“Il periodo migliore”, un racconto inedito di Salvatore Enrico Anselmi

Di SALVATORE ENRICO ANSELMI

Quando avevo diciassette anni mio nonno è morto.

È stato il primo incontro con la morte, con l’assenza per sottrazione definitiva. Il giorno prima stava a casa con noi, il giorno dopo era ricoverato all’ospedale, dopo due settimane il suo letto era vuoto.

Per tutto il reparto medicina un’eterna agonia dalla radio portatile di un paziente.

 «Questo amore è una camera a gas, è un palazzo che brucia in città, questo amore è una lama sottile, è una scena a rallentatore».

La camera a gas era il corridoio per arrivare alla stanza di mio nonno. Il palazzo che brucia in città era l’ospedale, la lama sottile e la scena a rallentatore erano quei giorni allucinati.

Erano i primi giorni estivi, lunghi e vuoti. Era da poco finita la scuola, in teoria il periodo migliore di tutto l’anno, quando tutto poteva accadere, quando voglie e speranze erano intatte e correvano accanto.

Erano i primi giorni estivi, lunghi e vuoti, e qualcuno se ne andava, scantonava l’angolo e subito dopo non sarebbe stato più, dietro questo isolato, battuto fino a oggi.

Nel momento in cui il nonno fu trasportato via da casa non era più lui, forse non era già più.

A poco a poco prima che accadesse, per cercare di non soffrire troppo tentavo di abituarmi all’idea, per assuefarmi alla nuova condizione, alla sedia sempre accostata al tavolo, alla non emissione di una certa voce quotidiana sin da piccoli, all’assenza del passo cadenzato, all’assenza continuativa, maledettamente uguale a se stessa per tutto il tempo che sarebbe rimasto.

Odiavo l’assenza. L’assenza che si sveglia e va a dormire con te, che mangia dal tuo piatto e guarda lo stesso film, che contamina l’aria e piange piano sulla spalla, che s’infila negli stessi pantaloni nuovi e che strilla come un ossesso nel silenzio intorno, nell’ordinaria giornata comune per tutti gli altri che corrono, che si bagnano sotto la pioggia, si districano per non rimanere invischiati nel traffico, che fanno finta di essere felici o almeno ci provano.

L’assenza era stanziale anche nella voce che parlava al telefono di questioni ordinarie e nel tono altrettanto asettico delle risposte. L’assenza nel buio coatto della stanza tappata come fosse sempre notte, nelle cuffie che sparavano musica rock, nel morire disperati e nel volo giù da Castel Sant’Angelo, nel Don’t cry for me…, nella stringa della scarpa destra che si rompeva prima di uscire, tra la seconda e la terza stria lungo la schiena elastica del gatto che simulava di ignorare.

Durante i primi giorni estivi si abbassavano le tapparelle per non far entrare il sole e quanto rimaneva della vita normale che sembrava una bestemmia. Fuori il vento strillava, tra le serrande a mezz’asta e i vetri, come in inverno. Fischiava «esse-effe-esse» vibrate come durante una tormenta, una tormenta estiva.

Mi avvicinavo alla finestra. Di fronte le mura medievali e i campi gialli oltre la città. Il cielo turchese e sotto i campi gialli. Si poteva scrutare fino in fondo, fino a dove non si può più scrutare e vedere qualcosa che davvero esista. Sembrava che in fondo ci fosse il mare, una striscia orizzontale turchese che secava quella parte di mondo per tutta l’apertura d’uno specchio di finestra in un palazzo borghese, in città.

Annusavo l’aria, il vento che riempiva il petto, un misto d’aria calda e languore. Il vuoto alla pancia e un sottile tremore dentro per tutti quei giorni, come di corrente elettrica a basso voltaggio che talvolta impennava.

Quando impennava batteva forte, batteva senza che si potesse fermarla e attutire la potenza.

