Di SONIA CAPOROSSI
In giorni come questi in cui si torna a parlare della legittima urgenza di una legge contro l’omotransfobia, accanto e dietro alla lotta per la parità dei diritti civili delle persone LGBTQ, permane aperta nell’opinione pubblica la questione del Gender, che riguarda la determinazione dello shifting attualmente in corso tra i generi sessuali, i diritti e i doveri a questo stesso shifting sottesi e da questo shifting resi mobili e fluidificati (tanto che forse sarebbe più opportuno parlare di fading). Il discorso sul Gender ha ormai assunto il valore di una lotta per la libertà contro la differenziazione binaristica di genere che reca in sé una millenaria storia avvilente di squilibri e soprusi, lotta che si contrappone all’uso dispregiativo dell’espressione Gender Theory, sorta in ambito cattolico nel corso del Novecento come modalità di opposizione reazionaria rispetto ai movimenti di liberalizzazione concettuale LGBTQ, tacciati spesso di lobbismo. Diciamo subito che no, la Teoria Gender in realtà non esiste: è un’invenzione terroristica che tenta di svilire decenni di Gender Studies di valore accademico e culturale immenso. Vorrei però, in questa sede, provare a puntualizzare un paio di sfumature, che certamente daranno fastidio ai tradizionalisti così come alle frange dure e pure del movimento LGBTQ, nel tentativo di rintracciare una terza linea di riflessione che oserei definire impura.
È sottile notare come tale lotta per la libertà spesso reca all’estremo la differenziazione stessa, contro qualsiasi punto di partenza che vorrebbe abolirne la portata; da una parte si avversa il binarismo, rendendo evidente la stereotipia incrostata del dualismo M/F; dall’altra lo si centuplica in infinite sfumature (e definizioni neologistiche annesse) che vogliono identificare quanti tipi di identità e di sessualità si danno in natura/cultura. Ciò che voglio dire sul Gender è questo, ed è un concetto abbastanza sottile che potrà dar fastidio: 1) non si combatte la differenziazione di genere stereotipata a priori e per partito preso; altrimenti non esisterebbe ad esempio il transessualismo, che invece la valorizza, anche nei comportamenti, nel vestiario ecc. 2) non la si combatte perché sia a priori un male antistorico e antisociale, in quanto la differenziazione di genere, di per sé, non lo è; 3) se proprio uno la vuole per forza combattere, non la si combatte soprattutto con l’indifferenziazione tra uomo e donna, che non consiste in altro, a ben vedere, che in un ribadirla.
Entrare nell’ottica di non combattere la differenziazione di genere per i motivi 1, 2 e 3 vuol dire, molto semplicemente, deresponsabilizzare ogni contrattualismo sociale e rendere le percezioni del sé e le relazioni con l’altro veramente fluide; ovvero, senza moralismi precostituiti, renderle baumaniamente liquide (a costo di positivizzare lo stilema del sociologo polacco). Ci rendiamo conto certamente che dalle categorie purtroppo non si sfugge, al limite, le si può solo de-dualizzare e moltiplicare. Infatti, si notano fenomeni sempre più fluidificanti e fluidificati di interrelazione tra i sessi, sia a livello introflesso (ciò che/chi uno sente di essere) sia a livello estroflesso (ciò che/chi a uno sessualmente piace): così, FtM che amano gli uomini e MtF che continuano a preferire le donne fanno un glorioso pendant con persone omosessuali che si innamorano di individui del sesso opposto o persone eterosessuali da una vita che si innamorano di individui del proprio sesso, tanto per citare quattro casi abituali e per non scendere in ulteriori e variegate modificazioni della percezione del proprio genere e dei propri gusti; tutte legittime, tutte ormai socialmente riconosciute, se per gli studi genere vale ciò che si dà per assodato in riferimento al linguaggio, ovvero che la lingua si modifica costruttivisticamente in base all’uso che se ne fa (questo, per inciso, è il principale motivo per cui vengono coniati continuamente neologismi sul tema: cisgender, transgender, genderfluid, pansessuale, polisessuale ecc.).
