Di DANIELE BARBIERI *
È possibile classificare le teorie estetiche del Novecento in due grandi filoni. Non si tratta ovviamente della sola classificazione possibile, ma si tratta comunque di una divisione il cui valore trascende la semplice funzionalità al mio discorso. In una sua bella antologia del pensiero estetico contemporaneo, Pietro Montani[1] organizza l’intera materia attorno a un noto passo di Adorno[2], mostrando come le diverse posizioni estetiche del Novecento abbiano dovuto prendere posizione in vario modo a favore o contro l’opinione che vi viene espressa.
Montani descrive la posizione di Adorno in questi termini:
L’ultimo Adorno, dunque, imbocca decisamente la strada, a lui congeniale, del paradosso […]: l’opera d’arte deve saper disdire quanto ha di più proprio, impegnandosi tuttavia a ripristinarlo in questa medesima disdetta, che dunque non può essere una semplice negazione e dev’essere, piuttosto, una “negazione determinata”: un modo di “rappresentare” nella sua verità – cioè negandolo – il mondo in cui Auschwitz è stato, ed è ancora possibile. Così, l’intero corredo delle figure che per secoli hanno garantito l’autonomia dell’opera – l’armonia, la coerenza, la bellezza, l’unità, la consonanza – dev’essere rimesso in questione, ma in maniera tale che questa stessa revoca assuma uno statuto figurale, impegni l’estremo sforzo etico di apparire e di automotivarsi a sua volta come forma autonoma. Solo a queste condizioni l’opera d’arte – ogni singola opera, poiché di una negazione determinata non si può fare una regola generale – può sperare di opporre resistenza al movimento che già dà segni di volerla inglobare nell’indistinto livellamento dell’ “industria culturale” in cui l’arte diventa semplice intrattenimento e sostanziale conferma dell’esistente. (Montani, cit. p. 12)
Per Adorno, dunque, la “serenità” che ha caratterizzato secolarmente l’arte è stata distrutta dall’industria culturale. Nelle sue stesse parole, riportate poche pagine dopo nella medesima antologia:
Da quando l’arte è stata presa per la cavezza dall’industria culturale e si allinea fra i beni di consumo, la sua serenità è sintetica, falsa, stregata. Nessuna serenità è conciliabile con l’arbitraria imposizione al cliente. Il rapporto pacificato della serenità con la natura esclude ciò che questa manipola e calcola. (ibid. p. 38)
Le parole di Adorno sono, come sempre, dure, spietate, chiarissime. E lo sono persino quando le sue tesi si annodano nella contraddittorietà in cui si trova chi apprezza produzioni belle e ben fatte, ma non le può accettare per fondamentali ragioni etiche. Perché il nocciolo dell’estetica adorniana sta proprio in questa ambivalenza tra l’estetico in senso sensistico, come valutazione di ciò che pertiene alla sensazione, ai sensi, e una presa di posizione profondamente etica che, condotta al suo estremo, genera l’affermazione, fortissima, per cui dopo Auschwitz non ci può più essere poesia. Ed è quest’ultima affermazione a poter essere considerata cruciale, centrale, nell’estetica di Adorno – per quanto più volte, dopo averla enunciata, ne abbia attenuato la perentorietà, senza con questo modificarne il senso profondo:
Il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato possibile e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena. Essa degenera obiettivamente in cinismo, per quanto prenda in prestito la bontà dell’umano comprendere. (ibid. p. 38)
Ma il cinismo dell’industria culturale, questo spauracchio continuamente evocato da Adorno per tenere sotto osservazione l’arte contemporanea, per quanto sia una categoria importante, e non certo trascurabile, non è una categoria di carattere estetico – perlomeno non lo è all’interno di un’estetica propriamente detta, che si occupi della sensazione, della aisthesis. In altri termini, il problema sollevato da Adorno è sì un problema di grandissimo peso – credo che su questo non si possano avere dubbi – ed è pure un problema che ci tocca profondamente nel valutare le opere d’arte, ma è un problema di carattere etico, e non specificamente estetico.
Potremmo allora dire che la proposta di Adorno (ma non è stato il primo a farla, anche se mai era stata probabilmente esposta con altrettanta drammaticità) è che le valutazioni di carattere etico non siano secondarie a quelle di carattere estetico, quando l’oggetto è un’opera d’arte. E che possiamo considerare come arte solo qualcosa che soddisfi non solo il nostro gusto estetico ma anche il nostro senso etico. Esposta così, tuttavia, la posizione non sembra particolarmente problematica.
Il problema, semmai, è che, stretta nelle maglie di una concezione come quella di Adorno, l’opera d’arte rischia di essere tale solo quando la sua valutazione etica può avere valore universale. Riecheggia, nelle parole di Adorno, il principio kantiano dell’imperativo categorico: “Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale”[3]. E pure se questo è un ragionevole principio di fondo, resta comunque un principio teorico di fatto inattuabile, perché non è ragionevole che di qualsiasi nostra azione noi si debba trarre le estreme conseguenze morali. Non è ragionevole perché in primo luogo non vi sarebbe il tempo materiale per farlo, ogni volta che si richieda una decisione nel corso dell’azione; e non lo è in secondo luogo perché le conseguenze delle nostre azioni sono tipicamente contraddittorie, anche da un punto di vista etico, non appena le si conduca un poco più in là dell’immediato.