Tolleravo quel languore sotto pelle stringendo gli occhi e respiravo piano. Per ingannare il tempo elastico e azzerare la noia, qualche amico, un libro d’arte e l’origine della tragedia. La tragedia greca poteva aiutare a vivere in quei giorni. La violenza e lo spargimento di sangue fuori scena, la catarsi nelle sofferenze dell’eroe che, senza macchia e con mani pure, bianche di luna e lavacri, saliva sulla machina inviata in terra dal suo dio protettore, calata dal suo stesso dio eponimo che se lo portava in cielo con sé.

L’Annunziata di Tiziano e l’eroico re dai piedi gonfi potevano aiutare a vivere, a mettere in fila le parole, a trovare una ragione per parcheggiare il motorino al sole e far presto a salire le scale e rimanere fuori, in attesa che il giro di visite finisse, sui gradini freschi delle cementine nel reparto medicina.

Mio nonno paterno aveva il mio stesso nome. Vederlo sulla lastra di marmo, a chiare lettere d’acciaio temperato, in capitali maiuscole, sotto la sua foto di qualche anno prima, faceva uno strano effetto, sortiva un’atmosfera surreale, faceva morire un po’ anche me.

 Chiaramente non è accaduto, ho continuato a salire gradini, a mettere in fila parole necessarie l’anno successivo per gli esami di maturità, e gli altri a venire, ho voluto bene e sono stato ricambiato. Continuo a credere che se da qualche parte, forse, l’eterno Diogene di ogni generazione dovesse essere riuscito finalmente a trovare un suo simile, penso che valga la pena fermarsi, parlargli sotto l’ombra di un albero e condividere un pasto, perché forse quella potrà essere l’acuta, puntiforme, apicale, unica circostanza durante la quale sarà possibile farlo. Molti si sforzano di somigliare a quell’uomo, altri non si pongono il problema, altri ancora fuggono lungo la strada con l’autoradio accesa a tutto volume per mettere la sordina al rumore delle idee e dei rimorsi. Molti barano sapendo di farlo, altrettanti trovano a un certo punto del percorso un paludamento degno, un pretesto valido, un significato dignitoso, un carapace corazzato, che dia un senso alla loro gracilità non solo anatomica. La presunzione di essere, di esser diventati qualcosa a dispetto delle diserzioni, dell’ignoranza, della pochezza e dello sguazzo nella pochezza dilagante.

A diciassette anni i compagni del secondo liceo avevano organizzato una partita di calcio per sfidare altri ragazzi del secondo liceo classico concorrente. Non me ne fregava niente del calcio e non ci giocavo mai. Fui precettato e ci andai solo per spirito di gruppo.

Stavo in difesa.

«Spazza! Quando t’arriva il pallone spazza».

Quando m’arrivava il pallone io spazzavo, come meglio potevo. E ogni volta che spazzavo mi sentivo leggero per essermi liberato da un congegno a orologeria che rischiava di esplodermi tra i piedi.

A tifare, solo mio padre e quello di un ragazzo della squadra avversaria che ci guardava in cagnesco quando l’azione volgeva a nostro favore e segnavamo.

A un certo punto cominciò a piovere.

Il campo, affittato quasi per niente, si trovava nel convento dei cappuccini e più che un campo di calcio era un campo di patate, tutto bozzi e buche.

Dopo cinque minuti di pioggia generosa si trasformò in un pantano. L’arbitro, un ragazzo dello Scientifico, e quindi immune da rivalità, se n’era andato via prima del tempo. Senza arbitro la partita continuò solo per pochi minuti fino a quando la palla cascò a terra e sembrò che potesse spaccarsi nel guado perché non rimbalzava più.

Si decise di chiuderla lì, in parità.

A diciassette anni finii sul curvone della Cassia, appena fuori città, sbalzato via dalla moto impazzita sulla quale viaggiavo attaccato al gancio della sella, postazione ospite. Era stato organizzato il pranzo di fine anno per festeggiare i promossi, i rimandati a settembre e i respinti. Non so più chi ebbe l’idea di scambiarci vesponi con moto, moto con vespe. Insomma nessuno guidava il suo cinquantino o il suo centoventicinque. Chi non sapeva ingranare bene le marce col piede ebbe in sorte una moto, e chi invece non aveva nessuna dimestichezza con le marce che s’innestavano su un lato del manubrio, le vespe.

