
Di GUIDO TURCO
Alla domanda: gli artisti visivi “puri” possono ancora affermare che il loro tipo di creatività è originario rispetto a quello dei creativi di altri settori? Mi viene da rispondere: cosa vuol dire artisti visivi “puri”? Chi, tra gli artisti, ha mai parlato di verginità della vista? Chi mai ha dubitato del fatto che l’atto del vedere e del proporre una visione sia il risultato di combinazioni differenti e, quindi, impuro per natura? Impuro, ma non falso, non corrotto e complice; impuro e resistente, quindi. [1]
Noi riusciamo a vedere ciò che abbiamo imparato a vedere, informati e guidati da un concetto estetico le cui caratteristiche suscitano un sentimento di reciprocità che può indurre emozione.
O sarà la rappresentazione (Vorstellung) che simula e propone un ordine, dove non v’è ordine alcuno che sia presente?
Parlare del paesaggio vuol dire parlare di codici visivi, del pathos che induce “ciò che abbiamo sotto gli occhi”, di coordinate, luce e linee che tratteggiano forme, un cosmo.
Ma il referente della vista è il falso indizio, è la causa apparente. Parlare del paesaggio vuol dire parlare della durata, di quello “stare” cantato da Handke, “che fornisce contorno a quanto ha la tendenza a dissolversi”. [2]
Poi, parlare non basta, bisogna guardare nuovamente.
L’illimitatamente visibile include e insieme esclude l’uomo. Egli vede, e vede che è di continuo abbandonato. Le apparenze appartengono allo spazio illimitato del visibile. Con l’occhio interiore l’uomo sperimenta lo spazio della propria immaginazione e riflessione. Di solito è al riparo di questo spazio interiore che egli situa, conserva, coltiva, lascia che si scateni o costruisce il Significato. Nel momento della rivelazione, quando apparenza e significato diventano un’identica cosa, lo spazio della fisica e lo spazio interiore del vedente coincidono: momentaneamente ed eccezionalmente il vedente raggiunge la parità con il visibile. Per perdere ogni senso di esclusione; per essere al centro. [3]
“Guardare nuovamente” e soffermarsi sul rapporto tra il paesaggio ed il suo segno, sulla complicità di natura elettrica che corre tra l’apparizione fenomenica e la fenomenologia della rappresentazione. Dipendenza, interdipendenza, indipendenza.
Un’intenzione che vuole e che cresce, e nella mutazione cronologica finalmente si esaurisce.
Per l’usuale portamento dell’estetica tradizionale di impronta platonica, si distingue nell’opera d’arte l’esteriorità dal contenuto, la sua bellezza in senso cosmetico-ornamentale dal supposto significato profondo.
Di simboli come questo sono costruite le nostre prigioni.
Il paesaggio si intenda come eccentrico, l’opera paesaggistica un oggetto che non rimanda ad alcun significato ulteriore, consumante il proprio senso nella dialettica di una doppia presenza: del fuori a suscitare e del dentro a risuscitare.
Toscana II
Li distingui appena gli stridii dei rondoni
dai clamori dei troppi turisti,
tra i fumastri delle sigarette
tieni stretta la Leica
come un sasso da scagliare
più in fretta.
La verità è che non ti arrendi,
la grammatica indifferente
dei luoghi per caso non vale
la rondine battistrada
o quel milione di spighe
dove il mondo sta raccolto
come fosse la prima volta.
L’estetizzazione del mondo ha sempre avuto le sue arti dominanti. Dal Quattrocento agli albori del Novecento della promozione del paesaggio si è incaricata la pittura. La troppo breve gestazione della fine de secolo XX° e gli albori del XXI° ancora non hanno designato il nuovo paradigma a fissare la comprensione edonica del fuori, il possibile rapporto con una più eterogenea complessità, composta vieppiù da asimmetrici e non-euclidei spazi-curve, spazi-forze, spazi-ambienti.
Il progetto economico (…) non fa che estendere ovunque il modello dell’efficienza redditizia, rendendo indistinguibile la singolarità dei luoghi, poiché è l’altro lato dell’indifferenza che abbandona la terra a se stessa, (…) in un’ardua mappatura di quegli spazi assolutamente vuoti e incomprensibili, come i vastissimi piazzali, i parcheggi degli ipermercati luna-park, le enormi distese d’asfalto senza destinazione. [4]
Orizzonti
Dalla terrazza panoramica
la cicatrice orizzontale
delle coltivazioni
orizzonte irregolare che non prevede animali,
binari, lucernari
riflessi nel moto che s’impregna del vuoto,
l’accozzaglia del tessuto urbano
e
nuove specie di parassiti circolanti
la verticalità in vetrocemento.
La cancellazione dello spazio che circonda la parte inquadrata è per me importante quanto il rappresentato, ed è grazie a questa cancellazione che l’immagine assume senso diventando misurabile.
