Di KONRAD GAISER*
Ancora prima di Platone, Empedocle di Agrigento — influenzato evidentemente da quelle concezioni orfico-pitagoriche — ha paragonato esplicitamente il nostro mondo a una caverna. Questo si deduce soprattutto da due frammenti dei suoi Katharmoi (Poema lustrale),se seguiamo l’interpretazione più probabile dei testi. Nei Katharmoi Empedocle descrive i destini dell’anima che per i peccati viene allontanata dal mondo degli dèi e che ora, legata al corpo, deve trascorrere un lungo periodo di punizione e purificazione. In un frammento trasmesso da Porfirio (120 D.-K.: cf. Al) le potenze che conducono l’anima dicono: «Giungemmo sotto questa caverna coperta». Dicono questo, se intendiamo bene le parole, quando l’anima, allontanata dal mondo divino, entra nel mondo terreno. Porfirio porta questa citazione come prova che già prima di Platone i pitagorici hanno inteso il nostro cosmo come una specie di caverna. Nell’altro frammento (121 D.-K.: cf. A 1) si parla di un luogo ‘senza gioia’ nel quale tutti i possibili spiriti infelici vagano ‘sul prato di Ate al buio’. Queste espressioni ricordano il mondo di Ade come lo descrive Omero nella Nekyia dell’Odissea. Alcuni interpreti hanno pertanto pensato che Empedocle qui (come anche nell’accenno alla ‘caverna coperta ) parli del regno dei morti nel mondo sotterraneo. Credo però che sia giusta l’interpretazione dominante, secondo la quale Empedocle qui intende il nostro mondo terreno come una specie di mondo sotterraneo e perciò per la sua descrizione usa concetti che provengono da visioni dell’Ade. Questo vale per la parola ‘prato’, mentre Omero dice dell’Ate che Zeus l’ha buttata sulla terra ed essa ora si muove tra gli uomini (Iliade 19, 130-131).
A favore di questa interpretazione sta anche la notizia di Plotino che già Empedocle, come dopo di lui Platone, ha indicato l’universo in cui viviamo come una caverna. Empedocle presuppone dunque la concezione comune dei Greci che le nostre anime, dopo la morte, scendono nell’Ade, dove sotto la terra conducono una esistenza di ombre e dove espiano i delitti di questa vita. Empedocle però dà un nuovo senso a questa opinione spiegando: Siamo già ora nel mondo sotterraneo e già ora espiamo i delitti precedenti. Può darsi che anche per Empedocle (cosi come per Platone nel Fedone) esista sotto terra un Ade tenebroso come luogo di punizioni ancora peggiori. Ma Empedocle vuol dire che già il nostro mondo sotto il sole, paragonato col mondo pieno di luce, è un dominio del buio. Nel mondo superiore vivono gli dèi e le anime pure. Per mezzo di purificazioni la nostra anima dopo aver espiato qui le sue colpe può tornare nel mondo della luce pura dal quale è venuta giù. Con ciò Empedocle ha anticipato l’immagine e il pensiero fondamentale del paragone della caverna di Platone: la caverna come espressione della lontananza dalla verità, dell’alienazione e della prigionia del nostro essere uomini. Già in Empedocle è sottesa la forma concettuale dell’analogia. Per la sua rappresentazione vale: l’Ade, il mondo sotterraneo omerico (A), sta alla nostra vita terrena (B), come la nostra vita terrena (B) sta al mondo pieno di luce degli dèi (C). In relazione al mondo divino, il nostro mondo umano è un luogo del buio, della disgrazia, della punizione, che, dunque, somiglia all’Ade. Che Platone riprenda ed elabori filosoficamente il paragone di Ade di Empedocle, è dimostrato sia dal Fedone sia dalla Repubblica. Il mito del Fedone riprende il pensiero di Empedocle e lo esplicita con una differenziazione più precisa: ora non viviamo nella luce, non nel mondo vero, ma neanche nell’Ade, profondo sotto la terra, ma in mezzo in un luogo semibuio, che può essere immaginato come una cavità nella superficie terrestre. Nella Repubblica la caverna, in maniera simile a Empedocle, assume taluni tratti propri della antica concezione dell’Ade. Là dove Socrate mette a confronto la felicità di quelli che sono venuti alla luce con l’infelicità di quelli che sono ancora prigionieri (516 D), cita le parole di lamento dell’Achille omerico nel mondo sotterraneo(Odissea 11, 489-490): «È meglio essere servo di un contadino (che il re dell’Ade)!» E nell’interpretazione Socrate paragona il cammino dalla caverna alla luce con l’ascesa dall’Ade verso gli dèi (521 C).
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* Da Il paragone della caverna. Variazioni da Platone a oggi, Bibliopolis, Napoli 1985.