiti ristretti dell’ego, si presenta una storia che subentra entro i confini della propria soggettività. Questo allargamento richiama a sé il sovrannaturale ed è operato dallo spirito. Il mio amico era Nietzsche poiché suo grande studioso. Mi comunicò un dato importante: un singolo amico fa la differenza; la solitudine non è più tale in presenza di un singolo amico. Così avvenne che mentre studiavo Economics and Development all’università non potessi porre resistenza alla necessità di scrivere, interrogato dal fuoco spirituale del logos. Questo logos che ci rende impersonali e perciò più simili… L’attrito sta ad indicare un legame con la realtà e con il mondo, un legame che, durante i miei studi, a volte, mi venne a mancare. Sull’idea di attrito come legame con la realtà è incentrato il mio saggio artistico. Un eccesso di spirito ti può far incontrare con i fantasmi. Scelsi di studiare economia, una materia scientifica fondata sulla matematica. Eppure continuavo a suonare e produrre musica. Inoltre mi perdevo ed immergevo nel ritmo del leggere e dello scrivere. Come vedremo la matematica avvolge tutto, sebbene come la grammatica e la scrittura, sia un culto o una convenzione. Incontrai Nietzsche e lo amai fino al punto di temere la sua morte, una morte peggiore della mia stessa morte. Inoltre, oltre a questo grande incontro della mia anima e del mio spirito, durante i miei lunghi anni di studio, scrissi decine di quaderni di sogni, poiché la mia necessità di scrivere travalicava ogni altra necessità. Scrivere non è semplicemente condividere ma è prima di tutto creare, portare a termine, partorire. La natura femminile dell’anima ci trascina nella scrittura in modo ancora più forte che nella lettura. In questo saggio artistico presenterò alcune componenti del mio pensiero. Ho incontrato Nietzsche ed il genio di Nietzsche. Nessun’altra esperienza potrà sostituirla. Nessun’altra se non quella che, legata strettamente all’umiltà, sarà pronta a rimanere legata all’attrito, ossia ad uno stretto legame col mondo e quindi col logos. “Rimanere fedeli al significato della terra”, questo ci dice Nietzsche, ed io, avendolo conosciuto, scrivo questo saggio intitolato l’attrito. Il legame col mondo, infatti, mi era venuto a mancare quando, nella mia visione del mio deserto riconobbi nel mio amico quel grande filosofo. Quel tempo non dovrà mai più ritornare. Il mio cammino, piuttosto che proseguire nella strada dell’inferno, dovrà imparare a tornare indietro; andando verso alla parola parlata e quindi all’attrito.
Pensiero, pensiero errante e parola
Dalla velocità caratteristica del pensiero logico e matematico – materie in cui mi sono cimentato in anni di studio universitario – vorrei tornare al segno, quel segno più vicino alla parola parlata che alla scrittura e se vogliamo attiguo all’arte astratta in generale.
Mi appartiene il vizio della velocità e dell’elevazione e ciò mi conduce a una solitudine errabonda. Ad un sentimento solitario che chiede perdono agli uomini soltanto per essersi allontanato. Tuttavia, per poter sfruttare questo tempo in cui ci è dato vivere c’è bisogno di calma, poiché quel che si fa oggi lo si potrà ritrovare domani.
Perciò mi ripropongo di andar piano e di restare nel particolare: oltre a volare e ad andare verso l’alto riuscire a discendere e a commuoversi; oltre a indicare e giudicare fare cenno e tracciare un segno con fantasia come ragione… fantasia come ragione e non cattiveria… fantasia come ragione e non simbolo matematico (il simbolo matematico è la forma invisibile delle cose e come tale dovrebbe imparare a restare invisibile).
Oltre a ciò mi ripropongo di uscire dal vizio di ricordare ossessivamente per stare nel presente e nello spazio; per pensare e superare il pensiero errante. Tuttavia pensare è, paradossalmente, matematizzare e la sofferenza del pensiero equivale all’astrattezza indicibile. Parola, immagine e numero sono un tutt’uno? O la parola si differenzia maggiormente per la sua origine divina? A cosa ci è servito studiare matematica se non a conoscere una forma del pensiero? Eppure quella forma è un culto e l’oblio gioca la sua mossa.
Il pensiero errante assomiglia al morire, al non suono, al silenzio. Per questo dovevo e devo tentare di andare oltre, nel mio superamento. Varcare il pensiero astratto che nel suo elevarsi si trasforma negativamente e tornare alla parola comunicativa, per sua natura semplificatrice e spesso ambigua.