Contemporaneamente l’immagine continua nel visibile della cancellazione, e ci invita a vedere il resto del reale non rappresentato. [5]
Manca qualcosa. Cambiano le coordinate del riconoscimento, consumato il sodalizio consueto tra l’esterno e la sua possibile rappresentazione, lo spazio naturale e antropico si avvia verso punti di scomparsa.
Apprendibile, interrogandolo da qui,
il luogo inesistente che la rosa dell’anno sterile
indica come dimora. [6]
La prima creazione
(fenomenologia dell’abitare un posto che non vuole essere abitato)
1.
Certi di un duro inchiostro sottile
tengono legato l’azzurro all’azzurro
dispari fili elettrici.
Soli della più dura pietra
profili di ripari,
di colline.
2.
Dal pozzo del nessun nome
la pietra bianca di nessuna costruzione.
Stenti nomi,
voli improvvisi per subito svanire.
Subito finita calce.
3.
Lo ctonio pulsare che pure c’era
non si avverte più
ma un sordo cozzare del sasso contro il sasso
quando una e più sostenuta onda
rismuove il fondale.
Resta il trascorrere
disaggettivato dell’intorno,
pensamenti che non sostano
ma volano a stormi compatti
e regolati dalle correnti
, rondini un gioco di nubi,
come navi di carico diverso
il nero diverso dei carrubi.
4.
Viene poi, inusitato amplesso,
a disegnare di sé,
(bianca acetilene a conferire una sbiadita sostanza
all’opaco)
l’abbrivio all’orizzonte di grave leggero,
un veliero prima, la morsicata
petroliera adesso.
Non rimangono segnali di trascorsi numi,
ma spezzate, masticate pietre
a sorvegliare i camminamenti,
a dire separato questo mondo,
vane parole
consegnate al presto buio di una tana.
Qual è il motivo di questa fobia? Io sono del parere che essa esprima soprattutto l’inadeguatezza del nostro sguardo e il ricorso nostalgico, anacronistico, e in ogni caso sterile a modelli bucolici ormai superati. Noi non sappiamo ancora vedere le nostre città industriali, la bellezza di un’autostrada, di un esercito di tralicci schierati in ordine di battaglia. [7]
Sulla strada che porta ad un vulcano spento
Non c’è tempo per essere intelligente
sfrecciare gli svincoli
le tangenziali a raccordare grandi arterie
entrate domestiche e internazionali
decritto segnali
di pericolo di lavori in corso
faccio pieni con card del fai-da-te
sguardo perso ad asfissie di carreggiata
arrivo e parto scambievolmente
tra le palpebre e la mente
il grado di acidità dell’aria
la progressione dell’appassione dei viali
parabole che non fanno trasmissioni
ma condensata soma
nella mappa dei coglioni.
1. Torsione: uno sguardo alle periferie
2. Elevazione: cercando i limiti
3. Frontalità: una campionatura
4. Attraversamenti: dentro la moltitudine [8]
Produrre Collezioni. Trasmigrazióni. L’atteggiamento tassonomico superato dalla raccolta degli affreschi, bidimensionali o a massa spigolosa, asimmetrica e liquida superficie. Campionatura dinamica, sezioni del paesaggio, biopsie a tema, scritte murali come note a margine all’incombere del perimetro, pochi cieli a fare da sfondo.
Punti fermi destinati a svanire, consumarsi intonacarsi demolirsi graffiarsi. Bruciare. Lacerti dal movimento oscillante, tagli della visione, la visionarietà fotografica che poetizza l’impoetabile.
Mistica metropolitana
Incrementi escrementali
le scritte murali slogan cubitali
immaginario verbale
neon brulicanti carsi messaggi
figure appese e disapprese
rotelliche affissioni
volti del più e del meno noto
rivali del sutra minimo del vuoto.
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[1] Alfredo Pirri, Il Sole 24 Ore – 2004
[2] Peter Handke, Canto alla durata, Einaudi – 1995
[3] John Berger, Distanza, da “E i nostri volti, amore mio, leggeri come foto”, L’Ancora del Mediterraneo – 2002
[4] Marco Sironi, Geografie del Narrare – Insistenze sui luoghi di Luigi Ghirri e Gianni Celati, Edizioni Diabasis – 2004
[5] Luigi Ghirri, Kodachrome, Modena – 1978
[6] Paul Celan, Fadensonnen – Filamenti di sole, Suhrkamp Verlag 1968, Mondadori 1998
[7] Alain Roger, Il paesaggio occidentale, “Lettera Internazionale” – Ottobre-Dicembre 1991
[8] Stefano Boeri, Una geografia dello sguardo, da “Il Sole-24 Ore” – Domenica 20 Luglio 2003