
Di FRANCESCO CARDONE*
Per Emanuele Severino tutta la storia dell’Occidente è la storia del nichilismo, inteso come l’identificazione dell’essere col nulla. Il pensiero occidentale, prima che raggiunga la sua piena trasparenza nel pensiero di Leopardi, non affermerà mai direttamente l’identificazione dell’essere con il suo opposto, eppure questa identificazione scorre sotterraneamente lungo tutta la storia dell’Occidente. Concetti quali divenire, nichilismo, tecnica, poíesis, volontà di potenza, hýbris, arte, poesia, sono l’inconscia espressione di questa folle identità.
La storia dell’Occidente è la storia dell’inoltrarsi del pensiero lungo il sentiero della notte, indicato per la prima volta da Parmenide, e che egli stesso mostrava come impossibile ed impraticabile. Eppure, è proprio questo sentiero della notte l’unico sentiero che l’Occidente ha percorso.
Il culmine di questo sentiero è la nostra epoca, quella che vede nella tecnica la nuova matrice dell’esistenza dell’uomo. Se in tutta la storia dell’Occidente il divenire annientante delle cose è stato sempre contrapposto all’epistéme dell’essere eterno e trascendente, che come tale sta al di là del divenire, con il compimento della storia dell’Occidente, l’eterno deve inesorabilmente tramontare, in quanto rende impossibile l’evidenza del divenire nichilistico, quell’evidenza che è già presente quando l’Occidente fonda l’epistéme dell’eterno, ma, appunto, in lotta con quest’ultimo. La storia dell’Occidente è dunque la storia della dialettica tra l’eterno e il divenire, dialettica che, però, deve tramontare, perché il divenire sia l’unica verità. La tecnica compie questo tramonto, perché aderisce completamente alla tendenza annientante del divenire nichilistico, è esso stesso divenire. La sua struttura è ipotetica in quanto tale, ed è solo per questa sua capacità di non radicarsi su un fondamento stabile, che permette alla tecnica di dominare tutto l’essente. Sciolto da qualsiasi legame la tecnica diventa la struttura che più si può adattare ai continui mutamenti del divenire, di quel divenire che per tutta la storia dell’Occidente rimane l’evidenza assoluta della realtà. Ma perché la tecnica diventi l’espressione più coerente del divenire, gli immutabili della metafisica debbono tramontare, Dio stesso deve morire.
Questa continua ed inesorabile purificazione del divenire dall’eterno trascendente la troviamo compiutamente espressa nella storia del concetto della poíesis, quale fondamento stesso dell’arte. La poíesis indica il produrre in quanto tale, il portare fuori qualcosa nell’apparire. All’inizio della storia dell’Occidente la poíesis è possibile solo perché si fonda su un sapere mimetico, che ha il suo fondamento nella verità immutabile dell’essere, come le idee platoniche. Lungo la storia dell’Occidente la poíesis ha dunque un referente ultimo che è la verità immutabile, ma questa verità deve al termine di questo sentiero tramontare. Ma con questo tramonto la poíesis, perdendo il suo referente ultimo, deve aderire esclusivamente al divenire nichilistico, diventare essa stessa divenire nichilistico “senza perché” e senza una meta ultima. Ed è solo per questa sua completa aderenza al divenire nichilistico che si è reso possibile qualcosa come l’arte contemporanea, che appunto ha sgretolato i principi millenari dell’arte. L’hegeliana «morte dell’arte» può essere intesa come lo scioglimento del produrre artistico dal referente eterno ed immutabile su cui tale produrre si era sempre fondato.
La grandezza dell’arte sta nella sua capacità di cogliere la tendenza fondamentale delle epoche e di mostrarla nella sua opera. Al di là di qualsiasi riduzione dell’arte a qualcosa di meramente ludico e frivolo, essa è uno degli occhi privilegianti dove l’essenziale viene colto e mostrato. In particolare, Severino mostra come l’opera poetica di Eschilo e Leopardi non si riduce ad opera prettamente letteraria, ma in essa si esprime la profondità di tutto il pensiero occidentale, dal suo inizio fino al suo compimento. L’opera di Eschilo e Leopardi è opera eminentemente pensante, il suo essere poetante è un tutt’uno col suo essere pensante.
L’intento dell’interpretazione di Severino è quella di far emergere dall’opera poetica di questi due autori la profondità filosofica del loro pensiero. Ebbene, questa interpretazione mostra che il pensiero-poetante di Eschilo e Leopardi stanno rispettivamente all’inizio e al termine di tutta la storia del pensiero nichilista dell’Occidente. Ma non nel senso che ne sono i “cantori”. Nella loro opera pensante cioè non è semplicemente mostrato quello che è già “semplicemente presente”, e che viene ridetto nel linguaggio della poesia, bensì la loro opera anticipa ciò che sarà la storia dell’Occidente, guardano e mostrano sino in fondo il sentiero della notte che l’Occidente è destinato a percorrere fino al suo compimento. Anticipando il senso di questo sentiero che l’Occidente è destinato a percorrere, essi in un certo qual modo fondano il senso di questo percorso. In particolare: da una parte, Eschilo mostra il senso che l’epistéme ha per tutta la storia dell’Occidente; dall’altra, Leopardi mostra che la stessa epistéme è destinata a tramontare, anticipando il significato essenziale della tecnica della nostra epoca.
