Emilio Garroni: dall’estetica semiotica alla semiotica estetica

Emilio Garroni

Di MOIRA DE IACO*


Il recente libro di Cosimo Caputo, Emilio Garroni e i fondamenti della semiotica (Mimesis, Milano Udine 2013, pp. 152) è la prima monografia di impostazione semiotica dedicata in Italia a Emilio Garroni, uno dei lettori più profondi e puntuali di Louis Hjelmslev, considerato dall’autore un pioniere di quella che egli stesso ha chiamato semiotica glossematica in un suo libro del 2003 (Semiotica del linguaggio e delle lingue). Il volume, inoltre, completa e arricchisce certamente il corpus interpretativo del pensiero del filosofo italiano.

Il testo di Caputo, chiaro ed agevole in ogni sua parte, nonostante la complessità delle tematiche affrontate, ha come primo indiscutibile merito quello di mettere in luce la ricognizione garroniana della semiotica, evidenziando il suo riguardare la Glossematica di Hjelmslev. Quella di Garroni è una ricognizione nel senso del ripetitivo “riconoscere sempre di nuovo” (p. 15) i confini della semiotica dall’interno, in consonanza con l’idea della filosofia come “sforzo di risalimento dell’esperienza nelle sue condizioni interne, nel suo orizzonte non disegnabile dall’esterno” (ibidem). Lo sguardo della filosofia è, a dire dello stesso Garroni, uno “sguardo-attraverso” il fenomeno stando già sempre al suo interno (come in un filtro dall’interno del filtro stesso; cfr. Estetica. Uno sguardo-attraverso). Uno sguardo dall’interno del fenomeno volto a indagare le possibilità di quest’ultimo, a comprendere il già saputo, ciò che ci sta davanti, a riguardarlo, come Caputo suggerisce già nell’introduzione, in un coinvolgimento reciproco.
Un secondo grande merito di questo studio è quello di rilevare come Garroni passi da una prima fase di pensiero costituita da un’estetica (che è) semiotica, nella quale l’estetica resta una parte della filosofia che ricorre a strumenti semiotici, a una seconda fase caratterizzata da una semiotica (che è) estetica, ovvero “una semiotica del sentire, una semiotica non cognitiva che riporta a una condizione non intellettualistica o all’originaria adesione del soggetto al suo stesso fare esperienza della vita, al suo sentirsi con altri e sentire l’altro” (p. 128).
Il primo capitolo mostra come semiotica ed estetica si incontrino sul piano dell’estesia, sul piano del contatto percettivo e sensoriale con il mondo (cfr. p. 20) in cui emerge quella relazione paradossale per la quale il nostro comprendere non può che essere sempre anche un ricomprendere (cfr. p. 19), un comprendere sempre di nuovo senza poter mai giungere a comprendere il già-compreso e a dire l’ineffabile, ad afferrare una volta per tutte ciò che necessariamente sfugge alla conoscenza umana. L’estetica si rivela perciò, secondo quanto viene reso esplicito nel secondo capitolo, “immanente alla semiotica” (p. 28). In quanto tale essa è pensata da Garroni come “filosofia non speciale” (p. 29). Entro questa prospettiva, la prospettiva della prima fase, quella di un’estetica (che è) semiotica, Garroni, in linea con Eco, si avvale dell’atteggiamento strutturalista per affrontare “questioni riguardanti il linguaggio dell’architettura, del cinema, della comunicazione visiva, dell’iconismo” (p. 30). L’idea è quella, espressa in Semiotica ed estetica, di mettere in pratica „un approccio propriamente semiotico (formale) dell’opera d’arte o del messaggio artistico” (p. 32). Il riferimento privilegiato per questa importazione metodologica è Louis Hjelmslev, che ha dato formulazione rigorosa alle intuizioni di Saussure. Tra semioticità ed esteticità non vige alcuna relazionalità gerarchica; il loro coesistere l’una nell’altra è legato ai molteplici modi di esplicarsi di quello che Hjelmslev chiama l’universale principio di formazione, alla molteplicità delle sostanze semiotiche che ne consegue e delle forme espressive e di contenuto che esse manifestano.
Come si legge nel terzo capitolo, Garroni sfrutta, anche se “in modo alquanto libero”, come egli stesso tiene a precisare, la formalità hjelmsleviana. La teoria del semiotico danese si trasfigura: “lo spirito scientifico della Glossematica offre all’estetologo e semiotico italiano” – scrive Caputo – “uno statuto epistemologico forte che risponde ai requisiti della filosofia kantiana” (p. 41). Il metodo empirico e deduttivo della Glossematica fa della teoria “una procedura di formazione, non una forma prefissata e statica”, in quanto tale la teoria “è una costruzione/progettazione/modellizzazione che appartiene alla forma (a-realisticità della teoria) e alla sostanza (adeguatezza), laddove, però, è la sostanza a determinare la forma, a calarla cioè in questo o quel dato empirico-sensibile” (ibidem). Tale costruzione non potrà quindi che avere una struttura interpretativa: le entità semiotiche non sono più oggetti, o meglio “cose” o dati grezzi, bensì sono rapporti, funzioni.