Non è troppo tardi per tornare al segno e alla parola, per tornare a credere nel valore della comunicazione. Non è tardi per credere al valore del segno come frutto, compromesso e sacrificio di un’espressione astratta, troppo elevata ed errante. Siamo animali strani ma ci dobbiamo salvare trovando un sentiero sopportabile in una vita impossibile. Il linguaggio ci può salvare dalla pazzia nella quale siamo caduti in trappola.
Matematica e inconscio, discesa e culto vivo
Avvenne e mi accadde di ritorcermi contro alla matematica istintivamente. Forse mi era semplicemente venuta a mancare la forza per trattenerla e portarla sempre con me. Ero troppo intelligente per una gabbia – per quanto ampia essa fosse. Ero troppo selvatico per un ordine. Ero troppo libero per un sentiero e per un culto fatto di simboli silenziosi, mostruosi e affascinanti. Ma fuori dal culto c’è la più grande solitudine e ci sono gli eroici solitari. Questa grande solitudine ancora parla, mi vuole parlare e ti vuole parlare. Il suo linguaggio vuole diventare verbale ed incarnarsi…
Non so se sia un bene o un male che mi sia ritorto contro alla matematica, ma questo è ciò che è stato. Dopo essere stato bravo in matematica, infatti, dopo esserle stato amico e compagno fedele, mi accadde di arrivare ad accelerare l’analisi fino a dove non c’era più alcuno spazio. Così persi tempo a leggere libri, per respirare, attardandomi. Ero volato troppo in alto, forse, dove non c’era più pensiero, né ossigeno, né anima (ma una pena indicibile).
Una volta saliti per un sentiero non è facile discendere. Non è mai facile tornare indietro, cadere, risvegliarsi e riscoprirsi. Si può arrivare così a strappare la stoffa che ci paralizza e che ci mantiene fermi. Si può imparare, forse, a stare nella lentezza e nella ragione. Si può far sì che questo attardarsi sia salvifico e non solo infernale: tornare a stare con le persone, tornare a convivere col culto, non più numerico e silenzioso ma sonoro e verbale, vivo. Forse la matematica deve farsi inconscio…
Questo tentativo di ritorno e di planaggio ci porta a conservare simboli su simboli per la paura di perderne il segno, e ci fa diventare piccoli tesorieri, accumulatori e collezionisti.
Trovare un sentiero per discendere non è facile. Dall’alto al basso abbiamo il fulmine o abbiamo il passo. L’uno è istantaneo e folgorante; l’altro è lento e faticoso. La terza possibilità è il volo, il planare, ma questa aggraziata possibilità non è sempre realizzabile.
Dal sogno al segno
Il segno più significativo del simbolo. Lo schizzo più comunicativo del ritratto. La musica prima della parola. La parola prima della cultura. Il suono prima della scrittura. Nietzsche contro Platone.
Una cultura errata, un’epoca errabonda; che trattiene e lancia, che pospone sistematicamente, che finge e che è nell’attesa. E nell’attesa, il sogno dell’inconscio, il sogno del sogno… il sogno dell’uscita da sé, del superamento del proprio limite, del proprio corpo, del proprio udito, della propria vista.
Il mondo ci penetra attraverso il sogno e la differenza è il presupposto dell’identità. Una contaminazione notturna; un sogno che effettivamente è altro da sé e allo stesso tempo dentro di sé. Epoca del sogno; dell’attesa continua; della posticipazione; dell’uscita da sé e quindi dell’incontro con l’altro, dell’incontro con lo straniero. Una cultura che è prima di tutto un’identità, che segna un confine per superarlo. Una cultura che è memoria; poiché il sogno, se da una parte distrugge, pulisce e libera, dall’altra è un rispecchiamento impossibile, è un ritratto indicibile, è un ritratto supremo – che assomma tutte le sofferenze, che assomma le differenze.