Le obiezioni che la riflessione filosofica di carattere etico ha mosso alla posizione di Kant si riverberano dunque su quella di Adorno a proposito dell’arte, e ci si domanda legittimamente se davvero a ogni singola opera sia chiesto di confrontarsi con Auschwitz, e con il cinismo dell’industria culturale. O se, piuttosto, non vi sia una dimensione specifica dell’estetico, che permetta l’esistenza di opere che considereremmo artistiche anche se non rispettassero l’imperativo categorico adorniano.
Su una posizione di questo genere, infatti, si attesta l’apologia dell’esperienza estetica di Jauss, e la sua teoria della ricezione. Secondo Jauss le esperienze della produzione e della ricezione estetica sono già, di per sé, esperienze di carattere liberatorio:
La Katharsis concepita come determinazione fondamentale dell’esperienza estetica chiarisce perché la realizzazione di norme sociali attraverso il modello dell’arte, di fronte all’imperativo delle norme giuridiche e al vincolo sociale delle istituzioni, generi una presa di distanza e renda con ciò possibile un margine di libertà: l’esperienza comunicativa anticipa nel medium dell’arte una liberazione del fruitore da e contro il mondo oggettivo, realizzata grazie al suo immaginario.[4]
Jauss rimprovera ad Adorno di avere sottomesso il giudizio estetico a una riflessione di carattere intellettuale, sostenendo, al contrario, che “l’uomo è in condizione di ottenere il dominio spirituale sul mondo non solo mediante il concetto, ma anche mediante la visione”. Da questo deriva l’importanza di costruire una teoria della ricezione centrata sul piacere estetico, ovvero sul piacere di chi fruisce l’opera, ma anche di chi la produce.
Questa diversità di posizione conduce a una diversità di atteggiamento nei confronti dell’opera d’arte. La forte componente etica della sua posizione induce Adorno a produrre sostanzialmente una sorta di normativa rispetto a cosa possa essere e cosa non possa essere opera d’arte. Per quanto assai più raffinata, sottile e complessa, questa posizione non è lontana da quella di altri pensatori di scuola marxista, che si sentono autorizzati dalla propria posizione politica e morale a decidere che cosa abbia il diritto di essere considerato arte e che cosa non ce l’abbia. Se il bene supremo è la massima felicità comune, anche l’arte deve poter essere giudicata nei termini di questa finalità centrale e indiscutibile.
Alle spalle di questa concezione sta un monismo filosofico radicale, di radice giudaico-cristiana, per cui, una volta deciso quale sia il sommo bene, tutto ne deriva, e le discussioni possono vertere solo sulla maggiore o minore correttezza di tali derivazioni; certamente non sulla loro opportunità. Che il sommo bene sia Dio, o piuttosto il benessere dei più, produce differenze nelle posizioni specifiche, ma non nel modo di derivarle dal nocciolo etico centrale.
Jauss accusa Adorno di platonismo, intravedendo in questa posizione un monismo filosofico fondamentale, che riduce l’esperienza estetica a quella teoretica, quasi ne fosse un surrogato. Ma così facendo, e rifiutando un monismo basato sia sull’etica che sulla teoresi, Jauss evita anche di formulare qualsiasi tipo di norma per distinguere che cosa sia arte da che cosa non lo sia.
Questo, se si legge Jauss alla luce di Adorno, crea un effetto singolare, perché Jauss parla di testi artistici e ne cita numerosi, ma non si pone il problema di quale sia la soglia al di là della quale si possa parlare di arte. D’altro canto, se il problema di Jauss è il problema della ricezione estetica, esso riguarderà tutti i testi che hanno caratteristiche estetiche, e tra questi non vi è dubbio che i testi artistici sono quelli più adatti a essere citati, visto che possiedono caratteristiche estetiche al massimo grado. Ma in questo modo la distinzione tra cosa sia arte e cosa non lo sia viene espulsa dal centro del problema, e il problema dell’arte non coincide più con il problema estetico, anche quando Jauss, di fatto, li tratta insieme. La differenza tra estetico e artistico non può poi nemmeno essere posta, come avevamo fatto per Adorno, nella rilevanza di una dimensione etica nel caso dell’arte. Presumibilmente l’arte, nei termini di Jauss, è semplicemente il modo storico in cui l’esperienza estetica si addensa in certe opere che noi riconosciamo in seguito, socialmente, come artistiche. Secondo le sue medesime parole, infatti la sua è una teoria
in base alla quale l’essenza dell’opera d’arte si costituisce nella sua storicità, vale a dire nella sua efficacia in dipendenza di un dialogo continuato con il pubblico, il rapporto di arte e società deve essere afferrabile nella dialettica di domanda e risposta e la storia di un’arte acquisisce la sua particolarità nella trasformazione dell’orizzonte dalla tradizione irriflessa alla ricezione critico-interpretativa, dalla classicità ferma al passato alla formazione continua di canoni (Jauss cit. p. 46-47)
L’estetica intellettualistica medievale
L’opposizione tra Adorno e Jauss ci permette di caratterizzare due modi diversi di intendere l’estetica, intesa come teoria dell’arte, due modi che hanno avuto cittadinanza entrambi non solo nella riflessione del Novecento, ma in tutta la storia delle arti e della riflessione che le ha accompagnato. Parleremo dunque, a grandi linee, di estetiche intellettualistiche (eventualmente su base etica, come nel caso di Adorno) e di estetiche sensistiche.
