Oltre i generi letterari e sessuali in barba al profeta Mani: il caso Vivinetto

Giovanna Cristina Vivinetto – foto di Dino Ignani

Di SONIA CAPOROSSI *

In fondo, il problema del critico letterario ultracontemporaneo nell’atto di definire i fatti d’arte, di letteratura e di poesia è quello di evitare nel migliore dei modi l’errore di Anselmo d’Aosta, ovvero pensare di fornire una definizione ontologica di un quid come un’opera letteraria, oggetto che di per sé rientra al massimo nella fenomenologia della dicotomia langue – parole in quanto istanza comunicativa, cioè nella filosofia del linguaggio. Occorre distinguere bene i campi, altrimenti cadremmo in una sorta di costruttivismo concettuale double bind: applicando l’ontologia alla fenomenologia trapasseremmo imbelli dal piano logico a quello ontologico, rendendo i due piani quantomeno irrisolvibili l’uno nell’altro, ovvero ricadendo dai Millepiani alla Metafisica. E ogni opposizione dualistica, lo si sa dai tempi di Mani, non porta ad altro che a una schizoide antitesi fondata, non da ultimi, sull’odio e sull’invidia. Mi spiego meglio con una metalogia che chiarifichi l’opposizione di Luce e Tenebre attualmente in corso nel dibattito sulle nuove star della poesia, prendendo a esempio il caso poetico di Giovanna Cristina Vivinetto. A questo scopo, tentiamo una definizione preliminare del circolo vizioso in esame che, da logico, diviene in breve antropologico e sociologico.

Per il Bateson di Verso un’ecologia della Mente, la schismogenesi non è altro che il meccanismo antropologico a circolo vizioso che determina la divisione alla lunga distruttiva tra individui o gruppi.

Uscendo fuori dal contesto di comprensione etnologicamente fondato, possiamo osservare come la critica letteraria attuale sia ricolma di esempi schismogenetici distruttivi perché fondati sull’assunzione di categoremi che in breve, da semplici funzioni d’uso, divengono ruoli. Un esempio sociologico tipico è la considerazione data anapoditticamente per buona che esistano, al di là di un mero intento scolastico-pedagogico in cui pure sono utili, i generi letterari; considerazione che inevitabilmente in breve porta a opposizioni di serie A e di serie B, schismogenesi di tipo complementare che si basa sul nesso autorità-sottomissione di un genere sull’altro e che, alla lunga, riduce il discorso alla scarsa considerazione di uno dei due presunti generi considerato inferiore, fino al vituperio e all’emarginazione critica e sociale dello stesso.

Da ciò discende che, indipendentemente dalla variegata fenomenologia di riferimento, indipendentemente dal trovarci davanti a “poeti” o “poetesse”, “poeti trans” o “poeti di vent’anni”, “lirici” o “sperimentali”, “civili” o “perdigiorno”, “padri” o “figli”, “poeti messi a coppie sull’arca di Noè perché si riproducano” o “poeti sterili”, il critico letterario dovrebbe interessarsi non tanto ai nomi, non alle figure, non agli schematismi confortanti, non alle presenze simulacro bensì ai testi. Tenendo ferma la centralità del testo, da essa consegue per partenogenesi naturale la completa volatilizzazione dell’annoso e ossessivo problema del genere (letterario, sessuale o generazionale), che davvero non ha motivo di porsi, giacché i generi sono istanze classificatorie nate in funzione della normalizzazione sociale, mentre l’analisi testuale prescinde dalla questione sociologica operando su un piano di ermeneusi primigenio e precedente, quello estetico. Ciò significa, per esempio, che non ha senso, su un piano ermeneutico – estetico, considerare la fantascienza o la letteratura erotica come generi di serie B dandone una definizione di valore presuntivamente svantaggiata, peraltro dimostrando di travisare come centrale la considerazione del contenuto e dell’argomento (che può legittimamente essere qualsiasi cosa) e di ignorare l’importanza fondamentale del concetto di forma.