Un sogno che – a mio parere – è prima di tutto il segno della propria differenza, è l’indice della persona, della sensibilità e della conoscenza. Un sogno che in qualche modo edifichiamo ma che piuttosto penetriamo… Ci addentriamo nel nostro inconscio, nella nostra città, e per far questo, tramiamo, buchiamo, foriamo. Andiamo nella piazza del nostro essere, nel foro; andiamo nel nostro sapere, nella nostra cultura. Ci immaginiamo, usiamo la fantasia, sogniamo. E adesso, nel sogno, non usiamo la fantasia della ragione, non calcoliamo; piuttosto, siamo sconvolti dal mondo, lo penetriamo e ci confondiamo con esso. Questo è il sogno; un esterno abolito ma che resta straniero e che tuttavia stratifica, poiché ci fa conoscere la diversità. Abolisce le regole, abolisce la logica. Solo dopo cerchiamo un senso nell’interpretazione, un rimando al concreto. E nella differenza, insieme allo stupore e allo spavento, tutto l’eros di cui siamo fatti. Ognuno possiede un eros singolo e caratteristico. Questo erotismo, sublimato nel mondo diurno, nel sogno si scatena, si libera dalle catene, si incontra violentemente e inaspettatamente con gli altri; cerca ristoro, cerca pace, cerca anche la morte.
Così, la cultura del trattenimento, del temporeggiamento, del limite è allo stesso tempo cultura del superamento, della conservazione; del mantenimento del segno, unico e irripetibile ma conservato. Cultura, quindi, della differenza intesa come identità. Cultura della conversazione e dello scambio simbolico oltre che del trattenimento; del logos; che lega, che trama, che intesse, che si baratta e che si arrabatta. Cultura logocentrica, fallica, che vive di contaminazione, di sperma ma che ha bisogno di un contenitore, di un orecchio, di una vagina.
Sui limiti della ragione e l’attrito
L’attrito è un contatto con la realtà. È la discesa dopo la salita. A volte mi spavento di me stesso, delle mie elucubrazioni solitarie. Il solitario è per sua natura elevato. Mi pare, a volte, che la mia mente non abbia un corpo o che il mio corpo non abbia una mente. Mi pare, allora, di somigliare molto ai fantasmi… lo spirito è forse maligno? È il nostro doppio? Trovare nel dolore interno, nello spirito, un perché, è cercare di uscire dal dolore nel segno del bene; ossia creare, far nascere, partorire…
Varcare i limiti fu una nostra scelta? O era la nostra stessa cultura che ci costrinse e ci spinse a distoglierci dalla ragione per necessità di sopravvivenza del profondo? Perché in me, il segno si confuse col sogno angosciosamente… anelavamo al segno e al significato e cademmo nel sogno e nel simbolo. La mente fu costretta a ribellarsi alla logica, e i sentieri di crescita divennero tormentosi. Ma in questo tormento, trovammo anche qualcosa di estremamente significativo, qualcosa di realmente artistico. Questa parte è l’invasamento del fuoco, ossia del cielo e delle grandi altitudini…
Ciò che cerchiamo maggiormente è un attrito, ossia un legame con la realtà. E questo legame con la realtà, comunemente, si trova nel linguaggio parlato. Io, a volte, mi distanzio da questo modo di accertarsi del reale e mi astraggo nel vago e nella vacuità del sogno; in un moto ascendente.
Seguendo Bachelard, essere nel corpo non vuol dire altro che fargli vivere ogni istante. Un corpo che vive ogni istante è adulto e anche memore dell’infanzia e dei suoi sussulti. L’attrito, allora, è anche ciò che coniuga la terra, l’umiltà, e il cielo e il fuoco. L’attrito, infatti, è quello che dovrebbe far accendere il fuoco attraverso lo sfregamento di due legni; o anche il fuoco dell’eros, che divampa attraverso l’incontro tra maschile e femminile.
L’essere nel corpo, allora, dovrebbe aiutare a gettare un ponte tra l’interno e l’esterno. L’alienazione, d’altra parte, sarebbe legata ad un’impossibilità di disporre del tempo, per via di un trauma o di una negazione. La vergogna è, forse, la responsabile di questo trauma. L’uomo è l’animale che nega sé stesso, e questa negazione, può trasformarsi in vergogna, in abbandono e in disperazione.
Ciò che è sbalorditivo, inoltre e per inciso, è che la soggettività del tempo, non derivi solo dalle emozioni, ma anche dalle differenze dei corpi.
L’esaltazione del fuoco, dell’ascesa e del cielo, l’esaltazione del sogno ma anche della logica e della matematica, rischia di perdersi nel nulla quando si inerpica e si distoglie del tutto dal reale. Per questo c’è bisogno dell’attrito. Se è difficile salire e contemplare un mondo simbolico, onirico o numerico, ancora più difficile è trovare sentieri per discendere e per conciliare la soggettività e l’altro da sé. Il vero attrito, dunque, è quello che dopo essere salito è riuscito a ridiscendere… Anche la logica e la matematica ci condussero in alto ma allora non potemmo fare altro che “gettare la scala sulla quale eravamo saliti” ed intraprendere il percorso della discesa, attraverso il passo lento, lo scagliare del fulmine, e il volo aggraziato. Le altezze della matematica, infatti, non si accordavano con la vita ma, piuttosto, con una machina tendenzialmente silenziosa, mostruosa e affascinante.
