Di MATTIA TARANTINO *
I codici di interpretazione del reale sono oggi più che mai rovesciati. Proprio per questo la mia breve analisi dovrà, per paradosso, essere un’analisi di re-azione; una risposta, cioè, a un movimento sociale tanto profondo e tanto forte da affermarsi come egemone. Sappiamo che le strutture dell’economia condizionano quelle sociali, sappiamo che in Europa viviamo sotto il dominio dell’utile, sempre in bilico tra perdita e profitto. Desidero, allora, che almeno alla poesia non si chieda di essere utile, ma si inizi a comprendere quanto sia, invece, necessaria.
Se è vero che il poeta, tra le sue funzioni, assolve anche quella di operare sulla lingua (la speech, sia chiaro, e non la tongue) è fondamentale allora partire dagli etimi.
Mentre nell’italiano contemporaneo, nonostante la sfumatura di significati, per indicare il compiersi di un’azione esiste solamente la parola fare (tutt’altra storia è l’agire), i greci avevano notato una differenza profonda nei varî campi che questo verbo percorre:
I greci [ … ] distinguevano, infatti, chiaramente fra poiesis (poiein, pro-durre, nel senso di portare in essere) e praxis (prattein, fare, nel senso di agire). Mentre al centro della prassi era [ … ] l’idea della volontà che si esprime immediatamente nell’azione, l’esperienza che stava al centro della poiesis era la pro-duzione nella presenza, cioè il fatto che, in essa, qualcosa venisse dal non-essere all’essere
(G. Agamben, L’uomo senza contenuto)
Notiamo, quindi, che già nel verbo che indica la poesia questa risponde al dominio della necessità, e non dell’utilità. Ne-èssus vuole infatti dire che deve essere, mentre utibilem sta per che reca vantaggio.
Le istruzioni per l’utilizzo dell’aspirapolvere sono certamente cosa utile, ma la poesia è altrove. Non parlo per forza di un luogo-altro rispetto a quello in cui ci troviamo, ma di un’altra dimensione che si scosta, si libera dall’utilità. Come l’acqua e il grano, e accanto a essi, sta la poesia. Una cosa primigenia, un bisogno a cui l’uomo ha risposto con l’inventiva.
Sangue di Cristo, demonie, attaccame a chiste.
Tante ca li à legà
ca ‘e me non s’avi scurdà
Questi tre versi, raccolti da De Martino in Sud e Magia, rispondono, per esempio, al bisogno di una parte della popolazione del sud Italia – quella femminile – che ancora nel secondo dopoguerra non poteva vivere apertamente il proprio desiderio (sessuale, in questo caso); pratica riservata solamente agli uomini. Se l’uomo, il maschio, poteva infatti corteggiare una donna, questa – qualora avesse fatto la stessa cosa a parti inverse – sarebbe stata condannata dalla società, agricola e fortemente cattolica, in cui si trovava. Per questo aveva necessità di ricorrere a sotterfugi, sortilegi, talvolta anatemi; tentare in segreto ciò che non le era permesso in pubblico. Notiamo che la maggior parte dei riti testimoniati da De Martino accompagnano al gesto la parola. Nella trasposizione scritta – nel caso in questione, dobbiamo ricordarci, si tratta di una cultura prevalentemente orale – della formula, questa viene restituita in versi. Ciò accade perché il potere magico della parola non si manifesta con il solo significato, ma con un intreccio preciso di elementi sonori e ritmici che si susseguono durante la pronuncia. Parlo di magico perché è proprio a questa categoria che dobbiamo tornare per indicare i meccanismi di difesa della presenza contro il negativo. Il negativo, elemento relativo a seconda dei tempi e dei luoghi, determinato dalle strutture sociali, è ciò che porta allo spaesamento, alla perdita degli indici di senso di riferimento. Shomer ma mi llailah? chiede il viandante alla sentinella in Isaia, 21. Sentinella, quanto resta (della notte)?, cioè. Perché il viandante, nel deserto, è orfano dei punti cardinali; perde ogni riferimento, talvolta non trova la stella polare. È lecito supporre, allora, che se nella poesia contemporanea si trovano sempre più spesso riferimenti, analisi, anche solo semplici accenni alla morte, vuole dire che questa si è costituita, oggi, come negativo, e che la poesia (il portare in essere, il fare presenza, dunque), intercettato il problema, cerchi di formare dei meccanismi di difesa da questa.
