Catabasi e anabasi: la via verticale dell’autocoscienza

Di SONIA CAPOROSSI*

 

All’interno della mitologia greca, ellenistica e romana la figuratività della catabasi (dal greco, discesa κατάβασις, “discesa”) prevale nettamente sull’anabasi (Ἀνάβασις), la “salita” o ascesa al cielo. La distinzione, oltre che per il fatto che per i Greci e i Romani esisteva solamente un Inferno sotterraneo in cui democraticamente andavano tutti, senza la cristiana suddivisione dei peccati, sembra poter essere analizzata su un piano filosofico-estetico. Infatti, se nel mythos greco Ganimede, Ercole e persino Dioniso, divinità ctonia per eccellenza, furono trasportati all’Olimpo, la dizione narratologica della loro situazione si può iscrivere all’interno di una categoria estetica più che etica. Ganimede rappresenta la bellezza, Ercole la forza, Dioniso l’irrazionale: tre caratteristiche umanamente abbarbicate alla natura dell’esserci, senza le quali, tuttavia, la strada verso un proprio personale romanzo di formazione potrebbe essere preclusa; come a dire che senza bellezza, forza e un pizzico di follia l’uomo non può esperienzialmente essere uomo nella sua totalità. Tre virtù che potrebbero essere quindi concepite anche come vizi se le inquadriamo nella colpa di ὕβϱις consistente nel loro eccesso, che tuttavia contribuiscono a costituire il sostrato psicologico e sociale dell’essere umano in quanto tale. Sorvolando sull’assunzione in cielo di Apollonio di Tiana, leggenda ellenistica che richiama il meccanismo anche successivo, greco e romano, dell’ἀποθέωσις imperiale ma che lascia traccia, precisamente, della potenza del culto della personalità di epoca ellenistica, e tralasciando la natura legislativa e pratica dell’apoteosi di Romolo, poi divinizzato col nome di Quirino, la cui funzione è singolarmente legata alla necessità della stabilità politica nella determinazione normativa della regalità romana, potremmo ricordare che già precedentemente ben due personaggi veterotestamentari, Elia il profeta ed Enoch il patriarca, furono condotti in cielo da Dio. Per preservarli dalla morte come eletti o perché era stata loro destinata l’apparizione come testimoni nel noto passo dell’Apocalisse? Non è dato saperlo. Ascesi al cielo anche Mosè secondo Giuseppe Flavio (tuttavia la Bibbia lo nega) e Maometto nel Corano, ma un po’ come Astolfo sulla Luna: in sella a Buraq, un cavallo volante, si involò per i sette Cieli incontrando, tra gli altri, anche Mosè e Gesù, infine Allah. Nel gioco degli archetipi letterari, sembra una sorta di prefigurazione del viaggio dantesco, infatti l’ascensione di Maometto fu solo temporanea; al termine della visita, come Dante dal Paradiso, il Profeta ritornò coi piedi per Terra.

Per la verità, ha una sua consistenza narratologica anche l’anabasi di San Paolo al Terzo Cielo, citata in 2 Corinzi 12, 2-4, a cui fa riferimento Dante nel II Canto dell’Inferno per chiedere a Virgilio il perché della propria visita dell’Aldilà, onore comminato, fra tanti grandi, anche a lui e di cui il Poeta fiorentino si schermisce («Io non Enea, Io non Paulo sono…»). Ad ogni modo, nel cristianesimo il termine Ascensione viene usato solo per Gesù; nell’Islam, si usa per Maometto; nel caso di Maria, che secondo la tradizione e la dottrina cattolica fu trasferita in cielo con il corpo, si parla di Assunzione, come da dogma del 1950. Si suppone nel dibattito teologico che anche San Giuseppe sia stato assunto, ma fino a pronunciamento papale definitivo non si sa.