Machina
Il numero; l’astrazione; la logica; la matematica. Un insieme di parole. Ma nel calcolo non ci sono parole, c’è solo una macchina; e questa macchina, è una parte del pensiero. Forse è l’altro della filosofia. Algebra, vettori, matrici. Divisioni, moltiplicazioni, calcolo differenziale, integrale. Tante sono le operazioni che richiedono uno sforzo logico sempre più complesso. Mentre studiamo la matematica rimaniamo affascinati da questo sforzo logico, che, forse, assomiglia allo sforzo di imparare a suonare uno strumento musicale. Ma la differenza è netta: mentre il risultato e l’atto finale della musica è un suono, il risultato di un’operazione algebrica è un numero “silenzioso”. Per calcolare siamo silenziosi, pieghiamo il nostro intuito. Dietro al calcolo, c’è una sofferenza muta, dietro alla musica c’è una sofferenza sonora. Inoltre, la musica ci permette di usare logiche immaginarie; la matematica pure, ma sono proibite. Il culto della matematica, vieta di inventarsi percorsi ontologici e logici personali; sarebbe troppo pericoloso. Nella musica è permesso delirare, adoperare l’intuito del tutto liberamente.
Mentre studiamo la matematica, è difficile non smarrirsi. Uno studio sistematico richiede tempo e pazienza: una ripetizione ossessiva e noiosa di schemi intuitivi. L’arte si apre di fronte allo sforzo cognitivo matematico-logico come un balsamo, come un ristoro, come una laguna. La musica è il luogo artistico che rende più facilmente comunicabile il delirio; nel quale il culto è stato maggiormente sdoganato; nel quale il canone, la regola, è stata piegata e sperimentata maggiormente. Anche il disegno, in particolare l’astrattismo e i vari movimenti artistici del ‘900 hanno manifestato un’apertura del canone artistico; hanno ampliato la possibilità di attrito dello sguardo soggettivo, perché è di questo che stiamo parlando (di una cosa seria: la legittimazione di certe forme di espressività). La psicoanalisi è una scienza discreditata poiché pericolosa. Tuttavia, in un lontano futuro, potrebbe portare ad una vera rivoluzione, in cui la soggettività, al contrario che essere legata all’alienazione, potrebbe legarsi ad una piena realizzazione del potenziale umano. Finché vivremo con il paraocchi tecno-scientista meccanicista (e comportamentista) non potremo mai apprezzare il mare sconfinante della soggettività umana. Il mio tono potrà sembrare un po’ estremo ed imprudente ma la questione è di massima importanza ed urgenza. Il silenzio dell’operazione matematica, se slegato dalla sua pena e dalla sua poeticità – ossia nel suo uso meccanico – può essere messo in analogia con il silenzio di certe forme di potere e di controllo sociale. Io sono un vero paranoico: ho studiato economia per difendermi dalla società. Ma mi piacerebbe utilizzare le mie risorse logiche rinforzate dallo studio per fini artistici. In generale, tendo ad assumere e far mia la prospettiva dell’uomo medio, per mascherarmi. La consapevolezza di ciò – la consapevolezza di essere un attore che recita e che cerca la via mediana delle cose – mi permette di mantenere al mio interno la mia soggettività. Mi rendo conto che la mia mente vacilla; nel senso che va a destra e a sinistra ma che allo stesso tempo è così piena di alternative logiche, così ricca di potenziale logico… e forse solo adesso capisco che non ho perso tutto il mio tempo; che l’esercizio e la fatica che mi ha comportato lo studio possa avermi aiutato ad edificarmi, nonostante tutto… Non invento niente di nuovo nei contenuti; è nella forma che mi diverto a mescolare le cose… Già da Platone l’arte era considerata una “copia della copia” poiché il mondo era già una copia del mondo delle idee.
