
Di VLADIMIR D’AMORA
Che cosa fa – una poesia
Una poesia funziona.
Sono parole raccolte insieme secondo una singolare norma, che può essere afferrata pensando cosa sia un modo di avere a che fare con il tempo, e con un passato e un presente e un futuro… Se pure una poesia contenesse solo tempi presenti, essa comunque farebbe in modo che il presente corrisponda sia a un che di passato, sia a un avvenire. Una poesia, infatti, funziona metricamente e musicalmente, cioè si rifornisce sempre presso posizionamenti e misure, calcoli di possibile, ossia tanto di aperture, quanto di chiusure: una poesia, pure quando, senza alcun significato logico, esprima soltanto sentimenti, si raccoglie presso una presenza che contatta qualcosa di già avvenuto e qualcosa di destinato ad ancora tornare: una poesia, per questo, non deve essere imparata, ripetuta a memoria, perché essa è, nel suo stesso procedere e ritornare, nel suo proprio dirigersi ulteriore e volgersi di nuovo a capo, memoria e infinita ripetizione. Una poesia raccoglie, cioè, una coincidenza di avvenire e di passato: in una presenza tanto ricolma di relazioni temporali, di inneschi di ricordo e di attesa, in un groviglio insieme limitato e indefinito, che questa presente puntualità discorsiva e nominativa è, essa stessa, indicibile: inenarrabile: inesistente e mai cantata.
Una poesia, infatti, dice qualcosa e, insieme, lo tace: una poesia, iniziando, è sempre e semplicemente in cerca di ciò che le ha dato inizio: senza mai dirittamente trovarlo. Una poesia è una porta sull’inaccessibile – una irreperibilità, questa poetica, che però non è altro che il mistero, ossia non l’enigma ma la scena, di tensioni di ritorno e di spinta: di originarietà e di originalità: una poesia è un tensore temporale e memoriale, una palestra in cui i corpi nudi di una lingua si allenano a svestirsi e a rivestirsi, a semplificarsi e a screziarsi: presso un’abitudine che ha l’onere e il merito di essere un puro spezzarsi e, insieme, un ripiegamento anulare.
Una poesia, quindi, proprio cercando di liberarsi della sua impoeticità, e della sua inumana e disumana infinitezza, riesce a fare di quanto le è inattingibile la sua stessa materia di possibile: una poesia è fatta di una tensione di vettori, di intensità insistenti, i quali finiscono per acquietarsi in un termine che ancora significa ed è presente – ma sempre avvolto dal rischio di un’afonia, di una stonatura…
Una poesia, infatti, raccogliendo rimandi finiti come sfiniti, lasciando spazio di gioco a tempi diversi e convergenti in un vuoto saturo di sé, è una monade attraversata da correnti di vitalità molteplici: una poesia è non altro, che l’afferramento di una interruzione e di una rottura, l’interrompersi impossibile e il rompersi sorprendente di un che di semplice e di avvezzo alla sua stessa semplicità: ciò che è più consono alla ripetizione e alla ripetitività va disperdendosi e disseminandosi per rivoli ignoti e traiettorie estranee – ma questo impoetico, questa esoticità poetica è ciò che alla poesia è conferito dalla sua stessa durata, dal suo stesso essere fatta di tempo: dalla sua esistenza flagrante e inaggirabile. Una poesia, cioè, commisurandosi alla sua sonorità e alla sua significatività, producendosi in voci e in riferimenti, si lascia essere come in una sospensione di queste sue dimensioni: una poesia cosí si pensa. E il pensiero poetante e poetato è una apprestare insieme movimenti e luoghi, fughe e ritorni, ulteriorità e flagranze…
Una poesia, dunque, è un campo di tensioni assuefatte alla loro stessa tensiva consistenza: ogni illimitatezza ed estraneità, una poesia, le riconosce come tali, ossia le innesca come il possibile di cui essa stessa è materiata. Il possibile poetico è un interrompere qualsivoglia vita, un pe(n)sare qualsivoglia corpo in una semplificazione di tensioni e di-versità: una poesia interrompe le differenze lasciandole come schiuma di qualsivoglia corrente di incontri e di scontri: una poesia fa finire, nella sua fine, l’essere di qualsivoglia vivente consegnandolo a una tana di dolcezza e di chiarezza: lasciando che si immetta in un inumano, in un inanimato, come in una origine finalmente perduta: semplicemente avuta.
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