Studiando il mottetto tre- e quattrocentesco, Bernard Vecchione mette in evidenza come in queste opere sia tipicamente rinchiusa una verità nascosta[5], di carattere argomentativo. All’interno del mottetto Nuper rosarum flores/Terribilis est locus iste, composto da Guillaume Dufay per la cerimonia di consacrazione della Cattedrale di Firenze, il 25 marzo 1436, per esempio, sia la linearità delle parole cantate che le linee armoniche e melodiche nascondono dei messaggi. Questi messaggi si basano sia su rapporti numerici, che corrispondono alle proporzioni della mostruosa cupola brunelleschiana che si veniva a celebrare, sia sul modo in cui le voci si intrecciano e rinviano a diverse modalità di rapporto tra la Terra e il Cielo, ora più lontani, ora riavvicinati dall’esistenza stessa della nuova chiesa. Inoltre, attraverso il meccanismo della tropatura, dentro al testo che viene cantato è nascosto un altro testo segreto, non accessibile al pubblico.
Le proporzioni corrispondenti a quelle dell’architettura, certe relazioni tra le voci del meccanismo polifonico, il motet (“piccola parola”) nascosto nel testo, sono tutti elementi che nemmeno il pubblico dell’epoca poteva in nessun modo cogliere all’ascolto; e nonostante questo essi erano considerati cruciali per la qualità estetica dell’opera, e questo ruolo di rilievo veniva riconosciuto dal pubblico stesso. Solo a un’analisi approfondita sulla partitura e sul testo verbale questi elementi così importanti possono essere scoperti.
Ma nella prospettiva di un’estetica sensista qual è il valore di un elemento che non può essere percepito? Se quello che conta è l’effetto prodotto sui sensi, o almeno attraverso i sensi sull’intelletto che ne elabora poi le percezioni, che ragione avranno le caratteristiche nascoste, quelle che nemmeno il centesimo ascolto potrebbe rivelare?
Si noti che il mottetto di Dufay arriva alla fine di un’epoca, e sancisce la conclusione di una consuetudine assai più largamente diffusa nei secoli precedenti – una consuetudine, tuttavia, che, pur riducendosi in maniera sostanziale, continuerà ad avere occasionali applicazioni sino al diciassettesimo secolo, un’epoca in cui l’ascolto della musica e la percezione dell’arte è ormai molto più dichiaratamente sensista.[6]
Ciò che tendiamo a dimenticare è che opere come questa di Dufay, o come quella di Marchetto da Padova per la consacrazione della Cappella Scrovegni, il 25 maggio 1305, che Giotto stava terminando di affrescare, sono rivolte anche e principalmente a un pubblico che noi oggi non siamo abituati a prendere in considerazione. Prima che agli ascoltatori umani, popolani o principi, musicisti o profani che fossero, questi mottetti erano dedicati a Dio, perché Lui prima di tutti poteva sanzionare la consacrazione stessa. Per questa ragione potevano esserci, anzi dovevano esserci, dei messaggi segreti, accuratamente nascosti nella struttura dell’opera: perché evidentemente per questo destinatario privilegiato essi erano non meno palesi degli altri.
Ma c’è un’ulteriore differenza tra la ricezione di un’opera di questo genere nell’epoca che va da Marchetto da Padova a Guillaume Dufay, e la ricezione da parte del pubblico del melodramma, in cui ancora a Monteverdi capita di nascondere messaggi segreti, come nella struttura dell’Orfeo. Il pubblico medievale è infatti ben consapevole che i mottetti si rivolgono a Dio prima che agli uomini: che l’opera dunque abbia un nocciolo segreto, ignoto agli uomini stessi, è perciò un valore positivo, perché ne dichiara la destinazione trascendente. Per gli spettatori tardo-rinascimentali, ammesso che ne siano a conoscenza, si tratta al più di un gioco intellettuale, accettato e magari pure apprezzato, ma non determinante per la qualità dell’opera.