La sofferenza come veicolo dell’intelligenza
L’opposto dell’attrito: il vaneggiare. Il vaneggiare come nel deserto, l’allucinarsi per il dolore. Perdere l’attrito; disperdersi; non essere nella forma; delirare. Se precedentemente ho cercato di nobilitare la forma di espressione delirante soprattutto in riferimento alla musica e all’arte, mi trovo costretto qui a riaggiustare e riformulare il tiro, e a giudicare il delirio negativamente: come forma “inespressiva”, come allontanamento e fuga dal dolore e quindi da una certa forma pragmatica d’intelligenza. Soprattutto come allontanamento dalla realtà, allontanamento dal confronto, allontanamento dal contatto con la materia. Fuga dal corpo; fuga dalla bassezza e dalla grandiosità del corpo. Delirio come risposta inefficace, solitaria e asociale; come forma estrema di espressività; fuori dai binari, “sola”.
Il problema è che viviamo in un mondo dominato dal mito della libertà in cui le persone sono sempre in contatto, e allo stesso tempo sono drammaticamente sole. Nella solitudine ci troviamo un compagno dentro a noi stessi. Questo atto di autoconservazione è una risposta estrema, da una parte liberatoria ed eroica, dall’altra, possibilmente ma non necessariamente, distruttrice a impotente. Viviamo in un mondo molto crudo e crudele. Le persone si ritrovano a delirare poiché gli opposti sono sempre più tesi… un delirio in questo contesto potrebbe essere: che bello che gli opposti sono sempre più tesi… e qui si palesa un aspetto tipico del delirio: il sadomasochismo. Viviamo in un’epoca di falsa libertà, di estrema solitudine (ovvero di continuo scambio di identità, caratterizzato da un’identità smarrita e fluida) e di sadomasochismo.
Dobbiamo essere in grado di accettare la nostra parte dolorante e riconoscerne la parte vitale, sebbene nel dolore, sia soprattutto la parte mortifera a balenarci di fronte. Riconoscere nel dolore e nella sofferenza una manifestazione dell’intelligenza è uno dei passi più difficili da compiere. Si tratta di riconoscersi come allo specchio. Ma, mentre il corpo si presta bene ad essere riflesso e riconosciuto in uno specchio, non è così per la nostra anima e la nostra mente. Abbisogniamo di un atto di fede: sono gli altri a conferirci un’identità, sono gli altri a determinare i nostri limiti e i nostri confini. Ma nella solitudine gli altri vengono a mancare, e la creazione di un altro da sé, testimone di sé stessi, è la creazione e l’alimentazione di una parte delirante che esce da sé per vedersi e riconoscersi. Nella solitudine siamo necessariamente sdoppiati, in contatto con il nostro spirito. La scrittura! Scrivendo, riesco a vedermi riflesso nelle mie parole, e sono sufficiente a me stesso, allo stesso tempo solo e in compagnia.
La timidezza è una difficoltà a rapportare la propria mente ad un altro individuo, un eccesso di spirito… nella timidezza, come nell’insicurezza e nel dolore, si manifesta l’intelligenza. La sofferenza, dunque, è un veicolo dell’intelligenza ma il passo più difficile deve ancora essere compiuto: riconoscere in questa sofferenza e in questo dolore un segno indistinguibile di intelligenza, allo stesso modo in cui viene riconosciuta la grazia nel Calvinismo: la grazia si ottiene attraverso il lavoro e le opere del lavoro. Così nell’opera della scrittura il timido ritrova sé stesso nel tentativo di salvarsi e di redimere la sua delirante solitudine. Usciamo, quindi, dalla nostra solitudine in due modi: attraverso l’autorispecchiamento e l’attività solitaria (ad esempio la scrittura) e attraverso il lavoro con gli altri. Riconoscere nella sofferenza e nel dolore un segno indistinguibile di intelligenza, lo ripeto, è il passo più difficile da compiere.
Il senso comune si fonda su un sentimento e ancor di più sulla percezione dell’uguaglianza… ma in questo mondo sta emergendo, in modo evidente, la realtà dell’incommensurabile differenza degli individui. La costatazione della differenza, se da una parte porta ad uno smarrimento e ad un rifugio nella solitudine e nel delirio, dall’altra parte, tale differenza, deve essere cavalcata con un atto di coraggio e di auto affermazione. Se l’atto dell’immaginazione di sé è un atto di sua natura limitato e imprudente, dall’altro è necessario… Bisogna romanticizzare il mondo a partire da sé stessi. Dunque, un altro aspetto dell’intelligenza sofferente è legato all’immaginazione; ed in particolare all’immaginazione di sé stessi; che tuttavia deve imparare ad evitare di rifugiarsi nel vaneggiamento e nel delirio (ossia nella negazione del mondo). È qui che la contemporaneità vacilla senza attrito e senza risposta, che si perde nella limitatezza disperata della solitudine. Se gli altri vengono prima di noi, ci arrendiamo allo stesso tipo di violenza del sogno. L’io deve affermarsi nella auto-immaginazione di sé stessi ed essere capace di portare avanti relazioni con l’esterno, possibilmente quotidianamente.
