Di VITALDO CONTE *
La vita antica, come scrive Luigi Russolo nel suo manifesto futurista su L’Arte dei rumori (1913), «fu tutta silenzio. Nel diciannovesimo secolo, coll’invenzione delle macchine, nacque il Rumore». Ma, oltre ai rumori delle macchine e di folle vocianti, troviamo anche le possibilità offerte dagli innumerevoli rumori della natura e della vita. Ad esempio, quelli del tuono «misterioso brontolio che arriva da lontano»; dell’ululato «basso, umano, minaccioso o implorante, triste oppure beffardo»; dei sibili acuti e persistenti del vento. Troviamo anche la magnifica orchestra delle foglie in un bosco, la meravigliosa varietà di ritmi e timbri della pioggia con il suo gocciolio. L’acqua, uno dei quattro elementi naturali, rappresenta la possibilità più varia e ricca di suoni: le grandiose sinfonie del mare in agitazione, il rumore profondo delle cascate, il gorgoglio lieve di un ruscello, ecc.
Questo manifesto ha influenzato successive esperienze musicali, ma anche la creazione in generale: tra cui quella del corpo e della voce. L’artista Mimmo Rotella, autore di diversi poemi fonetici, scrive il Manifesto dell’Epistaltismo (1949), in cui rileva che «la voce umana non deve essere limitata alla monotonia del linguaggio articolato – essa è una fonte inesauribile di strumenti musicali naturali».
Dai Futuristi in poi abbiamo il rumore, che coinvolge materiali e linguaggi tradizionalmente non considerati musicali. La poesia, uscendo dalla parola scritta, compie un’operazione analoga. Le parole in libertà dello Zang Tumb Tumb marinettiano sono già parola-rumore di pulsionale invenzione.
Oltre alle esperienze dei futuristi italiani, ci sono quelle dei cubofuturisti russi e dei dadaisti, fino a quelle successive dei lettristi. Queste trovano una possibile demarcazione con le più recenti sperimentazioni di poesia sonora, secondo Henri Chopin, con l’introduzione del magnetofono negli anni Cinquanta. Questo strumento ha sviluppato gradualmente, con le sue risorse tecniche, l’autonomia e la potenzialità espressiva dei significati fonici del linguaggio, liberandoli così da una condizione precaria, in quanto fino allora privi di una “registrazione”.
Lo “spartito” delle ricerche di poesia sonora sono una connotazione rilevante della poesia italiana d’avanguardia del dopoguerra. Questa possibilità, nota Renato Barilli, ha «una modalità di comunicazione remota, arcaica, e nello stesso tempo aperta sul futuro di una civiltà sempre più elettromagnetica e sempre meno gutemberghiana».
La poesia sonora, nella cui denominazione confluiscono anche le esperienze di poesia fonetica, pratica una dissoluzione del materiale verbale, indagando appunto al di sotto della soglia linguistica. La gamma dei rumori del corpo, divenuto pertanto lo strumento dei suoni, trova nei propri organi la “voce” di una musicalità naturale, sotto l’effetto di una oralità pulsionale. Questa fisiologica liberazione della pagina stampata consente il recupero di un segnale più vicino alla comunicazione parlata. La poesia sonora si propone, per Matteo D’Ambrosio, «come un’arte nuova della voce e del corpo».
Nella mia antologia (con audiocassetta) Nuovi Segnali (Maggioli Ed.,1983) sulle poetiche verbo-visuali e sonore italiane negli anni ’70-’80, scrivo: «Emergono, attualmente, nell’ambito della poesia sonora, alcune tendenze espressive ben individuabili, in alcuni casi anche commiste. (…) Queste possono trovare anche uno svolgimento sonoro-dinamico nei vari “strumenti” poetici (da intendere in maniera assai ampia), riuniti in una polifonia di poesia, liberamente in concerto, superando la rigidità dei testi e dei linguaggi tecnico-creativi assegnati. Una poesia, fisiologicamente tutta dentro l’oralità e la corporalità, in godimento proprio e per l’altrui godimento, risolta in una espressività intrinsecamente artistica e non solo superficialmente spettacolosa».
La lettera-fonema e la parola-scrittura possono tendere verso la propria dispersione desiderante, diventando “musica” di proprie sonorità corporali. Ciò trova riscontro in diverse espressioni nell’ambito musicale e nell’ultima poesia sonora internazionale. Voce, suono, eco, rumore diventano indicazioni di fuoriuscita fisica, dai limiti della pagina o di qualsiasi altro supporto, del segno scritturale, annichilendo così l’integrità del proprio corpo formale e letterario. Queste sonorità diventano espressione e sinonimo di ansimo, respiro, lingua di piacere, eccitazione di polifonia poetica. Il materiale del linguaggio verbale si scompone e si dissolve fino al rumore e al silenzio di se stesso.