Il passaggio, tra Medioevo e Rinascimento, che va poi ancora rafforzandosi nei periodi successivi, è sostanzialmente quello tra un’estetica intellettualistica e una sensistica, ovvero da un’idea dell’arte come un discorso intellettuale, rivolta prima di tutto all’intelletto supremo della divinità, a un’idea dell’arte come gioco sensuale, da cui l’intelletto non è certo escluso ma di cui sono i sensi i protagonisti. È in questa prospettiva intellettualistica, rivolta a Dio, che si capisce il senso di tante partiture dei maestri fiamminghi, le cui simmetrie e i cui giochi visivi non potevano certo essere colti dagli ascoltatori – i quali però sapevano che ciò che ascoltavano conteneva messaggi nascosti, come uno scrigno che non può essere aperto, ma che acquista valore dal semplice fatto di sapere che contiene un oggetto di valore. Chissà quanto della mistica moderna dell’opera d’arte come qualcosa che contiene sempre un messaggio nascosto è debitore nei confronti di questa antica concezione!
Ma i polifonisti fiamminghi non avevano solamente Dio come referente intellettuale dei loro inaudibili giochi visivi. La partitura era fatta anche per essere vista dai loro pari, e mentre rappresentava la guida per un’esecuzione destinata all’ascolto dei profani (dovendo soddisfare anche e comunque un sempre esistito ma ora maggiormente giustificato diletto dei sensi), costituiva l’opera stessa, in primissima istanza, per chi era in grado di leggere la musica e poteva vedere e comprendere la partitura.
Cinque secoli dopo, proprio mentre Adorno sostiene la propria versione etica dell’estetica intellettualistica, le partiture musicali riprendono la funzione duplice inaugurata dai fiamminghi[7], e la musica stessa, insieme ad altre arti, inaugura una nuova versione estrema delle estetiche (o meglio, in questo caso, delle poetiche) intellettualistiche[8]. Si tratta di un fatto evidente quando si prende in considerazione l’idea stessa di arte concettuale, ovvero di un’arte che si rivolga all’intelletto anziché ai sensi, e anzi talora in opposizione a loro.
Ed è forse un fatto meno evidente, ma non meno reale, quando si considera l’importanza che numerosi musicisti danno all’aspetto della partitura, partitura che non viene più considerata come un mero tramite mnemonico per permettere l’esecuzione, ma spesso come un’opera autonoma, a sé stante, fruibile anche indipendentemente dall’esecuzione. Ma fruibile da chi?
L’idea del principio di regolarità nascosto, comprensibile a pochi eletti e inattingibile ai semplici ascoltatori, si lega direttamente all’idea delle proporzioni brunelleschiane nascoste nel mottetto di Dufay. La serie, nata come personale regola compositiva di Arnold Schoenberg, diventa con Boulez un metodo generale, e poi, nelle sue volgarizzazioni, una necessità di cui si perde persino il senso. Per Schoenberg, la dodecafonia è un espediente per evitare il problema della tonalità, senza perdere le acquisizioni espressive dell’armonia tonale. Come ci ricorda lui stesso, nel comporre la musica atonale, ma non ancora dodecafonica, del Pierrot Lunaire, la sua attenzione era concentrata nell’evitare le relazioni tonali[9]: ma in questo modo, seppur a rovescio, la tonalità era ancora dominante.
Eppure è proprio Adorno a mettere in luce l’intellettualismo implicito in questa scelta, mostrando sin nei saggi scritti nel 1939 (poi pubblicati solo 10 anni dopo nel suo volume famoso[10]) che, all’interno di una successione dodecafonica gli intervalli corrono il rischio di essere usati ignorando completamente la loro determinazione storica. In altre parole, all’interno di una costruzione seriale, una quinta perfetta e una seconda minore sono del tutto interscambiabili, se la logica interna lo permette. Qui è proprio Adorno che sembrerebbe farsi difensore del senso, ma in realtà non lo è: è invece il paladino di una concezione etica contro una puramente formalistica.
