
Di BERNARDO PACINI *
7 marzo 2017
Sorge per la settima volta il sole da quando a Spezia si è conclusa la prima Mitilanza della storia d’Italia: alla luce aurorale che filtra dalle serrande semichiuse del mio studiolo fiorentino di filologo del cazzo, mi è possibile ancora una volta fermarmi a pensare a tutto ciò che è accaduto, e a riflettere su ciò che, per furia di accadere, ahinoi non è accaduto. La Spezia, per circa ventiquattro ore (escludendo dal conteggio il molto tempo impiegato dai solerti curatori), ha rivendicato con profitto il noto epiteto “Golfo dei poeti”: cento poeti, con il mare a due passi, si sono rinchiusi in qualcosa di molto simile a una grotta Byron per parlare di poesia, o almeno per provarci. E tentare non nocque: lo si vedeva dagli occhi, lo si sentiva nell’aria e nei discorsi. Ce n’erano molti, di questi poeti: forse troppi. Io stesso, lo confesso, mi sentivo fuori contesto, ed è per questo che ho vissuto due giorni con un perpetuo cerchio alla testa, per il quale avrei alzato volentieri bandiera bianca prima di subito – non avessi avuto la preziosa compagnia di altri cari poeti che, a braccetto con me, sere(nia)namente si odiavano in gorgheggi.
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Larghetto
Comincio col dire che concordo con i Mitilanti, il volenteroso e lungimirante collettivo spezzino che ha dato origine a tutto ciò: non c’è niente di male a fondare una rivoluzione su un calembour, ma poi bisogna saper affrontare il compito ingrato di spiegare l’amara battuta finale a chi non ci è arrivato – e lo dico da poeta che non disdegna l’uso dell’ironia. La Mitilanza ha in sé il richiamo semantico e il riverbero sonoro della militanza, il tentativo di mettere in atto un impegno culturale a servizio della poesia del tempo di oggi. Eppure, per un semplice, ironico scambio di sillabe, i ragazzi si son dati la possibilità di trasformarsi in qualcosa di molto più rischioso e quindi interessante – in qualcosa di relativo al mitile, golosissimo ed emblematico essere invertebrato capace di proliferare su ogni tipo di superficie: cordami, pezzi di ferro, boe, legnami, con un’ostinazione, con un’incoerenza che hanno del sorprendente: tant’è che – piacendoci l’idea, come suggerisce Gaber – li mangiamo in umido, o li cerchiamo con lo sguardo nelle cucine dei ristoranti di riviera. Il rischio di un evento culturale che non è militante ma mitilante è presto detto: accade, ogni tanto, che la cozza che tu peschi dal bacile, già irrorata di succo di limone, sia disgraziatamente vuota. Eppure, ad occhio quella cozza poteva somigliare in tutto e per tutto alle altre pescate in giornata, socchiusa com’era, incrostata di ogni lordura del mar ligure: può succedere che il frutto di mare lì non sia, che la sostanza edule sia venuta meno, e che tu debba solo leccare la valva e buttar giù il saporaccio con un bel calice di Vermentino, sperando di pescare un po’ meglio la volta successiva.
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Andante con moto
Filologo del cazzo. O, virgolettando più accuratamente: “Nessuno di voi si può permettere di valutare le mie poesie orali con i suoi strumenti da filologo del cazzo”.
• Primo: la frase virgolettata di cui sopra è stata pronunciata, più o meno in questa forma, dal relatore Lello Voce durante una delle quattro tavole rotonde organizzate dai Mitilanti: il titolo della tavola rotonda in questione era “Poesia e musica, i suoni della poesia, poesia e performance”. Sono intervenuti anche Ottonieri e Stera, moderava Zhara. In precedenza, era stato sollevato da un astante un ragionevole dubbio, che di seguito sintetizzo (con una mia breve premessa): se è vero che un testo “nato scritto” andrebbe di buona norma e in molti casi sottoposto alla prova della lettura a voce alta – come si spera sia chiaro a chiunque si occupi di poesia con un minimo di serietà – potrà forse essere falso il contrario? In altre parole, e parafrasando finalmente l’intervento di Batisti, si potrà prendere un testo “nato orale”, asciugarlo da tutto ciò di cui gronda quando è stato schiaffato su un palco, e sottoporlo alla prova della lettura silenziosa per vedere se tra le valve c’era qualcosa da mangiare? Non dico che questa speculazione sia una pratica utile, e nemmeno che sia intelligente. Ma nemmeno è assurdo farlo. Vi pare assurdo? Metodologicamente inadeguato? Poco male! Semplicemente, credo che sia cosa da fare, come d’altro canto mi sembra prassi buona e giusta per un poeta il lavoro assiduo sul versante fonico, fonosimbolico, ritmico, prosodico e, ovviamente, linguistico e lessicale.