Eschilo per primo mostra il senso dell’epistéme, perché coglie il rapporto essenziale che lega originariamente il senso dell’eterno con il senso del divenire. Quindi, Eschilo mostra il significato essenziale che l’epistéme e il divenire avranno per tutto l’Occidente. A partire dal pensiero greco il divenire è inteso come annientamento, distruzione non reversibile dell’essente, ma anche la stessa provenienza dell’essente viene pensata come nulla, come novità assoluta. Partendo da questa evidenza, Eschilo per primo pensa l’ epistéme come “rimedio” contro la “malattia” annientante del divenire. Con Eschilo sorge la dialettica tra divenire ed eterno, intesa nella sua essenza come dialettica tra malattia e rimedio. Infatti, nell’opera di Eschilo l’evidenza dell’annientamento dell’essente nella sua unicità viene contrapposta al sapere epistemico del principio del Tutto (Zeus) che è «sempre salvo», e che solo può liberare il mortale dal dolore dell’annientamento. Questa liberazione, però, non significa il toglimento del senso nichilistico del divenire, che rimane l’evidenza suprema dell’Occidente, ma significa che solo sapendo che l’essenza di ogni cosa è «sempre salva» nel principio del Tutto, il mortale può liberarsi con verità dal dolore. Sapendo che la propria essenza è sempre salva nel principio del Tutto, il mortale può scacciare con verità il dolore del divenire, ma l’essenza sempre salva non è per Eschilo l’interezza dell’uomo, bensì solo quella parte che appunto appartiene al principio del Tutto: quell’essenza che l’Occidente chiamerà con la parola “anima”. Ma al di là di quest’essenza Eschilo sa che tutte le cose sono destinate ad essere annientate. Sa che il principio del Tutto non può salvare il mortale nella sua interezza dall’annientamento del divenire, ma solo quella parte che proviene e ritorna nel principio eterno del Tutto.
Ma se Eschilo inaugura la dialettica tra malattia e rimedio, Leopardi fa un passo ulteriore, mostrando il carattere illusorio dell’epistéme, mostrando in sostanza che anche l’essenza di ogni cosa è destinata ad essere annientata. Con Leopardi il divenire annientante diventa l’unica verità eterna dell’essente nella sua totalità. Ogni cosa proviene e ritorna nel nulla.
Nessun principio regola il divenire dell’essente. Con Leopardi l’Occidente raggiunge il suo compimento, che si mostra come il tramonto degli immutabili della metafisica e della corrispondente dialettica tra l’eterno e il divenire nichilistico, il quale permane come unica verità dell’essente nella sua totalità. La tecnica che nel pensiero di Eschilo è più debole della Necessità del Tutto, con il compimento della storia dell’Occidente, diventa la struttura più potente, in quanto l’unica che riesce ad essere veramente coerente con il divenire nichilistico. Leopardi, cogliendo l’essenza nichilistica di tutto l’essente, diventa, oltre al primo vero nichilista dell’Occidente, ancor prima del pensiero di Nietzsche, anche il primo pensatore della tecnica odierna. Con Leopardi l’unico rimedio che può contrapporsi al nulla non può essere più la verità eterna del Tutto, ma l’illusione della poesia: il profumo della ginestra. Le illusioni della poesia, dell’opera del genio, non appartengono alla struttura immutabile della verità epistemica, esse sono equiparabili al profumo certamente vivificante della ginestra, che si diffonde sul deserto del divenire annientante, ma allo stesso modo appartengono al deserto, alla mortalità di tutte le cose. Nella dimensione piena del nichilismo non vi è più salvezza, ogni cosa è destinata inesorabilmente ad essere annientata.
Ma quando il pensiero Occidentale con Leopardi raggiunge la sua più piena trasparenza, nel senso appunto che per la prima volta viene affermato ciò che l’Occidente custodisce nel proprio inconscio, ossia l’essere nulla da parte dell’essente, si mostra la follia di questo pensiero, quello appunto che sta nell’identificare gli assolutamente opposti: l’essere e il nulla.
Se però questa identità tra l’essere e il nulla, che lungo tutta la storia del pensiero occidentale rimane il fondamento mai mostrato pienamente prima di Leopardi, d’altra parte, l’Occidente e con esso lo stesso Leopardi non coglie la follia insita in questa identità e nel conseguente divenire nichilistico. Nel senso che la follia dell’Occidente non viene pensata come follia, ma come la verità evidente dell’essente diveniente.
Ma una volta colta pienamente la follia del pensiero occidentale che si è inoltrato già dalla sua origine lungo il sentiero della notte, è possibile ritornare al bivio indicato da Parmenide e inoltrarsi lungo il sentiero del giorno, il sentiero che dice che l’essere è e non è il non essere?
Per Severino questo sentiero è l’unico che in verità può essere percorso, in quanto, appunto, il sentiero della notte è il sentiero della follia, di ciò che non può essere in alcun modo, il sentiero in cui il nulla può essere predicato solo del nulla. Questo significa che il sentiero della notte è in verità l’errata interpretazione del sentiero del giorno: questa interpretazione è lo stesso Occidente.
Se, dunque, l’unico sentiero che da sempre l’uomo necessariamente percorre è quello del giorno, allora al di sotto dell’inconscio dell’Occidente, si scorge la verità eterna dell’essere: l’inconscio di questo inconscio. Nel sentiero del giorno indicato da Parmenide l’essere è eternamente identico a se stesso, solo perché si oppone eternamente al nulla. Ma, il punto essenziale del pensiero di Severino che va oltre Parmenide, è che l’essere eternamente se stesso non è l’essere svuotato della molteplicità diveniente, ma è la totalità dell’essere: tutte le positività che come tali si oppongono al nulla. Dunque, l’essere eterno ed eternamente se stesso è la totalità dell’essente, dall’infimo granello di sabbia alla volta celeste, tutto è eterno, ed eternamente identico a se stesso: questo è per Severino l’autentico contenuto dell’epistéme.
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* Da F. Cardone, Nichilismo, téchne e poesia nel pensiero di Emanuele Severino, http://www.swif.it/tfo