…[nella musica dodecafonica di Schoenberg] gli attriti [come l’emergenza della seconda minore] e la vuotezza degli accordi [come l’uso di accordi privi di tensione quali la quinta o la quarta] non sono indirizzati a un fine compositivo: entrambi sono sacrifici della musica alla serie. Affiorano per ogni dove, senza che il compositore lo voglia, filoni tonali del tipo che una critica attenta poteva, nella libera atonalità, togliere facilmente di mezzo. Essi vengono interpretati da chi ascolta non in chiave dodecafonica, ma appunto come accordi tonali: ché il processo compositivo come tale non è in grado di far dimenticare le implicazioni storiche del materiale [corsivo mio]. La libera atonalità, colpendo di un tabù l’armonia perfetta, aveva universalmente steso sulla musica la dissonanza: esisteva solo più la dissonanza. L’aspetto restaurativo della dodecafonia si dimostra con violenza forse più che altrove nell’allentamento della proibizione della consonanza. (ibid. p.89-90)
Quando nel 1958 Adorno si scaglia contro la musica moderna, la sua obiezione è ancora la stessa che aveva mosso al suo pur amato Schoenberg. La colpa della musica contemporanea è quella di essere diventata sì intellettualistica, ma abbandonando del tutto la tensione etica che avrebbe dovuto invece sostenerla:
Invecchiamento della musica moderna non significa altro che la gratuità di un radicalismo che si manifesta nel livellamento e nella neutralizzazione del materiale, e che non costa più nulla. Non costa più nulla spiritualmente, in quanto, impiegando questi accordi senza la precauzione con cui venivano scritti e goduti allora, si toglie loro anche ogni sostanza, capacità espressiva e relazione col soggetto; e materialmente, dal momento che nessuno oggi più si scandalizza della dodecafonia. […] Ma la dodecafonia è impensabile senza la sua antitesi, che è proprio quella forza esplosiva del dettaglio musicale ancor oggi presente nelle prime opere di Webern. La tecnica dodecafonica è una tenaglia inesorabile che trattiene le forze che altrettanto inesorabilmente vorrebbero disperdersi: usarla senza l’opposizione di queste forze, organizzarla senza che ci sia nulla che si oppone e nulla da organizzare è fatica vana. In innumerevoli composizioni dodecafoniche contemporanee vi sono elementi musicali relativamente semplici che stanno tra loro in un rapporto musicale altrettanto semplice: ma essi non avevano alcun bisogno della tecnica seriale per esistere, e questa è la loro condanna. La dodecafonia diventa qui quello che in matematica si chiama sovradeterminazione di una equazione: insomma, un errore
La sensazione di tradimento che l’ambiente della musica di avanguardia provò di fronte a questo saggio di Adorno mostra quanto influente sia stato il suo pensiero per la direzione presa dalla musica. Eppure Adorno aveva ragione, e non solo nei suoi specifici termini.
Forse l’avanguardia musicale ha davvero evitato, in questo modo, di contaminarsi con l’industria culturale, ma molto spesso ha pagato, per fare questo, il prezzo di un’intellettualizzazione completa delle proprie poetiche, attraverso la presunzione che ogni specifica opera potesse davvero spiegarsi nei propri specifici termini, e che la storia percettiva e cognitiva degli ascoltatori non fosse rilevante per la comprensione[11]. Il risultato, per Adorno, è una musica vuota, pronta a rientrare dalla finestra nelle maglie di quell’industria culturale dalla cui porta era uscita.
Vi sono delle eccezioni, ovviamente. Adorno non può fare a meno di salvare lo stesso Boulez dalla propria condanna, e posso supporre che siano anche altri i salvabili non nominati. L’obiettivo polemico di Adorno è la tendenza generale che la musica contemporanea ha preso, e non i singoli autori di cui non ha problemi a riconoscere il valore.
Più nel senso di un’estetica sensista vanno invece le obiezioni che Gérard Grisey, compositore francese prematuramente scomparso, muove alla medesima musica in un articolo del 1980:
Passiamo ad un’altra difficoltà: la nozione di ritmi retrogradabili e non retrogradabili (Messiaen [1956]) o identici, quella di simmetria e asimmetria ritmica (Boulez [1971]). Ancora una volta, una simile distinzione, qualunque sia il suo valore operativo, non ha nessun valore percettivo. Dimostra a quale livello di disprezzo o di disconoscenza della percezione siano arrivati i nostri predecessori. Quale utopia questa visione spaziale e statica del tempo, vera e propria linea diritta in mezzo alla quale si trova implicitamente l’ascoltatore, dotato non solo di una memoria ma anche di una prescienza che gli consente di comprendere l’asse di simmetria nel momento stesso in cui compare! A meno che il nostro superuomo sia dotato di una memoria tale da essere in grado di restituirgli l’interezza delle durate che potrà, a posteriori, classificare come simmetriche o no! A meno che tutto ciò non sia, ancora una volta, soltanto compito dello specialista che legge una partitura![12]
E ci troviamo, con queste parole, idealmente di nuovo di fronte ai nostri polifonisti fiamminghi! Ma queste parole non sono state pronunciate da un neoromantico, o da qualcuno che appartenga a una diversa tradizione musicale. Grisey era talmente parte del medesimo ambiente musicale di Boulez e Messiaen, che queste parole sono state pronunciate nel corso di un seminario a Darmstadt, cioè proprio nel cuore, al centro propulsore, nel luogo mitico della musica post-weberniana, quello in cui si fecero le prime sperimentazioni e da cui si sparse il verbo del serialismo. Grisey era dunque finalmente consapevole del problema, e anche dei danni provocati dall’intellettualismo sia nella versione formalistica di Boulez che in quella etica di Adorno, entrambe influentissime e spesso reciprocamente sorreggentesi.