Una tale constatazione ci porta a individuare l’esistenza certificata delle cosiddette identità non binarie; le quali esistono, ma non consistono in un’indifferenziazione concettuale tra uomo e donna. Essendo io stessa, di fatto, una discreta rappresentante dell’identità a percezione non binaria, mi permetto di affermare con una certa sicurezza derivata da un sentire personale che la singolarità e irripetibilità del singolo individuo è un quid fattuale, vale a dire non costruttivistico: di costruttivistico ci sono i ruoli sociali dei sessi, non l’identità aurorale in sé. Il problema, troppo spesso, consiste nel fatto che questa distinzione viene facilmente dimenticata a fronte di un’impostazione costruttivistica che declina facilmente nel relativismo assoluto.
A mio parere, occorre tener conto del fatto che maschio e femmina sono fatti biologicamente determinati solo in parte, ma anche del fatto che la tesi in base alla quale si diventa uomo e donna in funzione di una cornice culturale è una tesi semplicistica e deterministica esattamente come la tesi che vuole ruoli sessuali prefissati, perché a sua volta il binarismo uomo-donna, come del resto quello atavico e primigenio maschio-femmina, è concettualmente tendente alla naturalizzazione di matrice culturale e all’istituzione di ordini simbolici socialmente utili. Insomma, dalla simbolizzazione normativizzante non si scappa né essendo diversi né essendo omologati. I tradizionalisti facili allo scandalo dovrebbero quindi abbandonare il binarismo e, se proprio vogliono differenziare, prendere atto della tripartizione irriducibile di identità di genere, sesso e orientamento sessuale (che sono tre cose ben diverse); i rivoluzionari dovrebbero, a loro volta, prendere atto del pericolo insito in una indistinzione coatta che non permetta di ricondurre all’autoriconoscimento oltre la pura percezione del sé.
Il rischio dell’indifferenziazione, per contro, consiste chiaramente nell’appiattimento sul pronome maschile singolare e plurale. C’è poi la proposta del neutro maschile, già, l’ID, l’IT che trasforma in DING: cosa sarebbe questo tertium fra Lui e Lei, una cosalità alogica? Spesso si analizza, si mette in discussione o si stigmatizza “l’idea” del binarismo come semplicistico e si spaccia la sua negazione come scoperta; al contrario, che ci sia uno spettro più ampio del semplicistico binarismo in natura è cosa nota da sempre, come sanno bene i biologi, gli etologi, i medici, gli psichiatri. Allora, ciò che normalmente a livello di ideologia si compie non è mai un salto al dato di fatto, non è mai un calarsi a picco nella natura, ma un permanere invece nella dimensione della cultura, che è sempre di impostazione costruttivistica e quindi, in quanto tale, cangiante e indefinita, perché si mette in moto sempre e solo a una teorizzazione della teorizzazione, generando puntualmente l’ideologismo di turno (con -ismo suffisso peggiorativo), ovvero l’interpretazione in seconda di un’interpretazione precedente (attenzione: mai del dato, sempre di un’interpretazione!). In questo modo, non potrà mai arrivare davvero il giorno in cui saremo liberati, per esempio, da gente come le Sentinelle In Piedi, Adinolfi, Pillon o Fontana; se tutto ciò che riusciamo a contrapporre a delle teorie costruttivistiche sono altre teorie costruttivistiche, diventa difficile controbattere alla pacata obiezione: “io ho un’idea diversa dalla tua”, bonarietà che accampa lo stesso diritto all’ideologismo che esercitiamo noi.
In definitiva, si giunge facilmente al paradosso concettuale in base al quale delle due l’una: 1) o si ammette che i fascisti, i queerofobi e gli integralisti cattolici abbiano pieno diritto a pensare ciò che pensano, diritto da noi condiviso, oppure 2) li si esclude dal novero del diritto alla libera espressione, ma allora non ci dovremmo stupire del fascismo concettuale altrui. E questo, al fondo filosofico della questione, rientra nel vetusto problema etico della tolleranza, declinabile così: bisogna tollerare gli intolleranti o non tollerandoli è necessario diventare intolleranti a nostra volta? Io, per parte mia, mi riconosco nell’essere un’omosessuale androgina che possiede una percezione fluida del proprio corpo e della propria identità; i concetti di normalità o anormalità sono per me e in me un non senso, niente di sessuale è socialmente determinato in me se non il linguaggio e il medium culturale con cui esprimo il mio modo d’essere. Tutto il resto è estetica e natura, ovvero, banalmente, viene da sé.
L’ha ripubblicato su disartrofonie.