Ma attenzione: ciò non significa che occorra tornare agli anni Sessanta e Settanta, alla francesissima sparizione dell’autore (e del lettore) in funzione del testo. Occorre piuttosto rendersi conto che le analisi relative al grado e al modo percettivo del fruitore, alla dinamica plurale dei padri e dei figli inevitabilmente legata a fattori anagrafici e alla biografia dell’autore fanno parte di tutto ciò che semplicemente gira intorno all’opera, sono di pertinenza della sociologia della letteratura, disciplina degna nobile e valente, non foss’altro che non riguarda la critica propriamente detta. I metodi e gli argomenti della sociologia della letteratura sono uno strumento che svela e mette ordine nel letterario attraverso un paradigma strutturale che non basta se ci si ferma lì, e non è mai bastato nemmeno quando in tempi di strutturalismo ci si riteneva paghi di tassonomie, analisi della struttura genetica del capello ed elencationes.

Semiologia e strutturalismo sono state peraltro abiurate dai loro principali assertori (Garroni, la Corti, Segre) che ne hanno messo in rilievo fin dagli anni Ottanta l’esaurimento e il superamento in direzione di un ritorno applicativo dell’estetica filosofica nei fatti d’arte. Il problema è che sul piano della sociologia della letteratura uno può studiare pure Moccia, e nessuno glielo vieta. La critica letteraria, però, serve a capire sul piano del valore estetico (in senso filosofico) se Moccia sia un buono scrittore oppure no. Per far questo occorre una solida preparazione estetica – filosofica che notiamo tristemente difettare nella maggior parte dei sedicenti critici ultracontemporanei, checché se ne (auto)dica.

L’appello al ritorno della critica testuale ermeneuticamente ed esteticamente fondata, ovvero depurata dagli appesantimenti paradigmatici dello strutturalismo, del post-strutturalismo e del post-modernismo deteriore che vado facendo da almeno dieci anni a questa parte va però ben compreso. Noi non andiamo a vedere fabula e intreccio, andiamo ad analizzare la forma come discrimine del poetico rispetto al semplice contenuto che oggettivamente può essere qualsiasi cosa, ma di nuovo, non la forma in senso formalistico, strutturale, bensì la forma in senso estetico, anche, volendo, in senso decostruttivista, in parte derridiano (del miglior Derrida), ma fondamentalmente fenomenologico in senso originario (per risalire a chi a Derrida ha offerto il destro per concepire il concetto di Differànce: Husserl e poi l’Heidegger della Destruktion, ché davvero, ragazzi, tutto sta già in loro, senza imposture intellettuali).

Insomma, il discorso è molto semplice: preferiamo (è un congiuntivo esortativo) i testi sul nome. Preferiamo i testi sulle classificazioni eterodirette. I testi sulle marchette. I testi sulle programmaticità. I testi sul narcisismo. I testi sugli spot pubblicitari. I testi sui testicoli o meno. In ogni senso.

Non è infatti la definizione di poetessa trans che fa di Giovanna Cristina Vivinetto con la sua raccolta Dolore Minimo un fenomeno letterario o un casus mediatico, ma è ciò che Maurizio Ferraris chiama oggi documedialità che ne deforma post-veritativamente l’essenza del poetico in quanto tale, coinvolgendola in tremila polemiche narcisisticamente fondate sull’invidia del successo altrui e, quindi, sull’odio. Occorre, infatti, aggiungere il prefissoide aggettivale trans per definire la sua poesia, pur così oggettivamente personalistica e autobiografica? O non è forse la testualità in sé stessa che ne offre garanzia di riconoscimento davvero, e letteralmente, meta-genere? Sarebbe meno poeta se non fosse trans? Lo vogliamo aprire il suo libro, e magari leggerlo prima di pontificare pro o contro? Poi potremmo anche scoprire che scrive male, cosa che a me personalmente non pare, ma questo è un altro discorso: critico ed estetico, non sociologico, per l’appunto.

E via metalogicamente discorrendo.

Un pensiero su “Oltre i generi letterari e sessuali in barba al profeta Mani: il caso Vivinetto

  1. Concordo su tutto, ma in particolare sull’appello a guardarsi dalla schismogenesi, uno dei più grossi problemi della contemporaneità, e dalle etichette classificatorie -soprattutto eterodirette (che si rivelano poi dirette dal mercato et similia)

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