Piacere del bello e piacere dell’arte
Nemmeno Adorno, comunque, può negare che il piacere estetico esista. Non è infatti questo il suo punto. Il punto è semmai che, pur esistendo, non dovremmo porlo al centro della valutazione dell’opera d’arte. Se leggiamo Adorno attraverso Jauss, nelle pagine in cui Jauss difende il godimento estetico, troviamo che, per Adorno
Chi cerca e trova piacere nelle opere d’arte deve essere per forza un filisteo: “espressioni come ‘delizia delle orecchie’ lo dimostrano colpevole”. Chi non è capace di purificare l’arte dal gusto del piacere, la pone accanto ai prodotti della gastronomia o della pornografia. Alla fin dei conti, il piacere estetico non sarà che una reazione borghese alla spiritualizzazione dell’arte, costituendo con ciò il presupposto dell’industria culturale del nostro tempo, la quale nel circolo vizioso che soddisfa con surrogati estetici i bisogni indotti, serve gli interessi occulti della classe dominante.[13]
In questa descrizione è piuttosto evidente che le ragioni per evitare il piacere estetico sono unicamente di carattere etico. Il piacere estetico esiste indubbiamente anche per Adorno, ma nell’opera d’arte contemporanea ha una valenza negativa.
Particolarmente rivelatore è l’accostamento dell’arte fruita con piacere ai prodotti della gastronomia e della pornografia. Ho già avuto occasione di parlare della gastronomia e della sua valenza estetica[14] e credo di aver mostrato quale sia il suo valore estetico e cognitivo. La pornografia è un’arma più difficile da spuntare, perché la parola stessa “pornografia” comporta già un giudizio etico negativo (il che fa pensare che pure della gastronomia Adorno avesse un’opinione analoga) – ma trovo che nel complesso Adorno faccia qui di tutte le erbe un fascio, come se quello di piacere fosse un concetto semplice, e in ogni caso riconducibile al piacere sessuale nella sua forma più elementare e fisica. Sempre ammesso che una forma elementare e puramente fisica del piacere sessuale esista davvero.
Dovremmo, io credo, semmai, imparare a compiere una serie di distinzioni più sottili. Il piacere della gastronomia è assai diverso già da quello della pornografia, ma è diverso persino da quello della semplice soddisfazione della fame, che pure ne rimane come componente anche al livello più raffinato. E c’è evidentemente differenza tra il piacere della pornografia e quello dell’erotismo, anche se il confine tra i due campi può trovarsi facilmente spostato in un verso o nell’altro a seconda delle nostre convinzioni morali in merito. Ma se possiamo tracciare delle differenze tra campi così vicini, perché dobbiamo genericamente assimilare il piacere del bello, o addirittura il piacere artistico (e quale dei mille e mille piaceri artistici, o semplicemente estetici) a quelli della gastronomia e della pornografia?
Solo in nome di un principio morale superiore queste differenze possono essere giudicate irrilevanti, e solo nella misura in cui riteniamo questo principio indubitabile e universale – come certamente lo riteneva Adorno – ci riterremo autorizzati a chiudere gli occhi per integralismo così come la lumaca della Dialettica dell’illuminismo[15] li chiudeva per paura.
Anche se il principio etico non può essere confuso con quello estetico, non dobbiamo tuttavia ritenere che esso sia irrilevante. Ma se si mette il problema estetico davvero in primo piano, la questione può essere posta in maniera molto diversa da quella di Adorno.
Intanto, bisogna tener ben presente che la percezione estetica non esiste indipendentemente dalla nostra vita nel mondo, e che le nostre convinzioni morali sono comunque una determinante del modo in cui con questo mondo interagiamo, percezione compresa. Se vedo compiere un atto che io ritengo vergognoso, io non sto assistendo a un evento che colpisce la mia percezione e che in seguito valuterò vergognoso: piuttosto, sto assistendo a un atto vergognoso. Non c’è, cioè, una percezione pura, rispetto a cui io applicherò in seguito le mie categorie morali; sono quelle, invece, come in generale le mie conoscenze e opinioni sul mondo, a determinare le modalità della mia percezione. Solo nei casi in cui quello che vedo non è chiaramente giudicabile dal punto di vista etico, potrò percepire senza giudicare, e magari farlo soltanto in seguito, quando la riflessione sulle conseguenze dell’evento mi avrà permesso di prendere posizione.
Ma se, in linea di principio, una valutazione etica è già presente nelle mie percezioni, sarà presente anche, implicitamente, nei miei giudizi estetici, o, più banalmente, nei miei giudizi di piacere. Se qualcosa mi piace è senz’altro perché, in qualche modo, lo trovo moralmente giustificabile, almeno per me. E tuttavia possono convivere, in me, anche valutazioni etiche contraddittorie, che producono insieme approvazione e riprovazione, per cui io posso sentirmi giustificato di fronte a qualcosa che mi dà piacere, e insieme colpevole per questo stesso fatto. A dispetto dell’imperativo categorico kantiano, l’etica è tutt’altro che una questione semplice, vista da dentro ciascuno di noi.
Comunque sia, già nel giudizio “mi piace” è implicito qualcosa del tipo di “va bene” (almeno per qualche verso), ma ovviamente vi è molto di più. Ovvero il giudizio estetico presuppone un qualche giudizio di carattere etico, ma certamente non si risolve in esso.