• Secondo: penso ancora alla frase di cui sopra. Le occasioni pubbliche servono anche a questo, a una comunicazione diretta dei concetti e dei pensieri senza lo schermo del bon-ton, della posa intellettuale della scrittura. E in effetti, in questa intervista, Lello Voce aveva espresso concetti diversi, con toni molto più pacati ed equilibrati (ci si confronti anche con l’ultima obiezione di Andrea Inglese sul carattere della “poesia del XXI secolo”, in gran parte condivisibile: ha forse generato reazioni scomposte nell’interlocutore? No, perché, appunto, siamo in un contesto scritto: non c’è di mezzo l’equivoco dell’oralità, la fibrillazione emotiva del momento, il contesto vagamente woodstockiano, il pubblico schierato, la foga dell’arringa autoritaria e mai autorevole. O forse era solo che il dialogo avveniva con Andrea Inglese, un interlocutore degno di rispetto? Forse che Batisti, Ortore, Castiglione, Borio, Di Dio e tutti gli altri poeti intervenuti non lo sono? Chissà). A proposito di equilibrio: nell’assistere alle tavole rotonde, si è spesso resa evidente la necessità di un’organizzazione del dibattito più ponderata. Qualcosa va storto se in una tavola rotonda sul rapporto tra generazioni ci sono sì due diverse generazioni, ma del tutto sbilanciate: due poeti/ teorici del Gruppo 93 e nessuno della “fazione opposta” (Umberto Fiori, ligure di nascita, ci sarebbe stato davvero bene, per diretta competenza); tre preparati e volenterosi giovani critici/poeti costretti poi ad arroccarsi in posizioni di difesa, perché d’un tratto il discorso slittava su altri lidi decisamente sfocati, o peggio, ombelicali… insomma, per lunghi tratti purtroppo si è capito davvero poco.
• Terzo: “Filologo del cazzo”: Sydney Sibilia non è stato in grado di interessere dialoghi altrettanto coloriti nel suo recente, gustosissimo film “Smetto quando voglio”. Eppure qui non si tratta di sceneggiature o commedie all’italiana sul fallimento esistenziale e professionale dei giovani accademici italiani. E soprattutto pare che qualcuno, qui, non abbia alcuna voglia di smettere (ci mancherebbe!) di fare sterili distinguo scolastici tra poeti lirici e poeti sperimentali, tra poeti alti e bassi, moderni e postmoderni, vecchi e nuovi. Fossero serie istanze critiche, formali o stilistiche – capirei, e condividerei. Ma non sembra così, non mi pare questo il livello a cui si discute: si rimane alla superficie, al “problema del medium”, alle schermaglie inter-generazionali. Assistiamo all’assalto al forno delle grucce: bisogna vedere se nelle ceste c’è ancora il pane o solo segatura.
• Quarto: io, mea culpa, non ho ancora capito cosa sia una poesia orale. Sono ancora persuaso – a seguito della mia formazione e di tutte le mie esperienze nel campo della prassi poetica in termini di lettore e autore – che la poesia sia scritta e poi orale; scritta quando la si legge, orale quando la si scrive; scritta quando la si è letta, orale quando la si è scritta; scritta prima di essere orale, orale prima di essere scritta; orale in quanto scritta, scritta in quanto orale. (In tutto questo, la “poesia” se n’è rimasta nella prima parte del discorso, mentre stavamo lì a capire come svuotarla e sfibrarla.) Io, a questo porto, mai vorrei approdare. Non vorrei mai arrendermi, a questa triste e falsa teoria della dicotomia. E fidatevi, non c’è orfismo cripto-reazionario, non c’è sentimentalismo o ingenuità in questo: c’è in quello che dico una persistente consapevolezza di quanto la scrittura (come atto linguistico), sia uno strumento, e di quanto la poesia si faccia con gli strumenti, e non per gli strumenti. Di questo sono personalmente convinto da quando, durante una delle lezioni del corso di filologia all’Università di Firenze, ho letto silenziosamente un verso di Alfonso Gatto: “Morire è una stagione, un’aria, un cielo” (leggetelo a voce alta [ndr]). Da allora, alzati gli occhi dal libro, mi sono detto: Bernardo, se scriverai ancora, non scrivere e non licenziare MAI più un verso che suoni peggio di questo. Non pubblicarlo mai. Poi, ho pubblicato tre libri, ma in effetti non mi riconosco grande fermezza negli intenti.
• Quinto: ho un’idea per la mia prossima lettura pubblica! Stampare copie delle poesie che vorrei sottoporre al pubblico, distribuirle, andare al microfono, e tacere, aspettando che gli altri leggano. È questo – a sentire i poeti-nati-orali – che dovrebbero fare i poeti libreschi, perché, va da sé, loro le poesie le scrivono, mica le leggono a voce alta, non sta a loro. Alla fine della non-lettura, spero che qualcuno venga da me e mi dica: “Complimenti per la musicalità e il ritmo”. “Grazie”, risponderei. “Ho tanta fatica a rendere insignificante una poesia così musicale!” E viceversa, si capisce.