Usciti dalla città la prima curva ad ansa larga luccicava d’olio come una padella dove buttarci il pesce da friggere.

I pesci eravamo noi.

Il primo, che s’era accorto della chiazza non aveva fatto in tempo neanche a dire «Oh raga’, attenti c’è olio sulla strada» che già perdeva il controllo, un tremore inconsulto del manubrio lo faceva andare a destra e virare subito dopo a sinistra, come se qualche pezzo si stesse svitando dal telaio.

Fu subito a terra. Scivolava sull’asfalto ancora seduto in posizione di guida.

Sembrava volare, poi il contatto con l’asfalto e il grattare sulla corteccia bituminosa di braccia e ossa che sembravano destinate allo scopo.

Solide imprecazioni tagliarono l’aria, con tono rabbioso e impotente.

Fu poi la volta della mia moto, o meglio della moto, troppo alta e molleggiata, con una comoda maniglia retro sella alla quale, temendo il peggio sin dalla partenza nel piazzale sotto il liceo, ero attaccato. Scivolò dritta come un diametro di circonferenza mentre la strada era un’interminabile semicirconferenza, come se non avesse mai avuto peso e ruote. Sembrò una scheggia veloce e leggera fino a quando non scomparve dentro una cunetta tonfando oltre il guard-rail.

Volavo anch’io. L’aria era fresca, entrava nella camicia e nei pantaloni, elettrizzante. Furono pochi secondi folli e lanciati durante i quali gli studi per dimostrare che l’uomo un giorno avrebbe potuto volare senza ali furono confermati.

Frenai a terra con il ginocchio sinistro e la mano opposta abbassata per bilanciarmi.

Pelle e tessuto estivo si consumarono alquanto sulla strada incatramata da poco.

Il casale in campagna scelto per il pranzo si trasformò in infermeria tra bende, acqua ossigenata, rimozione rapida della terra dalle ferite. Festeggiammo claudicanti, con i jeans strappati e la testa fasciata. Qualcuno s’era rotto un incisivo e brindò con un sorriso da vecchio e l’espressione incosciente. Qualcun altro non poteva impugnare la forchetta e fu imboccato, come se avesse avuto due anni, dai padroni di casa.

A diciassette anni la vita era verde come un albero giovane. Era avventurosa e strana, come se non ci fosse stato alcun ostacolo insormontabile, neanche un tornante coperto d’olio, nessun brano di Cicerone o Platone da non poter tradurre, nessuna ragazza da non poter avvicinare, anche con la scusa più patetica, come se tutto il teatrino di carta pesta intorno fosse stato messo su alla bell’e meglio, lì esclusivamente per noi, per dimostrare che la nostra generazione avrebbe cambiato e sovvertito le regole sbagliate, concesso giochi e divertimento democraticamente per pochi spiccioli.

Avevamo la verità in tasca, insieme alle chiavi di casa e a qualche migliaio di lire.

Poco dopo avremmo votato per la prima volta e non sapevamo per chi.

O meglio io lo sapevo perché alle amministrative mio zio s’era candidato nelle liste di un decoroso partito tutelare dei buoni principi che lo aveva scelto tra i professionisti noti in città. Ottenne troppi voti, più di quelli che i dirigenti avevano previsto che dovesse prendere in quanto considerato un semplice porta acqua.

Il porta acqua fu il primo dei non eletti. Contestò il numero dei voti e risultò che a quello davanti a lui era stata aggiudicata una manciata di preferenze in più del lecito e il primo dei non eletti diventò lui.

Mio zio fu consigliere comunale, per poco tempo, il tempo necessario per rendersi conto di quanto la politica fosse marcia anche ai livelli territoriali dell’amministrazione cittadina.

Si dimise dopo aver letto un lungo, ispirato discorso di commiato che faceva appello al senso civico e alla questione morale.