Si noti che il tipo di valutazione etica concorre a definire la diversità dei gradi di valutazione estetica. Nel semplice “mi piace” vi è al massimo il suggerimento che questo possa valere per qualcun altro, ma quello che viene asserito è che quello che percepisco dà piacere a me, per come sono fatto io e per come la penso io. Il “mi piace” esplicita il mio disinteresse (almeno al momento) per una generalizzazione del mio sentire agli altri: sono io e solo io che provo questo piacere, che giudico positivamente l’evento, e non mi pongo il problema della sua generalità.
Ben diverso è il giudizio più propriamente estetico “è bello”. “È bello” può essere considerato grosso modo equivalente di “mi piace, e ritengo che vi sia ragione perché piaccia a tutti”. Vi sono molte sfumature di senso con cui “è bello” può essere detto. Il “ritengo che vi sia ragione” può essere constativo o ottativo, cioè può esprimere la mia credenza di appartenere a una comunità che ritiene che questo sia bello, oppure semplicemente l’augurio che una tale comunità esista. Il “tutti” va inteso non come un universale globale, ma come un “tutti nella mia comunità”, dove i limiti di tale comunità possono variare di caso in caso. Della varietà del “piacere” abbiamo già detto.
Comunque sia, però, “è bello” esprime l’accordo con una comunità, reale o virtuale, grande o piccola che sia, ed esprime, quindi, la presupposizione di un’identità etica comune, il riconoscimento di valori appartenenti all’intera comunità, sulla cui accettazione si basa il giudizio estetico. Dire “è bello” anziché semplicemente “mi piace” vuol dire dunque anche riconoscere un fondamento morale condiviso, sulla cui base l’evento viene valutato.
In qualche caso, addirittura, “è bello” viene usato direttamente per esprimere una valutazione sostanzialmente etica, come una sorta di sostituto di “è buono”. Lo potremmo considerare un uso semplicemente omonimo di quello estetico, se non fosse che di fatto è un venire a galla dei suoi presupposti.
Esistono anche giudizi intermedi tra “mi piace” e “è bello”. Dire, per esempio, “è bello per me” è appena più forte che dire “mi piace”, perché afferma e insieme nega l’universalità (relativa) del giudizio; o forse in quanto pone i propri valori individuali come universali, benché l’universo in questione sia costituito da me solo. Oppure dire “secondo me è bello” è appena più debole che dire “è bello”, perché mette in gioco l’incertezza della propria valutazione, pure se tale valutazione si propone come universale.
“È un’opera d’arte” è un giudizio ancora differente. Esso esprime l’appartenenza dell’oggetto in questione a una categoria a cui si applicano i giudizi del tipo “è bello” (che però non si applicano solo a questa categoria di oggetti). Cosa sia un’opera d’arte cambia a seconda delle epoche e delle teorie estetiche che vengono messe in gioco. Adorno non considerava opere d’arte i film dei Fratelli Marx.
Adorno, però, non accetterebbe nemmeno l’equivalenza tra il giudizio “è bello” e il “mi piace, e ritengo che vi sia ragione perché piaccia a tutti” che abbiamo proposto sopra. A rigore, la valutazione di Adorno dovrebbe essere del tipo “è bello, dunque non mi piace”, e che questo appaia ridicolo non è del tutto insensato. Dovremmo piuttosto dire che il “mi piace” che è accettabile per Adorno in contesti come questo è già un giudizio intriso di un valore etico universale, e non avrebbe senso per lui dire cose come “è bello per me”.
Anche noi che non siamo Adorno ci sentiamo però giustificati a giudizi del tipo “è un’opera d’arte, ma non mi piace”. Un giudizio di questo genere riconosce che l’opera in oggetto appartiene alla categoria delle opere d’arte, che altri potrebbero trovarla bella, ovvero universalmente valida, ma esprime pure il fatto che il mio giudizio non concorda con quello che ritengo comune, anche se riconosco che il mio giudizio non possiede l’autorità per mettere in discussione quello che attribuisco agli altri. “È bello, ma non mi piace” è un giudizio dello stesso genere, ma assai più vicino ad apparire contraddittorio; può essere inteso come “ritengo che vi sia ragione perché piaccia a tutti, ma a me non piace”
Agli oggetti della categoria delle opere d’arte chiediamo un’universalità più forte e dura di quella che pretendiamo dai semplici oggetti belli. Più forte e dura non significa che coinvolga un maggior numero di persone, perché l’universalità di cui parliamo è sempre relativa a una comunità di riferimento, disposta a riconoscere una specifica opera d’arte come tale. Significa piuttosto che la comunità nel suo complesso deve riconoscere uno spiccato valore etico all’opera, oltre a considerarla bella (il che ha già, di per sé, dei presupposti morali). Spiccato valore etico non significa però che l’opera d’arte deve necessariamente prendere posizione rispetto ad Auschwitz; può bastare che mostri di insegnare qualcosa che riteniamo influente sulla nostra vita personale.