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Intervallo
Reading di poesia. I quattro poeti continuarono a urlare per tutta la sera:
“Il mio dolore è più grande del tuo”.
(Charles Simic)
Fuga
“La fraternità e la simbiosi tra poesia e canto, tra poesia e musica sono un fondamento della civiltà umana e attestano la loro originaria fratellanza gemellare. Talora musica e poesia sono state esaltate da una intesa infinita. Talora, invece, per intuizione di novità e di esperimento sono state separate e perfino contrapposte. Tuttavia la loro reciproca necessità è troppo forte per sopportare un disaccordo, se non momentaneo.” Questo passaggio su poesia e canto, su poesia e musica, e quindi, immagino, sulla dimensione orale della poesia, appartiene a Mario Luzi. Luzi che, ne sono certo, avrebbe ottenuto voti molto bassi in un qualsiasi poetry slam, per tutta una serie di motivi che non devo stare qui a spiegare, lasciando che siano Terzago e Batisti a farlo, per rimanere a voci della nostra generazione ben più attrezzate di me. Pare inoltre che – a sentire certe dichiarazioni approssimative di un relatore della Mitilanza – si possa ragionevolmente affermare che la poetica di Luzi (poeta libresco come i molto vituperati De Angelis, Cucchi e compagnia scrivente), per analogia con i suddetti, sia riducibile a quella corrente orfico-simbolista incapace di mettere in poesia una qualsiasi “contraddizione” (ho sentito dire anche questo a Mitilanza, e no, non sono affatto d’accordo e invito a leggere, tra le altre cose, Piero Bigongiari, Nel mutismo dell’universo, Bulzoni 2001). In effetti Luzi, poeta libresco e “ridicolo post-simbolista”, ce lo dice: non avrebbe sopportato un disaccordo, nemmeno momentaneo, tra poesia e musica. Aggiungo io: tra poesia e voce, parola scritta e parola orale, significato e significante. Eppure, ripeto: Luzi non avrebbe MAI vinto uno slam.
Scherzo
Ma il cabaret è poesia? E parlare di “aspetti mediali di comunicazione della poesia”, è davvero parlare di poesia? Parlare di forme di comunicazione della poesia, è davvero parlare di forme della poesia? E parlare di linguaggio, di estetica, è parlare di poesia? E parlare d’anima (cit.) è parlare di poesia?
E già che ci siamo: parlare di poesia è davvero parlare di poesia?
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Coda
In definitiva, e in grande onestà: sono certo che Mitilanza abbia sortito l’effetto desiderato in me e in molti di coloro che vi hanno partecipato. Sono certo che abbia raggiunto lo scopo, che era problematizzare il rapporto con la scrittura, mettere in contatto universi umani e culturali differenti tra di loro, far sì che si ascoltassero vicendevolmente, permettere che si incontrassero e scontrassero, com’è giusto e bello e divertente che sia. Del resto, io, negli ultimi anni ho imparato molto dai poeti cosiddetti orali. Ma anche lì: dietro alla musicalità che pian piano affinavo, c’era, persisteva quel rovello esistenziale, il quid, quella domanda a cui mai vorrei rinunciare? C’era, tra le righe, il segno di un dolore, di una breve morte, di una caduta, di una gioia, uno sguardo al mistero? Mi è convenuto operare il baratto tra tecnica e libertà? Proprio ora me lo domando. Nei due giorni spezzini, guardando gli altri e provando ad ascoltarli, sfidando il mal di testa, duellando con ogni idiosincrasia, mordendomi la lingua, mi sono accorto che – proprio grazie al dibattito – il battito c’è ancora. Ma quello che cercavo era davvero un irenico punto di incontro tra “noi” e “voi”, categorie tanto care a Lello Voce? E questo “noi” e “voi”, esiste? E come si misura? Volevo forse convincermi che dentro ogni valva troverò sempre un frutto di mare a me gradito e nutriente? Prima di arrivare a Spezia, in treno, riflettevo su questo passo di George Steiner: “Definirei la letteratura (l’arte, la musica) come la massima intensificazione dell’incommensurabilità semantica rispetto ai mezzi formali dell’espressione”.
Dopo Mitilanza, è proprio questo ciò sui cui sento, e spero, sentiamo tutti il bisogno di fare quadrato. Ferma restando la riflessione su tutti gli altri spunti interessanti, ai quali spero si possa dare seguito, nel Golfo dei Poeti, tramite una seconda Mitilanza, altrettanto trasversale e, se si vuole, “multiversa” – semmai un poco più equilibrata.
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* Da Gli Spazi Mobili della Poesia, serie di interventi critici seguiti al convegno omonimo indetto come Mitilanza #1 a La Spezia il 25-26 febbraio 2017 dapprima pubblicati su Midnight Magazine e in seguito nell’omonimo ebook su Amazon.
Un pensiero su “Gli spazi mobili della poesia #3: Bernardo Pacini, “Per non perdere il filo””