Mentre mio zio citava la Costituzione, De Gasperi e Don Sturzo, i compagni di maggioranza e quelli d’opposizione sbuffavano annoiati, disegnavano donnine nude in posizioni sconce, e pensavano a come darla da bere alla moglie anche quella sera.

A diciassette anni si doveva superare la visita militare.

Ci andammo a giugno, compatti tutti quelli dello stesso scaglione dei nati nella seconda parte dell’anno. Uno cercò di farsi riformare sedendosi contro il muro bianco d’intonaco, invece che girato dalla parte opposta per cominciare a leggere le lettere dallo schermo luminoso, giurando di non averlo visto. Un altro s’impantanò nella compilazione del modulo personale, incerto se segnare con una x la voce relativa allo stato civile che recitava celibe.

«Beh, io non so’ celebre. Vado a scuola, sto con gli amici e suono la chitarra in un gruppo ma non sono celebre».

Un altro ancora – gli avevano detto che doveva fare solo quello che gli veniva imposto senza prendere iniziative personali – rimase coi gioielli di famiglia scodellati sul tavolo del medico, chiamato fuori dall’ambulatorio subito dopo aver scandito il fatidico ordine: «Giù le mutande!».

Il proprietario dei gioielli, sbruffone e impacciato allo stesso tempo, rimase una mezz’ora buona con le braghe calate guardando fuori dalla finestra. Si grattava la schiena e intanto gli altri ragazzi calavano le braghe davanti ai dottori, aprivano la bocca, facevano «Ah!», dicevano «trentatré» mostrando carie, tonsille e velo pendulo, tossivano, rimanevano in piedi su una gamba a occhi chiusi. Subito dopo si riassestavano le mutande e se ne potevano andare.

Alla fine era rimasto solo lui. Il medico rosso in faccia, ritornato dopo una sveltina in astanteria, tuonò: «E che fai ancora così!? Ma vai via coglione!».

Un altro, grasso e occhialuto, rimase un giorno in più, dopo che quasi tutti erano tornati a casa. Per accertamenti. Nel modulo personale aveva dichiarato di provare qualche volta un senso d’inferiorità rispetto agli altri e di avere difficoltà con le ragazze. Lo sottoposero a quiz psicologici, gli fecero leggere brevi storie dalle quali ricavare il senso meno ovvio, lo sottoposero a un elettrocardiogramma, a un encefalogramma e all’analisi completa del sangue.

Parlò con lo psicologo e fu visitato dal neurologo. Risultò sano di mente, solo con i potenziali visivi evocati pigri e qualche valore lipidico alterato. Gli consigliarono di mettersi a dieta e provarci con la prima ragazza, «Meglio se bruttina di quelle che non mettono in soggezione, che se le guardi con insistenza forse è la prima volta che qualcuno le guarda tanto e ci stanno».

Tornato a casa si fece sotto con la più brutta della classe che aveva diciassette anni anche lei ma ne dimostrava trenta. Si fidanzarono e dopo tre anni addirittura sposati, poi con due figli, un maschio e una femmina. Lui occhialuto e in sovrappeso, lei con aria matura di vecchietta precoce.

A diciassette anni la vita era strana, poteva morire tuo nonno, potevi andare in bianco con la più bella e fidanzarti con la più brutta, grattarti la mano sull’asfalto in un giorno di corse veloci, calarti le braghe e guardare fuori.

Si poteva scrutare fino in fondo, fino a dove non si può più reggere il riverbero della luce.

Vedere qualcosa che non c’è e crederci.

Sembrava che in fondo si stendesse il mare, una striscia orizzontale turchese che secava quella parte di mondo per tutta l’apertura d’uno specchio di finestra in un palazzo borghese, in città.

Un pensiero riguardo ““Il periodo migliore”, un racconto inedito di Salvatore Enrico Anselmi

  1. Gentile Sonia,

    un sentito ringraziamento per la pubblicazione del racconto Il periodo migliore. Un piacevole avvio di giornata.

    Un caro saluto. A presto risentirci,

    Enrico

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