Le scritture del desiderio si estendono sulla pelle di ogni possibile supporto. Le loro imprevedibili segnaletiche si animano nei propri interni ritmi, nelle proprie distorsioni, nel proprio essere lingua e brusio di infinite lingue: fino alla fuoriuscita sonora come polifonia. Meredith Monk (compositrice e cantante) dice: «Credo che la voce, oltre ad essere il primo strumento dell’uomo, possieda un linguaggio in sé. (…) Credo che, quando si esplora la voce come uno strumento in sé, sia possibile esprimersi più direttamente che con le parole. … la voce trascende le culture».
L’investigazione delle potenzialità interiori della “voce come strumento” è praticata da diversi vocalist e musicisti, a livello internazionale, con risultati sorprendenti e fascinosi, che si situano su un territorio di confluenza ¬– tra musica e arte (performativa, installativa) ¬–, tra cui: Meredith Monk, Yoko Ono, Diamanda Galàs, Laurie Anderson, Demetrio Stratos, ecc.
Demetrio Stratos (musicista e cantante) è un artista versatile e innovatore. Scrive: «Tra le pieghe-piaghe del linguaggio esiste comunque un microcosmo sonoro inesplorato». La sua attrazione – per le sperimentazioni della vocalità pura e lo studio-insegnamento della voce – lo indirizzano verso questi territori, utilizzando la voce in maniera eccelsa. Questa diviene un vero e proprio strumento musicale per Suonare la voce (1978), con cui rintraccia il predominio del significante fonico rispetto al significato. Ricerca il valore rituale della voce come accesso alla sorgente del corpo. Per Stratos la voce «è oggi nella musica un canale di trasmissione che non trasmette più nulla», poiché «L’ipertrofia vocale occidentale ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche».
Tra le possibilità, da individuare come sviluppo della poesia sonora, nell’ultimo ventennio, ci sono le espressioni elettronico-musicali e dj set più creative. Ma anche le esplorazioni che si rivolgono al rumore fisico, in commistione con quello dei nuovi media digitali. Questo dilatarsi della voce tende a divenire una musica-rumore che si confronta con le possibilità pulsionali dell’oralità. Talvolta è in dialettica con quella sintetica del computer: le oscillazioni del confronto cercano di armonizzarsi in un gioco di corporeità, intime e virtuali. Il possibile “godimento” è nel loro rarefarsi in estremi suoni-rumori, anche se registrati in moduli compositivi dalla pulsione consapevole. Può costituire una partitura inter-testuale con richiami futuristi e dadaisti.
(…) L’ungherese Endre Szkàrosi (critico e artista sonoro) scrive: «Dopo che la pratica della poesia sonora, fino agli anni ‘80, ha aperto l’universo dei suoni (ir)raggiungibli, (ir)riappropriabili e (in)transinterpretabili, si è trovata nello stesso universo della musica. Così, da un lato, musica e poesia sonora da allora vanno pari passo, dall’altro lato la poesia verbo-vocale usufruisce del performance-space. Perciò, sulle orme dei grandi poeti sonori del passato contemporaneo – come David Moss, Charles Amirkhanian, John Cage e altri, anche musicisti praticanti –, le generazioni dei giovani ormai si ritrovano e s’identificano nell’impero delle sperimentazioni musicali, sapendo di essere anche poeti o no».
Il rumore del corpo-poesia non può che essere pulsionale. Ha la vocazione d’incontrare il proprio e l’altrui desiderio, magari per condividerlo in un evento. L’espressione del Pulsional Rumore è fuoriuscita, infatti, in una serata-presentazione a Roma nel 2012, con Helena Velena, Antonio Saccoccio e me, ecc. Poi nasce il progetto del cd, a nostra cura, che viene “registrato” come Pulsional Ru.mo.re! (Avanguardia 21 Ed., 2013): Italian rebellion action body poem. Questo è per Helena Velena «S/Formazione dell’In/Contenuto. Tutto ciò & molto altro». Per Antonio Saccoccio riprende «lo spirito degli allegri incendiari (…). Torna la volontà di rinnovamento globale. Trionfa un nuovo fermento neotribale, sviluppatosi recentemente anche attraverso le comunità digitali. La sperimentazione verbo-sonora può così acquistare senso tra gli oltre-artisti, barbari del nuovo millennio, che la immettono in un flusso creativo privo di barriere di genere».