E tuttavia la richiesta dello spiccato valore etico è ciò che fa sì che mentre non abbiamo grossi problemi a definire “bello” uno spot pubblicitario, perché esso possa essere riconosciuto come “opera d’arte” deve superare molte altre prove, tra cui certamente quella di mostrare che ciò che ci insegna è così importante per noi da rendere trascurabile la sua “colpa” di fondo, che è quella di costituire una promozione commerciale. Adorno aveva probabilmente torto a sottolineare così drasticamente la dimensione etica, ma il suo atteggiamento non fa che portare all’estremo una concezione dell’arte che è intrinseca alla cultura occidentale.
Se dunque di ciò che mi piace posso accettare che collida con i principi morali comuni, se ciò che è bello può essere eticamente indifferente (ma non negativo), dall’opera d’arte mi aspetto comunque che sia morale. E se ritengo davvero che una certa opera sia un’opera d’arte mi riterrò impegnato a trovarne un messaggio etico di fondo anche quando in superficie mi apparisse moralmente disgustosa: in fondo è anche attraverso il disgusto che si può arrivare a capire l’essenza del male. O no?
Nelle pagine che seguono mi occuperò di alcune questioni di carattere estetico, ovvero che riguardano ciò che è bello, e non specificamente ciò che è arte. Evidentemente, poiché ciò che è arte fa parte di ciò che è bello, le mie affermazioni saranno in qualche misura valide anche per le opere d’arte, e molti degli esempi che farò proverranno da opere d’arte, ma il mio interesse in questo saggio è per la dimensione estetica, più che per quella artistica, ovvero, in generale, per la comunicazione che fa leva sulla aisthesis, e non per quello che la nostra epoca vuole chiamare arte, un termine valorizzante, dai confini di applicazione spesso oscuri, e la cui funzione valorizzatrice è opportunamente sfruttata proprio da quell’industria culturale da cui Adorno voleva a tutti i costi difendere proprio l’arte.
[CONTINUA]
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[1] Pietro Montani (a cura di) L’estetica contemporanea. Il destino delle arti nella tarda modernità, Carocci, Roma, 2004
[2] da Theodor W. Adorno, Note per la letteratura, Einaudi, Torino 1979 pp. 273-280.
[3] Immanuel Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Roma-Bari 1971 p. 39.
[4] Hans Robert Jauss, Apologia dell’esperienza estetica, Einaudi, Torino 1985, p. 35-36.
[5] Cfr. Bernard Vecchione, « Entre Rhétorique et Pragmatique: L’innovation sémantique dans les ouvres musicales de nature argomentative », in Musical Signification, between Rhetoric and Pragmatics, Proceedings of the 5th International Congress of Musical Signification, ed. by Gino Stefani, Eero Tarasti, Luca Marconi, CLUEB, Bologna 1998.
[6] È ancora Vecchione a fare osservare come l’Orfeo di Monteverdi contenga una serie di messaggi nascosti di questo genere, volti a consacrare la discendenza ereditaria della famiglia Gonzaga. Questa osservazione è emersa in conversazioni personali con Vecchione. E a queste medesime conversazioni sono dovute anche le osservazioni che seguono nel testo, per le quali non saprei più distinguere che cosa specificamente sia arrivato da lui e che cosa da me, ma è sicuramente sua l’idea di fondo, dalla quale le conseguenze sono uscite durante il corso del dialogo.
[7] Sulle partiture musicali del Novecento vedi Andrea Valle, La notazione musicale contemporanea. Aspetti semiotici ed estetici, EDT, Torino 2002.
[8] Anche questa idea proviene di base da Bernard Vecchione, conversazione privata.
[9] Cfr. Theodor W. Adorno, Philosophie der neuen Musik, Tübingen, J.C.B.Mohr, 1949. Tr. it. Filosofia della musica moderna, Torino, Einaudi, 19756, dove si cita “la celia di Schoenberg secondo cui il Mondfleck nel Pierrot è scritto secondo le regole del contrappunto severo ammettendo le consonanze solo di passaggio e sui tempi deboli…”.
[10] Adorno, op.cit.
[11] Cfr. l’introduzione a Claude Levi-Strauss Le cru et le cuit, Paris, Librairie Plon 1964. Tr.it. Il crudo e il cotto, Milano, Il Saggiatore 1966.
[12] In AAVV, Gérad Grisey, I Quaderni della Civica Scuola di Musica di Milano, anno 15, n. 27, giugno 2000.
[13] La citazione è da Jauss, op.cit. p. 7. Jauss a sua volta cita da Theodor W. Adorno, Ästetische Teorie, vol. VII, Frankfurt am Main 1970, pp. 26-27. Tr.it. Teoria estetica, Einaudi, Torino, 1975, p.20.
[14] Daniele Barbieri, “Percorsi passionali”, Tempo Fermo n.2, 2003.
[15] Cfr. Theodor W. Adorno, Dialektik der Aufklärung, Fischer Verlag, Frankfurt am Main. Tr. It. Dialettica dell’illuminismo, Einaudi Torino 1966, pp. 273-174.
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* Appunti per un’estetica del senso, precedentemente pubblicato in Tempo fermo, n. 4 /2005.