L’ascensione in Cielo, con o senza corpo, rappresenta mitologematicamente nel caso di Cristo il ritorno nostalgico del Figlio al Padre nella Sede che più gli si confà, nonché, per il resto dell’umanità come prefigurato nel mito del Giudizio Universale e nell’Apocalisse di Giovanni, l’atto di salvazione primigenio, deciso dall’imperscrutabilità divina fin dalla notte dei tempi: in questo senso, non dimentichiamo la simbologia iconografica che rappresenta l’ascensione di Cristo: Ireneo di Lione afferma che «Egli, ascendendo al cielo dopo la sua risurrezione, fu elevato in alto come aquila. Egli dunque è per noi tutto questo insieme: uomo per la sua nascita, vitello per la sua morte, leone nella sua risurrezione, aquila nella sua ascensione al cielo». L’aquila è animale volante, allegoria ascensionale per eccellenza. È interessante notare, tuttavia, come qui Ireneo faccia riferimento al Tetramorfo, simbolo ben più complesso dell’Agnus Dei, comparso per la prima volta in Ezechiele: «Al centro apparve la figura di quattro esseri animati, dei quali questo era l’aspetto: avevano sembianza umana e avevano ciascuno quattro facce e quattro ali […] Quanto alle loro fattezze, ognuno dei quattro aveva fattezze d’uomo; poi fattezze di leone a destra, fattezze di toro a sinistra e ognuno dei quattro, fattezze d’aquila» (Ezechiele 1,5.6.10). Giovanni, dal canto suo, gli fa eco nell’Apocalisse: «In mezzo al trono e attorno al trono vi erano quattro esseri viventi pieni di occhi davanti e dietro. Il primo vivente era simile a un leone, il secondo essere vivente aveva l’aspetto di un vitello, il terzo vivente aveva l’aspetto di un uomo, il quarto vivente era simile a un’aquila mentre vola» (Apocalisse 4,6-7). I quattro esseri rappresentano i quattro angeli che governano il mondo fisico. Sull’onda di un pitagorismo patente (ovviamente non citato dai testi e dagli autori cristiani presi in esempio, ma da me ravvisato come serpeggiante), sembra proprio essere una rielaborazione tematica del significato originario del numero 4: Il 4 come numero cosmico pitagorico, il τετρακτύς, rappresentato comunemente nell’esoterica pitagorica nella sequenza dell’1, del 2, del 3 e del 4 disposti in forma di triangolo, che sommati fra di loro danno il 10 o somma teosofica. L’1, vertice del triangolo, rappresentava la Monade o l’Uno, principio successivamente neoplatonico e teologico per eccellenza, nonché, fra gli elementi, il Fuoco; il 2, scendendo di un livello, rappresentava i principi maschile e femminile, la dualità, la linearità e l’Aria; il 3, nel livello ancora inferiore, significava a sua volta la somma dell’Uno con la Diade, la creazione e la circolarità della vita e, taletianamente, l’Acqua; a livello base, il 4 simboleggiava invece la materialità e la Terra. Indicativo quindi che nella Bibbia questo numero fosse stato considerato il simbolo di Cristo nei quattro aspetti destinali della sua vita secondo il noto passo citato: «Fuit homo nascendo, vitulus moriendo, leo resurgendo, aquila ascendendo». La materialità numerologica del 4 già nel pitagorismo sta ad unire in qualche modo il cielo e la Terra; nel cristianesimo indica il collegamento fra la natura divina e la natura umana di Cristo, ma già a partire dal II secolo, Ireneo per primo e in seguito, fra gli altri, Girolamo hanno attribuito ai quattro esseri viventi un’interpretazione più attinente a una dimensione umana. Il 4 ha così cominciato a simboleggiare i quattro evangelisti, per cui, nel corso del tempo, l’essere vivente antropomorfo ha finito per rappresentare il Vangelo di Matteo, il leone ha simboleggiato Marco, il vitello Luca e l’aquila Giovanni. Tuttavia, in tale interpretazione viene relegato a minor rilievo il senso complessivo ed escatologico, nonché ascensionale, dell’interpretazione originaria relativa alla figura di Cristo, che era proprio del numero 4 fin dai tempi di Pitagora, significato insito nella figura stessa del triangolo proteso col 4 nella base e il vertice nell’Uno.

Del resto, l’anabasi non è possibile senza una base materiale, senza aver prima, figurativamente, esteticamente e moralmente, attraversato il proprio inferno personale; ecco il vero nesso concettuale tra il Cielo e la Terra; ecco perché non può esserci anabasi senza catabasi, senza discesa agli Inferi. E la discesa agli Inferi si fa da vivi, affinché la dimensione esperienziale e da Bildungsroman personale sia chiara ed evidente, pur nella sua complessità (per questo non citiamo il mito di Er del X libro della Repubblica di Platone: la sua anima, nella catabasi, si era staccata dal corpo). Il primo esempio letterario di catabasi da vivi, com’è noto, lo si rintraccia nella discesa agli Inferi di Enkidu, il fedele servitore di Gilgamesh, e poi nell’XI libro dell’Odissea. All’interno del mito, lo si ravvisa nell’ultima fatica di Eracle, e prima ancora in quella dello sfortunato Orfeo, orfano ormai per sempre della sua amata Euridice. Il topos letterario è anche, com’è noto, virgiliano. Nel VI libro dell’Eneide Enea entra all’Inferno da vivo e incontra Didone, la quale gli si rivolge col noto sdegno per l’amore tradito, rifugiandosi dietro l’ombra del marito Sicheo. Nei Campi Elisi Enea incontra il padre Anchise, che gli prefigura il Fato e la futura stirpe, da Romolo ad Augusto (destinatario dell’opera). Il passo necromantico della Pharsalia di Lucano, in cui Sesto Pompeo viene ragguagliato sulle sorti tragiche di Roma, è meno noto ma sottolinea allo stesso modo come nel mondo dell’aldilà grecoromano le umbrae dei morti abbiano accesso indifferenziato a passato, presente e futuro relativi al mondo terrestre, in una continuità tematica tra mondo sensibile e ultrasensibile anche qui ravvisabile.