Garroni tuttavia non manca di rilevare tanto l’ambivalenza e talvolta l’ambiguità del movimento di Hjelmslev “verso la forma e verso la sostanza, verso l’arbitrarietà e verso l’adeguatezza della teoria” nonché “verso una teoria specifica e una teoria non specifica” (p. 45), quanto “alcune difficoltà nelle relazioni tra l’articolazione espressione/contenuto e l’articolazione forma/sostanza delle quali era consapevole lo stesso Hjelmslev” (p. 52). Nell’avanzare dubbi e perplessità circa questi punti, Garroni lascia emergere una differenza di prospettiva rispetto allo studioso danese che si è mostrato prioritariamente interessato alla costruzione di una nuova teoria del linguaggio senza alcuna esplicita finalità filosofica. Nonostante questa differenza, però, il lavoro critico del filosofo italiano pone l’accento sull’importanza del contributo della Glossematica al rinnovamento della filosofia del linguaggio e della semiotica.
Nel quarto capitolo, Caputo illustra con le dovute precisazioni il passaggio garroniano alla critica della semiotica. Contrariamente a quanto egli stesso sembra dichiarare differenziando la progettualità di Ricognizione della semiotica da quella dell’antecedente Progetto di semiotica, è non tanto un abbandono della semiotica o un porsi di contro a essa, quanto piuttosto una critica del suo statuto in senso kantiano, nello specifico nel senso del Kant della Critica del Giudizio. Prende qui forma il paradosso della semiotica, ovvero il suo essere fondata su una parte che le dà fondamento, la semantica, e questo perché Garroni capovolge la prospettiva del significato a partire dal segno per procedere dal significato, inteso come relatum, come funzione del processo semiotico che trascende il linguistico, al segno.
Quest’ultimo trova così, nel passaggio dalla semiotica alla semantica, il suo fuori, l’extrasemiotico, l’altro dal semiotico, che è per la semiotica costitutivo e imprescindibile. Entro questa visione il significato viene concepito come formatività e differenzialità (cfr. p. 69).
Nel “fuori” troviamo le radici del lógos umano, scopriamo “la condizione trascendentale che rende possibili le varie modalità di rapporto col mondo” (p. 71). Si tratta della “capacità semiotica o metasemiotica che sussume la capacità semiosica o semplicemente comunicativa della vita” (ibidem), ovvero della capacità che Garroni chiama componente metaoperativa, intrinseca all’ambiente semiotico umano, distinguendola dalla componente metalinguistica del linguaggio dalla quale la prima può essere rescissa: “tra di esse c’è somiglianza, ma non identità” (p. 72). Se l’animale non umano opera fisicamente, a stretto contatto con l’ambiente circostante, in presenza degli elementi di questo ambiente, reagisce in base a relazioni segnaletiche e non segniche o meta-relazioni, l’animale umano, invece, va al di là del rapporto usurante e fisico con il mondo, non si limita a reagire, bensì risponde, prende posizione in base a scopi e pregiudizi, astrae, crea rapporti meta-fisici, produce segni di segni, simboli. In senso sempre critico, e coerentemente con questa apertura e questo rinnovamento della teoria dei segni, Garroni contrappone alla tendenza totalizzante della semiotica che tutto pensa di poter tradurre, il criterio della riformulazione inteso come principio regolativo piuttosto che costitutivo. Il problema della definizione della semiotica viene allora ad articolarsi su due piani, il piano fattuale o empirico, ossia quello del nostro stare dentro al linguaggio, e il piano formale o epistemico che è quello del comprendere e sentire di stare dentro al linguaggio.