Dall’umiltà all’ispirazione: l’uomo come fine
L’umiltà; l’humus; la terra. Senza umiltà, senza terra, non c’è attrito, non c’è verità. Allo stesso tempo, però, la dignità non deve essere mai violata. L’incomprensione è un segno della differenza nella differenza. L’incomprensione, nasce, nel momento in cui dobbiamo assegnare un numero o un valore reciprocamente; l’uno all’altro e l’altro all’uno. L’incomprensione, dunque, è un frutto, o un risultato, col quale dobbiamo fare i conti tutti i giorni, e nei nostri tempi bizzarri, ci segue come un’ombra o un fantasma. Saremo smarriti nell’identità finché non troveremo nell’identità un rifugio caldo e stabile; un rifugio artistico, nel quale l’immaginazione riuscirà ad incontrarsi con il mondo.
Quant’è bello, però, poter essere fini a sé stessi! Qui l’individualità non è più motivo di una sofferenza infinita; non è più motivo di quella sofferenza tipica del poeta che è consapevole dell’oceano che lo divide dagli altri. Qui l’individualità si trasforma e diventa un ponte; e in questa emozione, l’esaltazione ci trascina in avanti cadendo verso il basso andando al passo giù per il sentiero, che ci conduce ad una valle più o meno paradisiaca; dove ci basta un bicchier d’acqua per essere felici!
L’esercizio costante del pensiero conduce ad un pensiero che pensa sé stesso, e che rischia di perdersi nei particolari, in una continua traduzione linguistica. Ma accanto all’esercizio costante del pensiero, che pensa sé stesso e che tende a tradursi in un linguaggio, vi è un pensiero più largo; un pensiero che colpisce come un martello le fondamenta di noi stessi. Questa seconda forma di pensiero lo chiamerò pensiero ispirato. Assomiglia molto ad un’immagine o ad una parola che porta con sé un concetto; sembra sopraggiungere dall’esterno ed arriva come un messaggio angelico o demoniaco… l’arte poetica è l’estensione nel tempo di tale modo di pensare. Il pensiero ispirato sopraggiunge dall’esterno e sembra avere una natura indipendente: per questo in passato abbiamo parlato spesso di muse ispiratrici, trasformando in fantasma questo, irrompere e colpire del martello dell’ispirazione.
A volte il colpo ispirato è troppo violento, e colpisce come un fulmine. A ciò è legato il terrore degli esseri umani, ma anche lo stupore. In fondo, da una parte dobbiamo riuscire a scardinare il nostro comune intelletto, e insieme riuscire a pensare, e a pensarci, insieme all’altro.
L’importante è essere consapevoli di questo fenomeno squisito: saper riconoscere e distinguere il pensiero ispirato dal pensiero ordinatore… ovviamente perderemmo del tutto il senno in mancanza del pensiero ordinatore, e non riusciremmo ad associare parola alcuna al pensiero ispirato, in mancanza del pensiero ordinatore. L’uno è il mezzo e l’altro il fine. L’uno contiene, l’altro colpisce. E a volte si muovono in parallelo; ma nella maggior parte dei casi sono disgiunti.
Come può l’ispirazione essere pensata come un ponte?
Nella percezione del mondo e delle immagini del mondo?
Può costituirsi un legame tra sé ed il mondo?
Bisogna imparare a reagire al mondo e alle immagini del mondo. La musica rappresenta l’emblema di un’unione col mondo per mezzo dell’ispirazione.
Tuttavia, io mi riferisco all’ispirazione e all’irrompere dell’ispirazione, all’interno di un insieme molto più ampio; se vogliamo all’interno del campo della psicoanalisi e del pensiero; ovvero all’interno del nostro insieme più ampio: il nostro essere.
L’ispirazione coinvolge tutto il nostro essere ed è legata al pensiero e al linguaggio e alla parola. Infatti il linguaggio è il vero miracolo dell’uomo. La musica rappresenta uno dei linguaggi possibili dell’uomo, in cui si manifesta il carattere polivalente e misticamente unificante della natura ispirata. Ma il sopraggiungere dell’ispirazione come la intendo io è uno squarcio totale dell’essere; uno squarcio che permette di vedere qualcosa; un po’ come un cielo nel quale le grandi nuvole improvvisamente si diradano, permettendo l’unione tra la terra e il cielo.