Nemmeno i Cristiani si fanno mancare una catabasi: non può essere che la discesa agli Inferi di Cristo. Citata negli Atti degli Apostoli e nella Prima Lettera a Pietro, Tommaso l’Aquinate la discusse ampiamente nella quaestio 52 Pars 3 della Summa Theologiae. Cristo scende all’Inferno per salvare le anime dei Patriarchi e dei Profeti del Vecchio Testamento, risolvendo così una contraddizione teologica altrimenti insanabile: è eticamente legittimo che le anime dei Giusti permangano all’Inferno, pur non avendo conosciuto Cristo per questioni cronologiche e anagrafiche? Gesù si fa letteralmente Deus Ex Machina, discende, prende i Giusti per mano e li porta via con sé, fra la grottesca disperazione dei diavoli, come si vede nel delizioso particolare della Parete Gaudenziana a Santa Maria delle Grazie in Varallo, meraviglioso affresco del Rinascimento Piemontese molto amato, tra gli altri, da Giovanni Testori.

Ovviamente, però, non c’è catabasi letterariamente più famosa ed evocativa dell’Inferno di Dante. Il sommo poeta racchiude nella propria Commedia tutta la storia e la filosofia dell’umanità rendendo per la prima volta allegoricamente trasparente il significato escatologico ed etico dell’attraversamento dell’Inferno da vivi, sul modello dell’exemplum medievale, della parabola cristologica e del racconto morale di ascendenza ellenistica. Per far questo, Dante recupera archetipicamente tutta la letteratura e la scienza prodotta dall’umanità fino al suo tempo, in un mirabile gioco intellettuale di inaudita e inarrivata sincresi. Certo, alla sua sensibilità cristiana e medievale, non bastava il percorrimento del male a dare un senso al proprio viaggio; occorreva la dimensione nostalgica e ovattata del Purgatorio e, in seguito, la Spectatio Dei nel Paradiso a coronamento di un particolarissimo itinerarium Mentis ad Deum che da personale diviene cronotopicamente universale ed eterno per virtù della natura poetica dello stesso. Eppure, c’è un motivo specifico che spiega perché, almeno dal Romanticismo in poi, la cantica dell’Inferno sia risultata essere la più amata, la più letta, la più commentata e forse la più compresa delle tre che compongono la sua opera immortale. Ad una sensibilità moderna e contemporanea interessa di più il plurilinguismo dantesco dell’unilinguismo petrarchesco, per citare le categorie filologiche di Gianfranco Contini; forse perché Dante ci parla di più in questa Cantica che nelle altre; il male ha più tragicità del bene, l’irrazionale risulta maggiormente evocativo e la lotta interiore, la krisis, rispetto alla perfezione esteticamente ed eticamente immobile del mondo dei Beati, avvicinano l’immagine dell’uomo a ciò che di moderno, contemporaneo e postmoderno più ci attrae e contemporaneamente ci disgusta: ci riconosciamo nell’orrore dell’Inferno che quotidianamente attraversiamo tutti, consci della nostra imperfezione e della nostra umanità parziale e, proprio per questo, migliorabile. Ecco perché il percorso ascensionale iniziatico inteso come percorso di coscienza e autocoscienza dell’essere umano in sé stesso, dal pitagorismo al platonismo e neoplatonismo, dal cristianesimo e dallo gnosticismo dei primi secoli al viaggio dantesco nei Tre Regni, non può esimersi da uno sguardo sul lato più oscuro della nostra Luna. Che, del resto, è il Cielo del Paradiso più vicino alla Terra.

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* Intervento contenuto in Autori Vari, La via, a cura di Alessandro Ramberti, saggio introduttivo di Salvatore Ritrovato, postfazione di Stefano Martello, volume che  raccoglie gli interventi della kermesse svoltasi dal 5 al 7 luglio 2019 a Fonte Avellana.

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