Nel quinto capitolo del libro si tematizza l’inesprimibile, discutendo la questione del verbocentrismo. Le lingue verbali non sono sistemi onnipotenti o onniformativi, alla loro presunta onniformatività, nel senso di un poter dire tutto, si oppone l’inesprimibile, non come “cosa in sé”, ma come “non ancora espresso”, come residuo che mette in risalto i limiti di una lingua imponendo una riformulazione o una traduzione sempre nuova. Se è vero che le lingue verbali presentano il più alto tasso di interpretanza e traduttività rispetto agli altri sistemi linguistici che ci è dato conoscere, non è vero però che sono onniformative nel senso che possono dire tutto: non possono mai formulare un senso o un significato una volta per tutte, devono sempre riformulare, reinterpretare, senza poter mai esaurire la totalità dell’esperienza; lasciano “sempre qualcosa di non riformulato e riformulabile, un al di fuori che si costruisce attraverso i limiti del dentro (il riformulato o l’interpretato) e ha le sue radici nella natura umana” (p. 94). E’ però vero che una lingua verbale è onniformativa in un’altra accezione: vi sono infatti due accezioni di onniformatività delineate dallo stesso Garroni. Le lingue verbali, in quanto dotate di capacità metalinguistica riflessiva, quella capacità, indice della natura traduttiva delle produzioni linguistiche umane, che permette il continuo chiarimento a noi stessi e agli altri del senso delle parole, che “consente di capirci oltre e contro ogni divergente variazione perché siamo in grado, anche in corso d’opera, anche mentre parliamo, di produrre “glosse” o “commenti” a ciò che veniamo dicendo e ascoltando per spiegarci meglio o chiedere spiegazioni” (p. 95), sono piuttosto interessate dall’onniformatività intesa da Garroni “come produttività o capacità di dire sempre qualcosa di più” e “di nuovo” sull’esperienza del dicibile (compreso lo stesso dire della lingua)” (p. 98). Questa onniformatività deve essere letta come formatività aperta (cfr. pp. 98-99). Nel sesto ed ultimo capitolo la riflessione garroniana sulla creatività viene confrontata con il gioco del fantasticare di Peirce di matrice schilleriana. Il tracciato di Caputo permette di cogliere chiaramente il rifiuto di un concetto di creatività di stampo romantico-idealistico senza che questo significhi “accettare l’estremo opposto di una creatività totalmente governata da regole” (p. 112). In una visione semiotica della creatività, qual è quella di Garroni che si mostra qui come altrove imparentato con Wittgenstein, che come esito di una mediazione tra fattuale di partenza e problema da risolvere vede la creatività come sinonimo di costruttività e formatività, sarebbe forse corretto parlare di una creatività di regole non regolata: una creatività governata da regole in grado però anche di cambiare le regole, di inventarle, in quanto la regola non costituisce un’identità chiusa e completa, bensì rivela uno spazio libero, vuoto, che viene riempito dalla prassi che la adatta fino al punto di riscriverla, di cambiarla. Nell’appendice, infine, Caputo mette in risalto l’attenzione che, alcuni anni prima di Garroni, Galvano Della Volpe aveva avuto per Hjelmslev e Saussure, ancor prima della traduzione italiana delle opere di questi padri dello Strutturalismo europeo, sottolineando il contributo dell’estetica all’affermazione della semiotica in Italia.

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* pubblicato in rete il 22 luglio 2013 su EIC, ISSN 1970 – 7452.

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