Dobbiamo essere coraggiosi abbastanza per essere felici, sebbene infangati nella disperazione. Di cosa essere felici? Di quello che siamo! Della nostra natura in fondo, del linguaggio!
Allenarci sì, ad esprimere. Questo è quello che ho cercato di fare per anni insieme a molti altri. Forse dobbiamo essere abbastanza folli per aderire alla circolarità e alla caduta verso il basso. Il silenzio non guasta mai, è come un antidoto. Poiché le parole sono spesso inadeguate ad esprimere ed estranee. Quanto è bello anche il silenzio, nel quale sono gli occhi e le immagini a parlare. Ad esprimere la sofferenza e quindi l’intelligenza…
Dalla noia del genio alla sensualità dell’intelligenza
La noia è una brutta bestia… si contrappone allo stato di esaltazione legato all’ispirazione e ne è forse l’altra metà. La noia ha a che fare con la limitatezza delle cose, e ci fa fuggire oppure attaccare. La noia ha a che fare con la bruttezza; ha a che fare con la mancanza di sensualità rilevata e rivelata nell’altro. Ricordiamoci che, quando attribuiremo all’altro la qualità della noia – consciamente o inconsciamente – lo staremo offendendo apertamente; staremo minacciando le fondamenta estetiche dell’altro; lo staremo squalificando… la fiducia è il contraltare della noia. Perciò è importante fingersi sempre interessati, ma più che fingerci interessati, diventarlo… come imparammo a scuola. Forse dovremmo sfruttare la noia per ordinare i colpi dell’ispirazione, e in questo modo disciplinarci, allenando il pensiero ordinatore. Anche scegliere cose noiose è un atto di coraggio! È mettersi alla prova… l’importante, però, è riuscire a non annoiarsi troppo… e in questo scarto c’è una grossa differenza…
L’intelligenza e la felicità sono legati alla qualità di non annoiarsi e quindi di rimanere stupiti; alla capacità di fidarci dell’altro; di abbracciarlo interiormente… forse è meglio essere intelligenti che geniali; il problema della genialità – di quello che intendiamo per genialità – è che rende manifesta la nostra noia del mondo, che è legata all’incapacità di essere realmente innamorati della vita. Eppure un po’ di sana noia sta legata al principio di realtà e, crescendo, ce ne rendiamo conto.
È molto meglio essere intelligenti che geniali! Essendo intelligenti superiamo anche la stupidità della genialità, ossia la manifestazione della noia, che squalificando gli altri li rende brutti e inadatti; che appunto rileva e rivela la limitatezza dell’altro.
Parliamoci chiaro: tutti aneliamo alla genialità. È un mito fondante della nostra cultura, in particolare della cultura ottocentesca (basti pensare alla trattazione geniale della genialità di Schopenhauer). Ma quello della genialità è un mito e, come il mito della libertà, non è detto che sia auspicabile. Perciò, arrivare al punto di auspicarsi un po’ meno di intelligenza, ossia mirare ad essere intelligenti e quindi sensibili e allo stesso tempo sensuali, è un obiettivo che sovverte il mito stesso della genialità! Un po’ di stupidità, quindi, ci aiuta! Concedersi lo spazio per essere un po’ stupidi è un raggiungimento e un traguardo. Vuol dire vedere sè sotto prospettive diverse ed essere misericordiosi con sé stessi.
Giungiamo così ad un risultato che è frutto di un compromesso: giungiamo alla sofferenza di Nietzsche per non poter giungere al “secondo piano” di Schopenhauer… questo compromesso, tuttavia, non deve assolutamente portarci alla stupidità tout-court, alla stupidità fine a sé stessa; la quale forse, è la cosa più orrenda e disumana che ci sia. Non c’è difesa contro una stupidità tracotante. Non c’è difesa contro una stupidità che supera il limite.
La cosa in sé nella dimensione storico-temporale
Ogni uomo è un fine oltre che un mezzo. Perciò possiamo riconoscere qualcuno come qualcosa di completamente separato dal resto e riconoscerne l’unicità. Quest’atto è un atto che assomma le percezioni ed in qualche modo idealizza l’altro, lo nobilita e lo romanticizza. Questo atto è lontano da essere semplicemente infantile ed è al contrario un atto e un’operazione sofisticata di sintesi; che coinvolge la sfera emotiva; che, attraverso un’operazione induttiva, ricongiunge il singolo ed il particolare al generale e all’universale. Se quest’atto incomincia a livello percettivo con le categorie, non per questo si limita ad essere una categorizzazione. Infatti, la categoria pertiene al giudizio frettoloso, concerne un giudizio sommario e preliminare… e la possibilità di un dispiegamento storico e temporale rende le cose e le persone soggette ad un giudizio che sconfina il regno della categoria, e ci fa incontrare-con e conoscere la cosa in sé.