Michel Vovelle, parlando del rapporto tra la percezione sociale della morte in Occidente di ieri (enormi tassi di mortalità dovuti a continue guerre, carestie, epidemie) e la morte di oggi (tassi di mortalità bassissimi, speranza di vita più che raddoppiata nel corso dei secoli, sviluppo di nuove e più efficaci tecniche di cura), dice che:
Il carattere massiccio della svolta potrebbe condurre alla conclusione pigra – e prematura – che il segreto è tutto lì: ieri morte dura, spietata, oggi un alleggerimento della pressione. La morte si sarebbe allontanata da noi.
Nell’analisi di Philippe Ariès, Storia della morte in Occidente, si scopre come la paura della morte sia, a discapito dell’idea prevalente nel nostro immaginario, più che moderna. Se, originariamente, i rapporti feudali e l’egemonia cattolica inducevano l’uomo a vivere in funzione di una meccanica celeste in cui ogni cosa, ogni azione e ogni persona esisteva solo in relazione a un piano divino; con le prime forme di economia dinamica, già dagli inizi del XIV secolo, l’uomo prese invece coscienza di avere una biografia, di essere, cioè, una creatura storica in grado di mettere mano alla realtà in cui si trovava. Non è un caso, per esempio, che la riforma protestante abbia eliminato, tra le sue pratiche, la confessione: nel cattolicesimo, retto da strutture di poteri feudali, statiche, la vita non apparteneva all’uomo. Bastava un Pater in punto di morte, una confessione e tutto era assolto; non esisteva, cioè, responsabilità individuale. Nel protestantesimo, invece, l’uomo doveva agire secondo coscienza, perché senza la confessione non v’era assoluzione possibile, e di conseguenza l’accesso a un regno al di là della vita dipendeva esclusivamente dalle azioni compiute in essa. Di pari passo con i piani teologici, c’erano quelli economici: non è un caso, infatti, che i paesi da lì a pochi secoli più sviluppati sarebbero stati quelli protestanti. L’uomo finalmente poteva agire, essere padrone della propria vita. Economicamente questo voleva dire investire, commerciare. Laddove mancavano rapporti familiari mancava eredità. Della famiglia tradizionale, oggi cara a molti, non c’era traccia. Tant’è vero che in molti testamenti, dal XIV secolo agli inizi del XIX, i moribondi richiedevano che almeno un parente, anche alla lontana, partecipasse al funerale. In altre parole, alla morte la ricchezza veniva persa, al massimo data in beneficenza, ma non rientrava nel circuito economico. L’uomo, quindi, amministrava il proprio denaro in vita, inizia a investire per ricavare sempre più, e il più in fretta possibile. Da qui nasce la paura della morte come la intendiamo oggi. Paura che le società assimilarono con fatica, ricorrendo, prima di tutto, al macabro.
O charoigne, qui n’es mais hon,
Qui te tenra lors compaignée?
Ce qui istra de ta liqueur,
Vers engendrés de la pueur
De ta ville chair encharoignée.
[ O cadavere che non sei più uomo, / Chi ti terra compagnia? / Ciò che uscirà dal tuo liquore, / Vermi generati dal fetore/ Della tua vil carne incarognita ]
(P. de Nesson)
Je n’ay plus quel es os, un squelette je semble
Décharné, démusclé, dépulpé…
Mon corps s’en va descendre où tout se désassemble.