Il flauto di Pan è ancora oggi un possibile richiamo per la nostra rianimazione naturale. (…) La voce e gli strumenti sonori diventano, attraverso il ritual del rumore, una musica pulsionale che percorre esorcismi e seduzioni per ascoltare i richiami dell’origine. Il rumore degli strumenti dialoga con quello diffuso dalla voce e dalle sonorità del corpo, cercando anche i brusii dell’oltre. In questi “con-testi” di parola-suono-rumore convivono i concetti di tradizione come origine e di avanguardia come piacere di sperimentare, fluttuando in un continuum di richiami e suggestioni che oltrepassano la catalogazione.
L’arte bianca ha naturalmente le sue musiche nei silenzio. Questo primo e ultimo suono, dalle proprie potenzialità inedite e naturali, è sensibile a risvegliarsi nei significati e sensi di un oltre. È come un’eco che crea altri echi fino a cancellare ogni traccia nel rumore bianco: «È un mondo così alto (…) che non ne avvertiamo il suono. (…) Per questo il bianco ci colpisce come un grande silenzio che ci sembra assoluto» (W. Kandinsky).
Anche una voce, o una musica-rumore d’ambiente, può essere “vissuta” come bianca. Questa vocazione è presente nelle nuove sonorità che fuoriescono da strumenti musicali ambient: come quelli che ricercano i suoni “che vivono intorno” o della natura stessa. Le sonorità sono interpretate dalle emozioni e pulsionalità della voce corporea. Possono rappresentare, con le loro evocazioni neo-tribali, un’emergenza che “rilegge” sperimentazioni musicali, ma anche tradizioni e suggestioni mitico-sciamaniche. Queste espressioni assemblano voci e sonorità espresse dai nuova media con il rumore in evento-live dalle connotazioni rituali. Acqua, sassi, foglie, sabbia, vento, possono esprimere lirici e naturali strumenti di rumore “originale” in concerti improvvisati che aspirano all’azione ritual.
Ho cercato di suonare il Ritual Rumore bianco con le T Rose: come “dispersione ultima” davanti al mare. Vestiti di bianco, al III Festival Bande a Sud presso la Marina di Casalabate (2014) nel Salento: concludo l’azione lanciando, nell’acqua, una bottiglia contenente una bianca poesia d’amore. Vestiti di nero, alla VI Biennale d’Arte sez. performativa ad Anzio (2017): le mie parole poetiche si perdono nei rumori dell’acqua e nel contatto con il vento, colloquiando con i rumori degli strumenti atipici suonati dalle T Rose. In questi eventi ascoltiamo i Richiami dell’Origine: titolo anche del dvd (2018) in cui attraverso il percorso. Per Vittoria Biasi: «La loro musica è un canto armonico che incontra il bianco mantra della voce, della luce. (…) Lontano, insieme dove suono e pelle si confondono, il canto, senza parole, è solo per sentire»
L’attrazione del silenzio è l’attraversamento di un abisso, sul quale si sono affacciati diversi compositori della nuova musica che hanno portato con sé il bianco delle altre arti. Questo attimo-borderline rappresenta il limite estremo a cui può giungere la creazione musicale e non: quello di ricercare un ritorno all’origine, prima di gettarsi come eco nell’abisso stesso, per scoprire che ogni distinzione tra le arti è superflua. La con-fusione dell’opera bianca è il sogno e l’oltre dell’arte stessa. Il silenzio diviene lingua e musica di una ricerca essenziale, interiore e altra, che coinvolge il reale e l’invisibile. Dal bianco dell’indistinzione originaria nascono i rumori e i colori della nostra vita.
La ricerca della musica bianca è un viaggio segreto, costituito da indizi, frammenti, echi. Il suo suono può udirlo chi ascolta il proprio bianco richiamo dell’oltre, fino a concepire una estrema Festa Bianca. Come quella che ho ideato nel Salento (2014). Il suono bianco è per Helena Velena «un (VA): tutto & niente insieme, uno stato di totale continuum non-morte non-vita, come il white noise, un non-suono che non esiste siccome nulla può realizzare la totalità dello spettro sonoro da zero a infinito, se non l’alchimia luce/suono della musica rituale. Come accade nella Festa Bianca salentina». (…)
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* NOTA. Il testo è pubblicato su Arte e Musica, Dionysos n.10 (Ed. Tabula fati, 2020).