Gli spazi mobili della poesia #4: Julian Zhara, “Più seria della morte”

Julian Zhara

Di JULIAN ZHARA *

10 marzo 2017

Più che di mandato sociale del poeta e a quale figura alternativa sia stato affidato, un collettivo di persone che scrivono poesie, è accorso da tutta Italia alla Spezia, per discutere principalmente del mandato culturale della poesia. Lo sforzo organizzativo dei Mitilanti, l’ospitalità e la voglia di conoscersi e ascoltarsi l’un l’altro, ha fatto percepire in seno alle due giornate, una situazione comunitaria e di patologia condivisa, con grande piacere da parte di tutti – patologia che non rima solamente con poesia, ma effettivamente lo è. L’immagine profilo Facebook di molti si è rivelata in carne e ossa e tanti volti ritratti a parlare, parlano davvero.
La linea emersa con più urgenza e da ogni parte è di natura sociologica e antropologica (finalmente!) dai poeti della mia generazione, ossia quelli nati negli ’80, concepiti da genitori dalle capigliature orripilanti, vite alte e possibilità di accedere a lavori a noi preclusi da tre master e specializzazioni a go go. Il posizionamento del brand giovanile nel mercato della poesia (scusate l’ossimoro), viene condotto dalla piccola editoria, nonché dall’esposizione in rete dove si trovano le discussioni, i testi, le ricerche, essendo i libri difficilmente reperibili poiché affidati a una struttura liquida ma stagnante – senza correnti. Parafrasando McLuhan, ogni medium è due media convergenti: uno che fissa e l’altro che fa viaggiare.

Nel caso dell’editoria piccola e media, la convergenza si divide e il medium è medium a metà: viene fissato il testo su un supporto, senza alcuna attenzione per quello che Genette chiama l’epitesto, l’anywhere out of the book. Non è stata creata alcuna struttura efficace e duratura per supportare il libro nella sua ricerca del pubblico, in caso è il poeta che si fa manager più o meno capace di se stesso e dei propri versi, quando il supporto non deve proprio pagarselo. Non penso nemmeno sia un caso che nessuno, dico nessuno dei nati negli ’80, abbia una pubblicazione per una grande casa editrice (dove per grande si intende a distribuzione nazionale: stringi stringi Einaudi e Mondadori). Andiamoci a vedere le pubblicazioni degli anni ’70 delle grandi collane e vediamo la situazione ribaltata. Già nel decennio che ci precede, i nomi dei poeti che hanno esordito o pubblicato per grandi case editrici a trent’anni, sono più numerosi. Non che ci voglia poi molto a superare lo zero. E con questo non voglio assolutamente impostare l’equazione grande editoria = grande poesia.

Ma non posso nemmeno non pensare che i cosiddetti padri(ni) seduti comodi nelle poltrone Frau della grande editoria, ci abbiano collettivamente mandati a giocare nella stanzetta di là, a costruire poetiche coi lego, libri coi lego, palchi coi lego, studi e carriere coi lego, vite coi lego, perimetrati tra le mura di una stanza colorata, magari color cielo celeste, mentre nel salotto continuano a parlare di cose serie. Ogni tanto qualcuno va anche dai padri(ni) a far vedere cos’ha costruito, ricevendo un buffetto, una pacca sulla testa, seguita da un “bravo, adesso torna di là a giocare!”; la risata complice degli altri convitati e si riprende coi discorsi seri. Intanto i passanti fuori non si accorgono del fermento in quella casa.

La poesia d’altronde è un gioco terribilmente serio, serio come la morte, più della morte, e i bambini – come insegna Nietzsche – fanno del gioco il campo d’allenamento per la maturità adulta. La poesia si gioca da soli, casomai in compagnia dei morti, poi la si trasmette agli altri, come la varicella all’asilo. Per indagare (indagandosi) questo sostantivo-globo ma non rotondo – la poesia – dalle sfaccettature infinite, si deve lasciare “orale”, “lineare”, “lirico”, “sperimentale” nello scompartimento degli aggettivi; attenti alle differenze che alimentano la biodiversità ma le distanze sono distanze e i testi non mentono. Trovarsi in varie dozzine a parlare di testi sarebbe stato sbagliato, difatti sono emersi fenomeni sociali e culturali di portata più vasta. Eppure il mondo della poesia, il discorso attorno alla poesia, sembra ignorare un fattore determinante: il pubblico, assente dalla maggior parte dei discorsi e totalmente assente dalle strategie editoriali, tranne quando Guanda decide di investire sulla poesia, stampando i libri di giovani autori sperimentali e promettenti come Neruda, Bukowski, Garcia Lorca. Per questo il mondo della poesia di oggi somiglia in maniera inquietante a Scientology, per chiusura e una spiritualità spesso goffa e fuori luogo, da misticismo for dummies. Non essendoci praticamente lettori, se rapportiamo il numero dei libri venduti ai dati Istat sui lettori, essere in poesia oggi è essere nella scena, fare parte di un sistema la cui struttura dovrebbe essere ripensata già dalle fondamenta – semplificata.

La nomea famigliare applicata a poeti di generazioni precedenti come zii e padri, è sintomatica di un fatto che difficilmente si trova in altre produzioni artistiche: la percezione dall’interno è di una grande famiglia allargata, di un villaggio di poetiche consanguinee o nemiche, ma sempre circoscritte a un luogo di cui ci si sente parte. Scrive Busi che lo scrittore, il poeta in questo caso, «unico fra gli umani, Egli si sceglie la paternità». Una volta scelti i padri-maestri, “non possiamo più perdere la vita per educazione”, e per andare avanti, forse si deve ripercorrere il parmenicidio, tanto la prigionia la stiamo già pagando in una lingua che fa il verso a se stessa, ricordando sempre, come un mantra, l’epigramma pasoliniano: «Nella tua ingenuità di poeta tu non sai / che arrivisti sono coloro che non arrivano mai». Magari riscrivendolo meglio.

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* Da Gli Spazi Mobili della Poesia, serie di interventi critici seguiti al convegno omonimo indetto come Mitilanza #1 a La Spezia il 25-26 febbraio 2017 dapprima pubblicati su Midnight Magazine e in seguito nell’omonimo ebook su Amazon.

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