[ Sono tutt’ossa, sembro uno scheletro / Scarnito, snervato, spolpato… / Il mio corpo scenderà dove tutto si dissolve ]
(P. De Ronsard)
I cambiamenti della morte, nel corso dei millenni, sono stati molto lenti. Dalle poesie di de Nesson e De Ronsard a oggi, tuttavia, ci sono stati diversi spostamenti. Per citarne alcuni: la riforma dei cimiteri, l’invenzione del lutto, la suggestione per il corpo morto e la sua sublimazione ( Da un squelette je semble a Ei fu. Siccome immobile, per esempio). Ci sono stati, però, nel ‘900, degli accadimenti che hanno accelerato il processo di trasformazione della morte: le due guerre mondiali. Con lo sviluppo della tecnica dovuta alla ricerca militare, la ripresa e poi la crescita economica, i paradigmi della morte sono cambiati. Il lutto, sistema di tutela coniato dal cristianesimo, garantiva a chi subiva la morte dell’altro un tempo di assimilazione della perdita. Le società, divenute sempre più prestazionali, se il tempo è denaro allora non possono concederlo. Emblematiche alcune storie, tra quelle passate in rassegna da Ariès, che raccontano come, per esempio, in un paesino della Francia degli anni ’60 un uomo, non riuscendo ad accettare la perdita della moglie, a ogni anniversario della data della morte costringeva i suoi amici a cenare con lui fingendo che la moglie fosse ancora in vita. Negli Stati Uniti, nel ‘900 capostipite dei paesi industrializzati, si passò dalla sepoltura cimiteriale alla cremazione, per rimuovere il cadavere dalla vista. Ciò creò non pochi problemi nelle classi allora proletarie o in via di proletarizzazione, tanto che si dovette pensare a una soluzione alternativa, le Death House, luoghi privati in cui esporre il cadavere – o la bara – del morto per una settimana, prima che venisse cremato. Allo stesso tempo, lo sviluppo della medicina ha privato il morente della propria morte. Se prima, cioè, chi stava per lasciare il mondo poteva amministrare le sue ultime volontà, con il coma farmacologico e altri espedienti che prevedono la perdita di coscienza, o almeno l’impossibilità di comunicare, questo non è più possibile. Sarebbe interessante, da questo punto di vista, ragionare sull’eutanasia come meccanismo di riappropriazione della morte. Non sono un caso, infatti le storie di Welby, Englaro e Magri, per citarne alcune.
In un secolo dell’utile, in cui le nostre società sono dominate dalla funzionalità e dalla prestazione, la poesia deve intercettare i paradigmi in evoluzione che le compongono, e la morte è senza dubbio uno di questi. Mancando di alcuni strumenti razionali per comprendere il mondo e le sue cose, barcollando in un tempo che non ci è concesso amministrare, non possiamo che tornare al macabro. Quando la morte si sposta, noi entriamo nei margini della sua ombra. È certo, allora, che i versi che propongo – e con me tanti altri – servano a garantire un tempo di assimilazione e comprensione dei processi in atto; perché in un tempo dove si ragiona sulla tecnica e sulla sua relazione con l’uomo, e sempre meno sull’uomo stesso, è chiaro il bisogno di riappropriarsi anche dell’invisibile. Simbologie misteriche, riti e gesti scaramantici non sono un rifiuto del mondo, ma parte del discorso infinito, ha-dibbus be-en-sof , con cui la parola cerca di disvelare (e non di ri-velare) le ragioni delle cose. Se le scienze spiegano il come, e alla domanda “Perché?” rispondono con una successione logica e concatenata di cause, alla poesia sta cercare e difendere il senso irriducibile dietro ogni cosa. Non sarà un dio la risposta, ma delle cause devono interessarci le ragioni, talvolta segrete e inaccessibili. L’uomo è più della somma dei suoi atomi, e se per comprenderlo è necessario cantarne il sangue e le ossa, i poeti sono chiamati a farlo.
Grazie a Riccardo Canaletti per gli interessanti spunti di riflessione e per aver condotto un dibattito da troppo tempo assente in questo mondo da rivoltare, in un modo o nell’altro.
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* Articolo precedentemente pubblicato su Midnight Magazine.