La storia, in questo senso, assume un ruolo privilegiato nella filosofia. Il tempo diventa una qualità dell’essere, indipendentemente dal giudizio positivo o negativo relativo alla libertà e al libero arbitrio. Il tempo diviene una qualità dell’essere indipendentemente dalla natura attribuita al tempo stesso; sia esso concepito come un cerchio, un precipizio, o un non-ente.
Da qui la filosofia esce dal campo della metafisica – definita da Derrida come onto-teologia – e diventa filosofia politica, legandosi così alle scienze sociali ed in particolare alla politica e all’economia. La filosofia abbraccia così quello che Derrida chiama il suo altro, ossia la matematica ed estremizzando l’economia. Nietzsche stesso sottolinea che non bisogna diventare necessariamente dei buoni economisti, sottintendendo con ciò un valore non negativo dell’economia e dell’economico… il filosofo Bataille studia l’economia dall’esterno e giunge al concetto di dispendio o di dispendio improduttivo. L’economia, la storia e la politica sono connotazioni dell’accidentale; sono la connotazione degli effetti pratici oltre che dei risultati pratici dell’uomo. Nel calcolo economico e utilitarista la parte egoica dell’uomo prende voce: il mondo è ineluttabilmente legato ad un sistema di costi e benefici ed una modellizzazione economica è insieme inevitabile e necessaria. Ad ogni modo, l’uomo è un animale sociale oltre che politico: è un essere capace di sentire insieme agli altri e, talvolta, capace di essere altruista. Il concetto bataillano di dispendio assurge a paradosso ma descrive una parte del tempo dell’uomo che appartiene a tutti. Le opere d’arte sono, infatti, il frutto di questo atto dispendioso, e la religione stessa sembra legarsi a e fondarsi su un simile atto (pensiamo a Frazer e alla sua idea di dio morente, di uccisione rituale).
L’economia, inoltre, vorrebbe talvolta trasformarsi in una sorta di ingegneria sociale e portare così a compimento la filosofia e quella che si definisce come trama filosofica. Marx lo fece partendo dalla dialettica hegeliana ed io stesso ci ho provato scrivendo una tesi sulla teoria dei giochi evolutivi. Ovviamente il risultato è inefficace, sebbene il tentativo sia lodevole. L’idea di una matematizzazione degli impulsi – tentativo positivistico proposto dalla tanto denigrata economia neoclassica – era ben lontana da essere un’ingenuità e, piuttosto, era un ideale incapace di calarsi nella realtà. La microeconomia è arrivata bene ad enucleare i rapporti teorici e matematici tra gli enti economici ma resta legata a casi concreti, come ad esempio a posti di lavoro e a salari, ovvero a rapporti economici tout-court.
In quest’ottica, se da una parte consideriamo la concezione dell’economia come parte della politica, e quindi la leghiamo ad una parte stessa della cosa in sé, e dell’altra parte pensiamo alla possibilità dell’economia di farsi regina dell’ingegneria sociale (divenendo l’artefice della trama filosofica e quindi del destino degli uomini), otteniamo una visione integrata dell’economia; dell’economico; e della filosofia. Scopriamo così un senso più profondo della filosofia – sganciato ma insieme legato alla metafisica intesa come onto-teologia. L’idea di un’ingegneria sociale e di un’artefice della trama filosofica e del destino degli uomini va così a legarsi con la metafisica intesa come onto-teologia.
Il calcolo economico – tuttavia – resta ad essere paradossale per la definizione stessa di economia (lett. dal gr. “legge della casa”). L’uomo – essendo legato alle sue passioni – non può che vivere in certi momenti in modo dispendioso.
Siamo costretti, perciò, ad utilizzare il termine superuomo anche nel campo dell’economia (e non solo nel campo dell’arte). L’homo oeconomicus verrebbe dunque inteso come colui che è consapevole delle dinamiche del mondo. Quello che mi premeva era di sottolineare come gli uomini siano in grado di cogliere la cosa in sé come fenomeno infra-temporale.
Il tempo da nemico ci diventa amico. Sebbene il fango ci renda la vita sempre più difficile.
Muoio scubacciato nell’attrito.